Sinistre: omologazione politica e subalternità mediatica. Dal caso del "terrorismo islamico" al caso del Sudan
Fulvio Grimaldi
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Se sulla non violenza - in cui si è riusciti astutamente ad
irretire un da tempo vacillante Pietro Ingrao - ci si è appassionati al
dibattito se con il trattino, senza il trattino, o tutt’unito, magari con l’iniziale
maiuscola (alla faccia della resistenza “troppo angelizzata”) è uno sbuffo
d’incenso, sull’accettazione del concetto “terrorismo”, allargato
coscienziosamente a “terrorismo islamico”, c’è stata confluenza immediata
e universale, da Storace a Bertinotti, da Giuliano Ferrara a Luisa Morgantini
(la quale donna in nero si è spinta anche oltre, fino ad azzardare, da sopra le
macerie ancora fumanti della Jugoslavia, un “fascismo serbo” di Milosevic).
Dai “terrorismi islamici” si è transitati con allegra disinvoltura ai “terroristi
kamikaze” e poi ai “terroristi palestinesi” tout court, con più
indirette e imbarazzate estensioni ai lanciatori nostrani di lattine di gazosa,
fino alla coincidenza quasi osmotica con gli occupanti sulla natura terroristica
di qualsiasi cosa che scoppi in Iraq, si tratti di trasparentissime creazioni
Cia-Mossad come i miracolosamente ubiqui Osama e Zarkawi, come certe
decapitazioni di sapore israeliano, come gli eccidi di Croce Rossa e moschee,
oppure di un popolo sondaggisticamente e con ogni evidenza al 90% in rivolta
contro il predatore genocida.
Si può ben dire che il passi definitivo per l’ingresso
nella “comunità internazionale” queste sinistre l’abbiano meritato con la
bertinottiana “spirale guerra-terrorismo”. È il paradigma della combriccola
golpista al potere a Washington, ma anche dei suoi possibili successori e di
quasi tutti i galantuomini in voga in Europa, da Chirac a Blair, da Schroeder ad
Agnolotto: inizia la spirale il terrorismo, risponde la guerra, cui risponde il
terrorismo, cui risponde la guerra, via via spiraleggiando all’infinito. Con
una differenza, che peraltro non mette in discussione l’ontologia dell’assunto,
per cui i galantuomini inarcano le sopracciglia sull’“errore di una risposta
bellica al terrorismo” e concedono a quest’ultimo l’attenuante della
provocazione, cosa che non muta il giudizio. Condizione determinante di questa
concordia è un punto di partenza assolutamente comune: il terrorismo è
islamico, e a volte anche un po’ cristiano (aspettate che i proletari
venezuelani si difendano contro l’ennesimo golpe!) ed è comunque e sempre
antidemocratico. Con il che si scivola, volenti o nolenti, nello scontro di
civiltà di Huntington, premessa ideologica per la conquista imperialista del
mondo, e nella demonizzazione di chi mette in discussione l’inesorabilità e
bontà della democrazia borghese (in cui già si identificò, a nome di una
tradizione ormai consolidata, tale Ugo Pecchioli, ministro di polizia-ombra nel
’68 e seguenti). Ne conseguono scivoloni abbastanza tragici come il famigerato
“né con la Nato, né con Milosevic”, che indubbiamente rimosse remore,
almeno morali, alla liquidazione di un tentativo non del tutto perduto di
democrazia socialista e multietnica, nonché la mostrificazione - perlopiù
costruita nei laboratori di Langley, ma sempre recepita senza riserve e senza
verifiche - dei vari capistato canaglia che intralciano la marcia degli
imperialismi. Le tonnellate di materiale di informazione vera, resa tanto più
credibile quanto più le versioni ufficiali venivano polverizzate dalle proprie
incongruenze, elaborata soprattutto negli Stati Uniti e in consolidati centri
internazionali di controinformazione, anche sulla base di precedenti storici
provati, sulla matrice bianca, cristiana, anglosassone e, all’occorrenza,
semitica, del terrorismo stragista, da New York al mondo intero, hanno lasciato
il tempo che hanno trovato, salvo qualche barbaglio trasparso sul “manifesto”.
Sennò che spirale sarebbe stata?... E qui il collateralismo con l’imperialismo
è oggettivo e riveste responsabilità di portata epocale. Collateralismo del
resto non innaturale, vista la tradizione colonialista sul piano ideologico
praticata nei confronti del Sud del mondo in parallelo sia dalla borghesia, sia
da una certa ortodossia vuoi trotzkista, vuoi stalinista e che si riassume nel
verdetto di Bertinotti sulla resistenza irachena che non meriterebbe ancora la
“R” maiuscola, perché non ne è chiaro il progetto politico. Le lotte di
liberazione nazionali, o sono politically correct come i Premi Strega di
Vespa, o se ne vadano al diavolo. E, comunque, sono tutte antipaticamente poco
non violente. Vane le parole di uno dei massimi analisti della geopolitica
statunitense sotto la cosca Bush, Michel Chossudovsky, all’indomani dell’inflazione
“Al Zarkawi”: “Gli apparati dell’intelligence americana creano le
proprie organizzazioni terroristiche. E, allo stesso tempo, creano le proprie
minacce e attività terroristiche che vengono imputate alle organizzazioni da
loro stessi create. Contemporaneamente sviluppano un programma di antiterrorismo
da molti miliardi di dollari per dare la caccia a quelle stesse organizzazioni
terroristiche. Antiterrorismo e propaganda di guerra sono dunque interconnessi”.
Chossudovsky, economista di fama mondiale e a capo del centro i ricerca “Global
Research” di Toronto sa di cosa parla: nessuno meglio del suo gruppo ha fatto
a pezzi la versione ufficiale sugli autori, sulle motivazioni e sulle
circostanze dell’11 settembre 2001, contribuendo a quello che dovrebbe essere
il compito primario di qualsiasi forza anticapitalista ed antimperialista: lo
smascheramento e, quindi, la delegittimazione dei criminali al potere.
Finisco con un episodio altamente rappresentativo di quanto
sopra. Sudan. Nei caldi giorni di giugno-luglio, che la Resistenza irachena, i
contraccolpi in Afghanistan, l’efficace risposta politica di Cuba all’aggressività
statunitense con intendenza europea al seguito, e la tenuta di Hugo Chavez in
Venezuela, la botta Zapatero, facevano ribollire ulteriormente sotto i piedi
dell’establishment imperialista, tutti presero a occuparsi con crescendo da
visibilio del Sudan. Un depistaggio salutare per gli occupanti, invasori e
cospiratori sotto tiro: via dalle umiliazione di una guerra in via di sconfitta
in Iraq come in Afghanistan, via dall’invadenza di Guantanamo, via da Abu
Ghraib, via dai sondaggi di un Bush sullo scivolo. Via verso un prodotto tenuto
da tempo sullo scaffale, come quel farmaco inventato negli anni ’60 e a cui l’AIDS,
scoperto, forse, secondo mezza dozzina di Nobel, fabbricato, vent’anni dopo,
offrì il lungamente sospirato mercato. Via verso quell’”umanitarismo” che
tanto bene aveva funzionato per la Jugoslavia. Solo pochi giorni prima della
fenomenologia Sudan, quel paese era riuscito a comporre una quarantennale guerra
civile istigata da forze esterne - statunitensi, israeliani, Vaticano - facendo
leva sul solito separatismo etnico-confessionale. Non solo aveva indebolito gli
strumenti cospiratori degli destabilizzatori esterni, ma aveva anche stretto -
colpa gravissima - rapporti privilegiati di collaborazione economica con la
Cina. Il Sud, ricco di risorse petrolifere, idriche e lignee, era stato conteso
tra un governo centrale e forze secessioniste che, oltre a tutto, erano
ferocemente divise tra loro. L’ONU ha calcolato che la maggioranza dei
profughi e delle vittime era dovuta allo scontro tra bande antigovernative. L’accordo,
firmato in Kenya, risultò assai vantaggioso per le forze ribelli di John Garang
e loro sponsor (comboniani e petrolieri) e assai gravoso per lo Stato. Khartum
acconsentì a minare l’unità nazionale concedendo ai leghisti del Sud vaste
proporzioni dei redditi petroliferi e un referendum su unità o secessione tra
sei anni.
Non si è asciugato l’inchiostro della firma di pace, che
nelle regioni occidentali del paese, da sempre a rischio di desertificazione e
carestia, spuntano ben due “eserciti di liberazione nazionale”, ai quali si
oppone una milizia di autoprotezione degli abitanti chiamata Janjaweed,
sostenuta ovviamente dal governo di Omar al Bashir. Agenzie, televisioni e
giornali di tutto il mondo si riempirono subitaneamente - seppure tutti privi di
inviati sul posto, ma generosamente imbeccati dall’ONG di regime americana
UsAid - di cronache raccapriccianti sugli orrori perpetrati... da chi? Ma
naturalmente dal governo e dalle sue milizie. Insomma, delinquente
diventa non chi cerca di spaccare il paese, ma chi ne difende l’unità, in
particolare contro le cospirazioni smembratici dell’imperialismo, come in
Jugoslavia, come in Iraq. Il Ciad, paese confinante e, insieme all’Uganda (che
sostenne i secessionisti del Sud) massima colonia statunitense nel Centroafrica,
dà il suo apporto con incursioni armate nel Darfur, di cui nessuno fa parola, e
lamentando l’afflusso in campi profughi dei “fuggiaschi dalle persecuzioni
di Khartum”, 10.000? 100.000? Un milione? Gli antipatizzanti del Sudan si
sbizzarriscono. Come sul conto delle vittime, da 10mila a qualche milione.
Eccelle, naturalmente Radio Radicale, reduce da analoghe operazioni in Cecenia e
con i Montagnard cattolici del Vietnam. Repressione governativa? Guerra civile?
Massacri dei janjaweed? A tutti libertà di bufala.
Non c’è voce fuori dal coro, da Colin Powell e Kofi Annan,
all’ineffabile reperto della “cooperazione” alla Craxi, Margherita
Boniver, precipitatisi sul posto, il primo per minacciare “interventi della
comunità internazionale”, il secondo per deplorare la catastrofe umanitaria,
la terza per berlusconeggiare all’ombra del padrino USA (catastrofe ecologica
da cambiamenti climatici, da mancanza d’acqua e, dunque, di pascoli e coltivi,
che potei testimoniare già dieci anni fa, senza che nessuno vi desse retta per
carenza di peperoncino politico); con il contributo mediatico di prammatica: dal
sionista New York Times (e quanto Israele sia coinvolto da 40 anni in
Sudan lo sanno i servizi di tutto il mondo) al “manifesto” e a “Liberazione”,
passando per “Libero”, la grande stampa, tutti i Tg e, ovviamente, con
particolare accanimento, l’agitprop vescovile “L’Avvenire”.
Non un organo della sinistra istituzionale che si ponga
qualche dubbio, che condivida la mastodontica impressione del deja vu di
tutti i seri esperti di Africa, mondo arabo e imperialismo. Nessuno che vi veda
un nodo di quella ragnatela che gli USA e, all’inseguimento, gli europei,
stanno tessendo attorno alle risorse e alla sovranità dei paesi africani,
petrolio in testa. Interrogo funzionari e tecnici FAO che da quelle parti, a
portar cibo, si stanno sbattendo da decenni e, all’unisono, tutti smentiscono
la montatura occidentale.
Ricordate la Exodus, col suo carico di “poveri
ebrei, donne e bambini, in fuga dall’olocausto, diretti verso la patria dei
padri” (?), che viene fatta crudelmente girovagare davanti alle coste del
Medio Oriente, con gli spietati inglesi che non li fanno sbarcare dove gli
compete? Non era forse uno dei grimaldelli per aprire la porta ai rapinatori
della Palestina? Oggi, la campagna per lubrificare un’aggressione colonialista
al Sudan si avvale della Cap Anamur, la nave dell’omonima - e fino a
ieri sconosciuta - ONG tedesca, presieduta dall’ebreo tedesco Elias Birdel,
che per settimane viene lasciata al largo di Porto Empedocle. A bordo,
naturalmente, 36 profughi - vittime predestinate sulla cui pelle si gioca una
partita oscena, qualunque sia il loro ruolo o la loro consapevolezza - tutti a
priori definiti “sudanesi”, ma che poi risulteranno anche di altri paesi in
guerra. Profughi “dai massacri governativi, o meglio arabi, nel Darfur,
vittime con ancora gli orrori negli occhi, miserabili cui è stato tolto tutto,
casa, terra, pozzo, famigliari...” Siamo al diapason, non c’è bollettino,
cronaca, speciale che non batta la grancassa della tragedia umana, corredata di
immancabili filigrane sul “genocidio” (non è mai quello dei collaudati
israeliani, o anglo-italo-americani, è sempre arabo o musulmano). E la sinistra
segue con entusiasmo da neofita, come per la sceneggiata dei kosovari albanesi
sullo spiedo serbo, come per i bambini kuwaitiani strappati dalle incubatrici
dalla soldataglia di Saddam (raccontata dalla figlia lacrimante dell’ambasciatore,
travestita da infermiera in finto ospedale dentro l’ambasciata del Kuwait a
Washington, ma innesco per la Guerra del Golfo), come per l’11 settembre dei
cavernicoli dell’Afghanistan, che poi si lasciano polverizzare il paese e
portar via a carrettate verso centri di tortura, senza neppure più lanciare un
aeromodellino contro un McDonald’s. E non li sfiora la minima resipiscenza
neanche quando Christopher Hein, direttore del Consiglio per i Rifugiati con
sede a Roma, denuncia in chiari termini: “Secondo le leggi internazionali la
nave è territorio tedesco e il capitano funge da pubblico ufficiale per cui è
tenuto ad accogliere la richiesta di asilo degli immigrati e trasmetterla alle
autorità tedesche”. Del resto lo stesso comandante Birdel, che ha girovagato
per giorni in silenzio tra Malta, e Lampedusa, ammette i propri giochini con le
regole di sbarco che lo avrebbero condotto a Malta, chiedendo scusa alle
autorità italiane per avere violate. Però ribadisce tignoso, chissà perché,
“noi a Malta non ci andiamo!” Intanto rimangono del tutto nebbiose le
circostanze del recupero: da dove veniva il gommone, chi lo pilotava, dove sono
finiti i responsabili. E fanno impressione anche i “profughi”: gente tra i
17 e i 30 anni, robusti, in gran forma, aria da combattenti, insolitamente senza
una donna, un bambino, un vecchio. Sarebbe maligno pensare che sono stati
reclutati per la bisogna da qualche “esercito di liberazione”? Aspettate che
arrivino a terra, siano abbracciati da Ciampi e un Berlusconi-lacrima-al-ciglio
e raccontino le loro agghiaccianti storie. Intanto il Consiglio di Sicurezza
intima a Khartum di disarmare le milizie janjaweed, ma nulla dice delle
armate secessioniste che dall’inizio dello scorso anno, armatissime,
terrorizzano e saccheggiano i villagi. “Human Rights Watch”, immancabilmente
presente là dove si svolgono tempeste umanitarie politicamente redditizie,
lamenta la “debolezza delle pressioni su Khartum”.
Il capitano filo-israeliano ha atteso 9 giorni prima di
comunicare a Porto Empedocle la richiesta di sbarco dei migranti. Gli servivano
per allontanarsi da Malta, nelle cui acque i naufraghi sarebbero stati pescati
da un gommone, pescaggio tempestivamente ripreso da telecamera tempestivamente
sul posto, e al cui governo avrebbe dovuto indirizzare la richiesta. Malta era
disposta ad accogliere i 36, ma a Malta la cosa, risolta subito subito, non
avrebbe fatto rumore. Ecco quindi il peregrinare davanti alla Sicilia, all’Europa,
al modo della Exodus, pronti per un’analoga operazione hollywoodiana,
con tutti che fanno la parte in commedia: i tedeschi che non ne vogliono sapere,
gli italiani che prolungano l’effetto imponendo il rispetto delle regole di
sbarco, i cronisti che saltano sulla nave a raccontare gli orrori del Darfur, l’intervento
alla grande di campioni dell’ambiguità non governativa e addirittura di Amnesty
International. L’evento si presenta succulento, per i buonafede, per i
malafede, per gli esibizionisti: arrivano a stormo Legambiente, Arci, Tavolo
Migranti, Comitati a perdere, Cgil, Prc, parlamentari, giuristi, sindaci e, come
commissari politici, i frati comboniani. Calogero Micciché e Paolo Cento
solidarizzano con sciopero della fame. Compaiono con le fanfare anche quei veri
e propri rincalzi delle guerre imperialiste che sono Medecins sans frontieres,
l’organizzazione di Bernard Kouchner, governatore del Kosovo e supervisore
dell’unica vera pulizia etnica vissuta dalla provincia serba, quella di
300.000 serbi trucidati o cacciati, quella di 135 chiese e monasteri bizantini
inceneriti. Eventi passati nel silenzio del “manifesto” e di “Liberazione”,
che pure qualche responsabilià nell’accreditare le balle dei guerrafondai ce
l’avevano e ora la loro gigantesca coda di paglia la nascondono tra le gambe.
Sono quelli di Msf che colmano i migranti di ogni ben di dio, insieme ad altre
ONG, mentre nel contempo, silenziosamente, carrette del mare piene di gente poco
interessante va a visitare i CPT di Bossi-Fini-Turco-Napolitano, o i pesci.
Naturalmente il primato degli interventi umanitari spetta al tabloid di Curzi,
che non si perita di ripubblicare con massima enfasi un libello de “L’Avvenire”,
dettato da quegli apripista del colonialismo che sono i padri comboniani. Lì,
più che altrove, il baricentro ce l’hanno “i criminali al potere a Khartum”
e gli abitanti del Darfur, “dove la popolazione è vittima delle incursioni
delle truppe di Khartum”. Non una parola sugli “eserciti di liberazione” e
il terrorismo che seminano nel nome della secessione filoccidentale. Ciancia, il
giornale della Chiesa, di “guerre dimenticate”, di “ennesima campagna di
islamizzazione di una regione abitata da cristiani e animisti”. L’intento
propagandistico e svergognato dal falso: nel Darfur vivono esclusivamente
musulmani, arabi e neri. “L’Avvenire” sbaglia clamorosamente ma
consapevolmente: non è nuovo al fiancheggiamento delle guerre (si pensi a Ruini
e all’Iraq, a Woytila e alla Croazia cattofascista lanciata contro la Serbia
ortodossa e socialista, o alla Bosnia della Sarajevo proclamata “martire”
mentre scacciava per sempre metà della popolazione, quella serba), straparla
dell’urgenza di “illuminare una tragedia sulla quale i riflettori dell’opinione
pubblica e dei massmedia internazionali rimangono regolarmente spenti”.
Questo, in un momento in cui i fasci dei riflettori occidentali sul Sudan sono
talmente accecanti da farci vedere anche cose che non esistono. A qualcuno è
tornato in mente il 1996 allorchè il “democratico” Clinton bombardò a
Khartum l’unica fabbrica di farmaci anti-Aids e anti-malaria a basso prezzo di
tutta l’Africa, facendola passare per fabbrica di armi chimiche e campo d’addestramento
di Al Qaida? Quanto ci volle perché la stampa “alternativa”, quella che con
“Liberazione” chiama “assassini” i partigiani iracheni, si accorgesse
dell’abbaglio? Ci volle la BBC! E intanto la “roccaforte terrorista”
sudanese aveva offerto a Washington la consegna di un Osama bin Laden, passato
da quelle parti e arrestato, e si era vista rispondere: “Per carità, non ci
interessa, mandatelo in Afghanistan”...
Insomma i vescovi fanno il loro mestiere, come i radicali,
come i guerrafondai. Ma “Liberazione”? Bertinotti? Rossanda? Di “l’Unità”
o del “Riformista” non mette neanche conto parlare. Ma gli altri non ci
volevano convincere della profonda differenza tra alternanza e alternativa, tra
riformisti e radicali? Lo scenario internazionale è la più evidente cartina di
tornasole di un consociativismo da futuro governo capitalista insieme,
barcamenandosi tra l’uno e l’altro imperialismo. E non da oggi. Pensate alla
Jugoslavia, letteralmente tradita e mandata al macello con impegno senza eguali
nella diffamazione del suo governo e del suo popolo; pensate a Cuba, dove
terroristi mercenari dei killer USA diventano democratici dissidenti; all’Iran,
dove seduta stante si sposano le ragioni degli “studenti” in marcia contro
il governo con tanto di bandiere statunitensi al vento; a Haiti, sbranata dai
toton macoute, dai marines e dai francesi e scandalosamente raccontata come
episodietto esotico, con quello “strano”, “insufficientemente democratico”,
di Aristide, e subito archiviata, alla faccia del prossimo Chavez, o Fidel; allo
Zimbabwe di un leader come Mugabe, che si ostina a difendere il proprio popolo
dalla voracità dei feudatari bianchi e diventa ovunque un “tiranno
sanguinario”; al Tibet, di cui Bertinotti in persona esalta la guida
spirituale nella nota figura di provocatore Cia del Dalai Lama, ultimo di una
dinastia di tiranni medievali, rapitori di bimbi e pedofili; all’Algeria delle
sobillazioni berbere, fatte passare per emancipatrici e democratiche, istigate
dalla Francia revanchista; al Venezuela, ai cui golpisti al soldo di Washington
Massimo D’Alema, partner di complotto e di governo futuro, offre consenso e
plauso; alla Cecenia, per la quale, pur davanti a ospedali, o treni, o teatri
fatti saltare con tutti dentro, il “manifesto” non sprecherebbe mai la
parola “terroristi”, pur sapendoli addestrati alla bisogna dalla Cia in
Afghanistan. Tutti questi falsi avvallati, insieme alla patacca del terrorismo
islamico autogeno e alla lobotomizzazione della non violenza, sono stampelle al
capitale e alla sua espressione imperialista, pari pari a quelle fornite dal
sedicente Partito Comunista Iracheno, collaborazionista, membro del governo Cia
di Iyad Allawi, partito più di tutti coccolato dagli USA come splendida
copertura a sinistra, alleato del narcotrafficante curdo Jalal Talabani, agente
israeliano, delatore della lotta di popolo per la libertà, al quale Gennaro
Migliore, responsabile esteri RC dal nome-scherzo, ha voluto gemellare il suo
partito.
L’elenco è tragico, raccapricciante. Ricorda il tradimento
delle proprie responsabilità verso chi ha lottato e sanguinato prima di te,
verso chi ti crede, verso la classe, verso la verità, praticato 14 anni or sono
da Achille Occhetto. Attenzione, quell’“innovatore” lì oggi si aggira per
loschi cunicoli della politica, alla ricerca disperata di sopravvivenza, per
quanto vergognosa. Non è un bel vedere.
In Rifondazione qualcosa pare muoversi. Due donne di
prestigio, Lidia Menapace e Ritanna Armeni, hanno di recente pubblicato un
attacco feroce al personalismo in politica e nei partiti. Parlavano a suocera
perché nuora intenda? Chi più Cesare, più “non avrai altro dio all’infuori
di me”, del sub-sub-comandante? Giorgio Cremaschi ha sparato a zero contro il
concertazionismo risorgente all’orizzonte del governo D’Alema-Bertinotti e
denuncia: “Come in politica, si discute sulla forma degli schieramenti e delle
alleanze a prescindere dai loro contenuti (i famosi “punti” flebilmente
invocati dall’area dell’“Ernesto”). Questa scelta rischia di
depotenziare i movimenti di lotta. Il punto è, se si vuole affrontare la crisi,
occorrono politiche alternative al liberismo a tutti i livelli...”.
Giusto Giorgio, ma finchè non si aggiunge, per esempio, che
con lo squartatore della Jugoslavia, il falsario della guerra umanitaria, il
criminale di guerra che ha bombardato e ucciso migliaia di inermi cittadini, lo
sponsor dell’associazione a delinquere “Arcobaleno”, quello che non perde
occasione per sputare in faccia a brave gente che marcia per la pace e a cui il
“puzza-al-naso” fa ribrezzo da capo a piedi, che con questo soggetto non si
prende nemmeno un tè alla buvette e, tanto meno, si comprano pezzi raffermi di
governo, hai voglia di ammonire.