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Sinistre: omologazione politica e subalternità mediatica. Dal caso del "terrorismo islamico" al caso del Sudan

Fulvio Grimaldi

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“Siamo sempre lì ad inseguire la destra su programmi e leader... La corsa alla conquista del centro? Una risposta pigra al problema. Secondo lo schema seguente: competere sulla fascia di confine, conquistare i moderati con politiche che somigliano a quelle della destra. Ovvero: prendere i temi della destra con una riverniciata. Riveduti e corretti, una spruzzata di equità sociale in più. E si immaginano leader che somigliano a quelli della destra, nella speranza che possano competere e vincere rispetto al modello di partenza... Valorizziamo le nostre diversità... con passione schierandoci... Domando: è ancora il caso di spingere sulle privatizzazioni, sulle liberalizzazioni dei servizi pubblici essenziali... credo che sia arrivato il momento di ripensare ad un intervento pubblico. La logica del pareggio economico nella sanità, quel funzionare solo come azienda, il pensare sempre agli utili, al deficit, e non ai cittadini più deboli, è un mito che si può discutere? Così come non dobbiamo più inseguire Berlusconi sull’immigrazione. Vogliamo dirlo, una buona volta, che il nostro paese può diventare più bello, più colorato, più vivo grazie agli immigrati?... È difficile pensare di poterci presentare, dieci anni dopo, con lo stesso schema di dieci anni prima. Gli stessi linguaggi, le stesse proposte. Lo stesso gruppo dirigente... Il problema è trasmettere la volontà di cambiamento, far crescere in questa chiave i nuovi gruppi dirigenti. Ed è un problema collettivo...”

Scusate la lunga citazione, ma ne valeva la pena. È con soddisfazione, immagino, che abbiate letto la lezioncina impartita con garbo, ma anche con fermezza e, soprattutto, chiarezza di idee, a chi? Ma non ci sono dubbi: il destinatario non può che essere lui, l’uomo dai baffetti, quello con la puzza al naso che non si accorge che è la sua, la quintessenza della kràsis, mescolanza, di sicumera con brevimiranza, di spocchia e toppata, di ego e servilismo inciucista. Se, dunque, è del tutto evidente che ci si rivolge al bipartigiano per vocazione (salvo, contingentemente, in campagna elettorale), Massimo D’Alema (e solamente in seconda battuta a leader-ombra come Fassino), è anche abbastanza probabile che si sospetti per il rabbuffo un’origine di sinistra, più di sinistra, nel caso del destinatario per niente difficile. Tanto poco difficile che, non potendo provenire né dai verdi, né dai cossuttiani, in quanto già partecipi dei propositi e spropositi dalemiani, uno a prima vista sarebbe incline a pensare a Bertinotti. Solo a prima vista, però, perché poi gli sovverrebbe subito la memoria del patto di ferro stretto dal segretario di RC con il presidente dei Democratici detti di sinistra e che nel corso di cinque anni si è già lasciato alle spalle una scia di vittime: il primo Prodi, Cofferati, il Correntone, qualche milione di lavoratori privati dell’articolo 18, gli immigrati falciati dalla legge Turco-Napolitano (legge, è bene ricordarlo, della ministra ufficiale pagatore di Luca Casarini, pugnace difensore degli immigrati)...

Se Bertinotti non può proprio essere (e, a conforto, rileggetevi la morbidissima intervista-tappetorosso che il nom de plume di Bertinotti, Rina Gagliardi, fece a Baffetto all’atto del bertinottiano giuramento di Pontida sulla propria partecipazione ministeriale al prossimo governo ulivista senza se e senza ma), ecco che balza fuori un imbarazzante deus ex machina: la ramanzina ai copioni, ieri di Berlusconi, oggi del tiro a due Follini-Fini, l’ha fatta nientepopodimenoche Dario Franceschini, viceleader dei Popolari (“Repubblica”, 5/7/4). Paradossale? Mica tanto. Il signor Spock avrebbe detto “logico” di un’Enterprise che, vista l’astronave rivale finire in un buco nero, anziché inseguirla, invertisse la rotta. Una logica che il giovane postdemocristiano, depositario di millenarie astuzie ecclesiastiche, magari pratica meno di quanto efficacemente la racconti. Ma tant’è, Franceschini annusa il vento e, dunque, soffia anche lui. Non per nulla la continua rincorsa al centro dei dirigenti DS è stata smentita da un voto di opposizione che spinge verso sinistra, una sinistra comodissimamente a sinistra del Triciclo e che assomma al 13%, per Sartori addirittura al 20 e che, se ci mettiamo anche tutta l’incazzata e frustrata sinistra astensionista, farebbe vacillare l’assunto che sorregge i baffi di D’Alema secondo cui questo è un paese inesorabilmente di centrodestra.

Non è scientifico, né provato, ma qualcuno ha avuto la netta sensazione che quel 6,1% conquistato da Bertinotti, oltre a dover qualcosa alle scintillanti bolle di sapone sinistro-europee - pacifiste, ecologiste, femministe, liberaldemocratiche e mai, diononvoglia, mai socialiste - lanciate proprio alla vigilia del voto, possa essere tale per un 2% circa in più venutogli da figliol prodighi perdutamente unitaristi, evasi all’atto della rottura con Prodi, e da un bell’1% circa in meno di coloro che un rientro nel Prodi Bis, perlopiù ancorato a quell’Europa lì, alla Nato sotto D’Alema espansa all’universo mondo, alle bombe umanitarie, al pacchetto Treu, ai baffi bilaterali del criptorichelieu, alla pseudoistruzione di Luigi Berlinguer, alle mazzate ai manifestanti, lo vedono come un’innovazione (per usare il chiodo fisso di Fausto), nuova quanto la mummia di Similaun. Al di là delle opinabili alchimie elettorali, tante e diverse quanti sono in Italia i facitori di nazionali di calcio, resta solida la constatazione che al chansonnier da crociera, servo di due padroni (i suoi interessi, quelli della massoneria e quelli dei neonazi di Washington), è andata male. L’iperpersonalizzazione non paga più. Se ne sono accorti tutti, salvo Bertinotti, che, mentre addirittura un partitino del 2% come l’UDC esibisce una costellazione di esponenti da giostra televisiva (Follini, Volontè, Bottiglione, Casini...), resta la stella fissa e unica sull’orizzonte di Rifondazione e c’è da chiedersi cosa mai succederà qualora questo fiore del deserto dovesse appassire. Chi spunterebbe? Un Musacchio? Un Ramon Mantovani che nei fondi di bicchiere vedeva agitarsi gli “ipernazionalisti della Grande Serbia”? Un Nunzio D’Erme no, ché quello manco finge di essere comunista.

Cosa ha fatto l’opposizione riformista-radicale quando alla mazzata elettorale al Berlusconi si è aggiunta la dipartita di Tremonti e il premier ha scosso le colonne gridando “muoia Sansone e tutti i filistei” (il Sansone moderno, Sharon, attualizza solo la seconda parte dell’invocazione)? Ha chiesto elezioni anticipate che nessuno si sognava di concedere, ha ventilato un Aventino che ha provocato enormi erezioni in tutto lo schieramento celodurista (va da AN alla Lega a Cicchitto, saltando Bondi), non ha chiamato la gente a scendere in piazza a esigere quelle elezioni, con Epifani ha fatto gli scongiuri contro lo sciopero generale e, come scrive “il manifesto”, né la sinistra moderata, né quella radicale hanno avuto tempo o voglia di parlarsi, di proporre un’analisi e un intervento comune. Il “comune” è annegato tra i rimorsi che hanno lacerato il Triciclo sulla mozione comune per il ritiro degli occupanti italiani in Iraq. E allora, cosa ha proposto l’opposizione? Due terzi di essa ha temuto che Mario Monti accettasse la strumentalissima offerta berlusconiana, poiché lo auspica suo Mister Economia, assieme a Fazio per la bancona e Montezemolo per i padroni. Così, sempre secondo “il manifesto”, si è persa l’occasione della maggior crisi che la Casa delle il-libertà abbia vissuto, nella speranza che Berlusconi svanisca da sé. “Non sarebbe bello se gli italiani, che sono andati ancora al voto come in nessun altro paese europeo fidando che qualcosa possa cambiare, si convincessero che altro non c’è all’orizzonte” se non un governo simile a quello catastrofico e antipopolare del 1996, perlopiù in una situazione economica e istituzionale allo sfascio completo.

In tutto questo la “sinistra radicale”, addobbando lo spaventapasseri dell’alternanza dei due famosi fantini sull’unico cavallo delle élites borghesi, con il papillon eversivo dell’alternativa, termine che ha lo stesso peso della parola “comunista” dopo Rifondazione (tant’è vero che all’ultimo congresso era del tutto sparita, fino a quando un gruppetto di volenterosi non lo dipinse su un lenzuolo e lo appese sotto il naso del segretario orante), fa sostanzialmente da ruota di scorta a un triciclo a rischio di ripetute forature sociali, assicurate dalle lotte spontanee partite quest’anno e alle quali lo sposalizio concertativo CGIL-Confindustria spera di porre rimedio. Non sarà comunque facile per il duo euro-imperialista Amato-Prodi ordinare il “rompete le righe”, neanche con la collaborazione di Epifani. Ogni tentativo in questa direzione si dovrebbe scontrare con nuove e più forti mobilitazioni della classe lavoratrice, ultimamente riemersa con spiccata individualità dal pantano delle “moltitudini”. C’è chi nel vertice di RC, travisando completamente l’obiettivo strategico di Bertinotti, venutosi delineando con coerenza dal 1993 ad oggi, spera ancora di aprire una polemica frontale contro i tentativi di puntellare la linea concertativa, guerracompatibile e ultraliberista dell’Ulivo e della CGIL. Andrà in bianco, a meno che, con tardiva resipiscenza, s’impegni sul terreno politico per rompere un’alleanza che subordina gli interessi dei lavoratori e dei popoli a quelli delle classi dominanti e degli aggregati imperialisti. A questo punto, pare che tutto verrà rinviato al congresso di primavera, cioè di quel tanto che occorre agli inventori della Sinistra Europea per rinfoltire le dimagrite schiere di comunisti nei partiti nazionali d’origine, con un afflusso rigenerante di cattolici, ambientalisti, girotondini, nonviolenti di estrazione varia, riformisti alla buona.

Se l’europeismo capitalista e imperialista prodiano è l’originale, quanto lo è nel nostro paese il golpismo reazionario di Forza Italia, l’Europa “laboratorio della sinistra alternativa”, nientemeno, di Bertinotti, e della banda di burocrati che vi si è acciambellata per sfuggire alle intemperie della propria disgregazione, equivale alla copia corretta, al pari della versione bersaniana e treuiana della governabilità nazionale. E assumendo, in cambio di sonanti eurcontributi finanziari, il riconoscimento delle tavole della legge UE, dal libero mercato alla fortezza anti-immigrati, dallo spazio repressivo al riarmo, il vertice della sinistra “radicale” non poteva non attribuire alla “nuova America” di John Kerry e del similFrattini (l’Uomo Upim) John Edwards, il ritrovato ruolo di “madre di tutte le democrazie”. È tempo di “copie corrette”, di cambio di fantino sulla stessa cavalcatura. Kerry ha auspicato più soldati per l’Iraq di Bush, vuole una Nato sempre più out of area, ha omaggiato il fascistico Patriot Act del 2001 e l’assunzione di pieni arbitri militari da parte del presidente nel 2002, ha giurato ulteriori guerre preventive e permanenti al “terrorismo internazionale”, ha ripetuto i vaniloqui clintoniani sulle fasce deboli e sull’occupazione, ha promesso ferro e fuoco alla rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez e ulteriori strette di nodo scorsoio a Cuba, ha assicurato cieca (?) complicità con i macellai al potere a Gerusalemme, non ha detto mezza parola, oltre alle andatissime “mele marce”, sui mattatoi alla Torquemada di Abu Ghraib, Guantanamo, Bagram, Kandahar e tutti gli altri luoghi delle nequizie di Stato statunitensi, e neppure sui serial killer nella magistratura USA, si è inserito nell’ininterrotta serie sanguinaria di presidenti USA, democratici compresi (Roosevelt, Truman, Kennedy, Johnson, Clinton: un bilancio di 60 interventi imperialistici e circa 30 milioni di morti) con coerenza di intenti e solida continuità patriottica.

Ma la “sinistra radicale” ha pensato bene di coniugare i partner riformisti D’Alema-Fassino-Rutelli-frange minori con un possibile partner neoatlantico “liberal” e di rivolgersi ad entrambi con la medesima speranzosa benevolenza. Leggere per credere: da Rossana Rossanda che inveisce contro coloro che mettono a rischio la “nuova America” di Kerry scommettendo su nessuno dei due fantini, o magari rivolgendosi all’unico antiguerra, Nader, a Luciana Castellina che individua tra gli zoccoli del destriero cavalcato da Kerry il ritorno dell’America che amavamo, di quell’intellighenzia progressista che ci ha dato i Kerouac e i Warhol (“Non si tratta di giudicare quanto Kerry sia meglio di Bush, quel che conta è che un presidente democratico è sempre più sensibile ai movimenti”); dal Sandro Curzi, lo pseudonimo borgataro di Bertinotti, che ricorda “le due volte che gli americani vennero in soccorso dell’Europa” (e tutti a chiedersi se si riferisse all’uscita del già collaudato militarismo imperialista USA dal proprio continente nel 1915 e alla mafizzazione e colonizzazione dell’Italia nel secondo conflitto mondiale), al Guido Caldirol, della stessa testata, che passa dal ruolo di fumogeno, denso di persecuzioni antisemite, attorno al terrorismo di Stato israeliano e alla dilagante persecuzione dei musulmani, all’aperta esaltazione della prospettiva Kerry. Senza neanche parlare de “l’Unità”, dove Furio Colombo si commuove alla rimpatriata con i vecchi amici dalle tante mistificazioni “liberal”, o del “Riformista”, che del resto, impaginato da D’Alema, si colloca con soddisfazione all’ultradestra dello schieramento che, per Bertinotti, dovrebbe far vivere “l’alternativa”. Sembrerebbero i tre porcellini che a un Ezechiele, che fuori ulula e soffia, aprono la porta per non sembrare prevenuti, e invece sono tre porcellini geneticamente modificati che, tra le zampe del lupo, sperano di nutrirsi alla stessa greppia.

È lecita, seppure non proprio scientifica, la domanda se sia nata prima la subalternità di queste sinistre di lotta (?) e di governo (!) - e, almeno dal 1944, di compromesso - all’ideologia e alla cultura dei padroni, o alla loro informazione. Essendoci già abbastanza arrovellati su uova e galline, lasciamo perdere, se non per osservare che, ad ogni modo, se continui a prendere per buone categorie valutative, definizioni, paradigmi e notizie dell’informazione-comunicazione imperialista, hai buone chances per finire di pensarla come coloro che la diffondono. Valga per tutti, l’esempio della “globalizzazione neoliberista”, passivamente recepito e entusiasticamente ristrombettato come totalizzante visione del mondo, non solo dal movimento no global, cui molto si può perdonare per trattarsi di spontanea espressione di disagio collettivo, senza storia né progetto, ma addirittura da chi, per storia della propria ascendenza (per quanto rinnegata), dovrebbe saperla più lunga, a partire dalle espansioni commerciali iberiche e dalla Compagnia delle Indie. C’erano in proporzione più scambi, dettati dal modo di produrre e distribuire capitalistico, alla vigilia della prima guerra mondiale, che non all’apice dell’attuale “globalizzazione” che vede ancora un terzo abbondante dell’umanità ad almeno 300 km dal più vicino telefono. Ma “globalizzazione” è parolina inoffensiva, come mi diceva il poeta cubano Victor Luis Lopez, ottima per mimetizzare la massima aggressività imperialista della storia postvittoriana. Come pure “neoliberismo” s’intende meglio allorché lo si denuda come eufemismo per “capitalismo”. Non molto diversamente la “fine dello Stato nazionale” e la nascita del negriano “Impero” - nel quale tutti i gatti sono bigi e danzano tenendosi per mano, le contraddizioni interimperialistiche si sono dissolte in un comune governo planetario astatuale e multinazionale - sono state recepite con passione da antichi disillusi dell’“internazionalismo”, quasi ci fosse da cantare: “Non più nazioni, non più frontiere, ma sui confini rosse bandiere”, quando dalla confusione stava invece emergendo il Leviatano più solido e prevaricatore dagli Asburgo in qua. E tra “piccolo è bello”, il disobbediente e criptoleghista muncipalismo partecipativo e le fantasticherie sovranazionali europee, si è dato un’ulteriore mano sia all’imperialismo, il cui Stato-guida ha per le statualità nazionali altrui la stessa simpatia di un pescatore di palude nei confronti delle zanzare, sia alla borghesie che vedono i soggetti potenzialmente antagonisti deviare le loro lotte dal naturale terreno di confronto nazionale, verso fumose dialettiche nell’Europa dei banchieri e finanzieri, dei boss e dei generali.

Sussumere la non violenza di un Ghandi mitizzato (e del tutto scisso da una realtà che ha visto Londra in ginocchio preferire la consegna dell’India a un digiunatore pacifista, aristocratico e classista, oltrechè castista, piuttosto che alle masse insorte guidate da partiti di sinistra), ha allargato il magnetismo bertinottiano verso le vaste aree che riscattano la cattiva coscienza borghese in luoghi come Emergency, nei facili ma contradditori proclami del papa, o nella vittimofilia della Caritas. Ma, più importante, ha rassicurato i settori violentemente predatori della società sull’accettazione della prima regola di convivenza da loro impartita, da che mondo è mondo, agli sfruttati e oppressi (salvo quando si tratta di guerreggiare per la “patria”), negando a costoro la carta estrema e storicamente decisiva per vincere la partita: l’autodifesa. Alla criminalizzazione della violenza difensiva, biologicamente propria dei proletari, si accoppia naturalmente il senso di colpa nel caso della minima violazione del sacro dogma, da cui la ripetizione del rapporto, esiziale per l’umanità cattolica, confessore-peccatore confessante. Sono qui da trovarsi le “radici cristiane” del Bertinotti rivalutatore delle religioni, perfino del Dalai Lama e sdegnato critico della rimozione del crocefisso “da là dove ormai sta”. Ne consegue anche l’entusiasmo delle sinistre istituzionali tutte per le ricorrenti trovate di settori dirigenti israeliani e palestinesi, finalizzate a fermare l’Intifada attraverso “dialoghi” tra le parti, come il più recente “Accordo di Ginevra”, il cui vero scopo è togliere le castagne dal fuoco a un Israele al collasso economico e sociale in virtù della lotta palestinese e a una borghesia palestinese la cui autorità è stata dissipata nei traffici, nei collaborazionismi, nella repressione. Accordi di Ginevra che ai palestinesi negano i fondamenti costitutivi della sovranità: confini, difesa, sicurezza, ritorno degli espulsi, addirittura l’acqua. Rispetto a Sharon e affini, hanno il merito di lasciargli l’aria.