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Convegno CESTES PROTEO-ACUNI

Riforma Berlinguer tra innovazione e subalternità economico-culturale

Estratti degli atti del convegno

Di seguito si riporta, per motivi legati alle disponibilità di spazio sulla rivista, soltanto una sintesi degli interventi del Prof. G.Alvaro e del Prof. F.Pitocco, in quanto rappresentando le relazioni introduttive al dibattito delineano i caratteri giuda e i contenuti che CESTES-PROTEO e l’ACUNI hanno, di comune intesa, voluto evidenziare come elementi di analisi critica e di riflessione sulla riforma proposta dal Ministro dell’Università, Ricerca Scientifica e Tecnologica, L. Berlinguer.

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Intervento del Prof. G.Alvaro

 

Innanzitutto mi si permetta di esprimere i miei più affettuosi auguri per l’inaugurazione di questo Centro Studi.

Auguri di successi, auguri che nel tempo ampi saranno i dibattiti che si terranno in questa sede sui vari aspetti della vita politica, economica e sociale del Paese.

Un’inaugurazione di un Centro Studi è e deve essere sempre considerata un momento di crescita per tutti noi, perché quando, attraverso la sua attività, alimenta il dibattito, la vita del Centro Studi ha come ultimo effetto quello di stimolare il processo di aggregazione, di partecipazione di ciascuno di noi al consolidamento e alla crescita della democrazia.

Mi si permetta ancora di ricordare che questo Centro Studi viene inaugurato a distanza di qualche mese dalla costituzione di questa nostra associazione ACUNI, che, con la presidenza del Prof. Tecce, abbiamo sentito il bisogno di attivare, in quanto molti di noi avvertivano che si stava e si sta registrando nel Paese un pericoloso calo di tensione nel dibattito relativo alle questioni più delicate della vita del Paese, tra cui lo sviluppo della cultura e l’autonomia dell’Università assumono un ruolo di fondamentale importanza, giacché investono i pilastri su cui si deve reggere lo sviluppo della società.

Dobbiamo vigilare perché vengano assicurate alla cultura e all’Università le più oggettive condizioni di autonomia e di crescita. Misure o comportamenti che possono condizionare l’autonomia della cultura e dell’Università o, in termini più generali, dei luoghi in cui si produce e si diffonde cultura possono determinare motivi di soddisfacimento in chi quei comportamenti persegue e attua al più nella prospettiva del breve periodo. Nel lungo periodo, il condizionamento della cultura e dell’Università non paga, perché si traduce, perché si sostanzia in un condizionamento delle potenzialità di crescita della professionalità.

In questo senso, ogni politica d’intervento nei luoghi in cui si produce cultura è, nel contempo, estremamente complessa e delicata. Complessa, perché definita per innovare, per ammodernare il modo di produrre cultura, per renderla coerente alle esigenze del cambiamento, ogni politica d’intervento dev’essere attuata in modo e termini tali da non rompere con il passato. Se rompe con il passato, se nella produzione di cultura viene a mancare la dimensione della continuità nel tempo, alto è il rischio che la produzione di cultura si traduca in indottrinamento.

In queste condizioni, il risultato ultimo sarà quello di non produrre più sapere critico, ma conoscenze di contenuto nozionistico; di non produrre più professionalità e professionisti ma tecnicalità e tecnici.

Ogni politica d’intervento nei luoghi in cui si produce cultura oltre ad essere complessa è anche estremamente delicata perché, ove generi motivi di tensioni e di distorsione, gli effetti perversi si manifesteranno nel tempo e le conseguenze negative non potranno mai più essere appianate e recuperate.

Poniamoci la domanda: in quale direzione si muovono le decisioni assunte in questi ultimi tempi in ordine allo sviluppo, in ordine alla difesa dell’autonomia della cultura e dell’Università? In quale strategia devono e si possono collocare tali interventi?

Verrebbe in verità voglia di allargare il dibattito e porre questi interrogativi anche con riferimento alle recentissime decisioni di allungare a 16 anni la scuola dell’obbligo. Non intendo farlo per mantenere nei tempi concessimi la durata del mio intervento.

E’ stato evidenziato che in questi ultimi anni è stata prodotta una varietà di documenti volti a definire, ciascuno, linee di intervento ora in uno ora in un altro settore della vita universitaria. Ogni documento appare chiuso in sé, risulta in verità in sé coerente e sembra voler raggiungere come risultato soltanto quello di apportare modifiche limitate ai singoli settori di riferimento.

Se, però, i documenti si mettono l’uno accanto all’altro, si trova che un collegamento tra loro esiste e, anche se le linee di intervento in essi definite sono attuate singolarmente, finiscono nel loro insieme a delineare una Università molto diversa da quella fin qui conosciuta, da quella nella quale oggi ci troviamo ad operare.

Tra i vari documenti prodotti dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica uno è specificamente dedicato all’autonomia didattica nelle Università e in esso sono indicate le linee di intervento che il Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica ritiene valide per garantire l’autonomia universitaria.

Mi pongo subito la domanda: le linee di intervento definite in questo documento risultano in grado di assicurare l’autonomia della didattica universitaria? Sono cioè in grado di condurre nel tempo alla costruzione di una Università in cui risultino semplificati gli attuali, complessi rapporti tra studenti, docenti e istituzione universitaria in modo da rendere più partecipata l’attività dello studente, più diretta e finalizzata quella del docente, meno burocratizzata quella delle strutture universitarie.

Anticipando la conclusione, debbo con franchezza ammettere che, a questi interrogativi, non mi sento di dare risposte positive. E vediamo perché.

Il documento sull’autonomia didattica nelle Università si articola in tre punti: a) filosofia degli interventi; b) principi organizzativi generali; c) principali linee di intervento.

Secondo il documento fornito dal Ministero dell’Università, il grado di complessità raggiunto nel nostro sistema accademico è tale da rendere improponibile una proposta di riforma organica. Di qui, nella scelta degli interventi, la necessità di seguire “la strada di una pluralità di interventi-strumenti parziali, da attivare contestualmente in funzione di obiettivi determinati, comunque riconducibili a un disegno generale di riforma...(mediante) l’adozione di una strategia a mosaico, che punta ad accrescere ulteriormente l’autonomia con l’obiettivo di ampliare la possibilità di azioni delle forze innovative”.

Mi domando: come si fa ad ammettere che il grado di complessità raggiunto dal nostro sistema accademico è tale da rendere improponibile una proposta di riforma organica e nel contempo ammettere che la scelta della pluralità degli interventi, che viene effettuata mediante una strategia a mosaico, risulti nei fatti riconducibile ad un disegno generale di riforma? Personalmente ritengo che, per poterla definire strategia di intervento a mosaico, occorra conoscere il mosaico che si vuole costruire; occorra cioè conoscere il disegno dell’Università che si vuole realizzare.

Esiste questo disegno generale? In termini espliciti e ufficiali, no.

Ed è proprio la mancanza di questo disegno organico di riforma unitamente alla scelta effettuata dalla Commissione che ha elaborato il documento sull’autonomia didattica nelle Università, scelta che è stata quella di proporre un insieme di interventi, individuati adottando una strategia a mosaico, che deve spingerci ad essere molto attenti sulle singole proposte di intervento per cercare di capire la portata delle loro conseguenze sul piano operativo.

Dobbiamo essere molto attenti e vigili se vogliamo evitare che gli interventi proposti, definiti al di fuori di un esplicito coerente modello dell’assetto organizzativo, tendano a rendere ancor più complessi, incerti, confusi i rapporti tra studenti, docenti e strutture universitarie. Perché, in questa prospettiva, le proposte, anziché essere i tasselli di un mosaico ben determinato, si verrebbero a configurare come scombinate toppe arlecchinesche, accelerando così il passaggio del nostro sistema universitario dalla crisi attuale al suo definivo e irreversibile collasso.

 

Quanto ai principi organizzativi generali, nel documento distribuito dal Ministero dell’Università vengono individuate dieci scelte strategiche che vanno dalla contrattualità del rapporto studenti-ateneo all’adozione del sistema dei crediti, all’adozione di sistemi di valutazione.

Non è possibile esaminare qui il significato o il contenuto di ciascuna delle dieci scelte strategiche.

E’ doveroso, però, soffermarsi su qualcuna di tali scelte. Cominciamo da quella che riguarda l’adozione di un principio di flessibilità curriculare e di mobilità delle risorse tale da condurre “alla graduale sostituzione di un valore formale del titolo di studio - assegnato a priori, una volta per tutte, in base ad un elenco di titoli di corsi - con un sistema di certificazioni a posteriori o accreditamento basato su tre criteri: valore culturale del titolo proposto; sua rispondenza a esigenze sociali o economiche; adeguatezza delle risorse messe a disposizione degli Atenei”.

Dalla lettura del contenuto di tale scelta sorgono immediate le domande: che significa, come si definisce e si quantifica la sua rispondenza a esigenze sociali o economiche? A quali esigenze sociali? E a quali esigenze economiche?

Ancora: che significa adeguatezza delle risorse messe a disposizione degli Atenei? Adeguatezza rispetto a che cosa? Come si oggettivizza la misura dell’adeguatezza delle risorse?

E veniamo all’adozione del sistema dei crediti. Per il Ministero dell’Università il contenuto del credito è chiaro. I crediti infatti “devono riflettere la quantità di lavoro che ciascuna unità di corso richiede in relazione alla quantità totale di lavoro necessario nell’istituzione per completare un anno accademico di studio, comprese le lezioni, il lavoro sperimentale e pratico, i seminari, i tutorial, gli elaborati, i tirocini, gli stages, lo studio individuale, le tesi, gli esami e le altre attività di valutazione. I crediti, si ammette nel documento, si basano sul lavoro degli studenti e non si limitano a valutare unicamente le ore di didattica impartita.”

Dalla lettura della definizione e del contenuto di un titolo di credito, così come riportato nel documento elaborato dal Ministero dell’Università, sorge spontanea la domanda: che significa che il valore di un credito debba essere basato sul lavoro totale degli studenti?

Così come viene proposta, tale definizione ricorda da vicino quella del valore di un bene basato sulla quantità di lavoro in esso incorporata, definizione fornita da Marx e da molto, molto tempo ritenuta inidonea ad esprimere il valore di un bene.

Qualche breve considerazione ancora su un altro principio organizzativo generale, quello relativo alla contrattualità del rapporto studente-ateneo.

Secondo la Commissione l’attuale rapporto è di natura quasi-fiscale ed in quanto tale genera la passiva iscrizione dello studente all’Università. Di qui la necessità di sostituirlo con un rapporto con il quale gli studenti ” definiscono contrattualmente, cioè in base ad un accordo bilaterale con prestazioni corrispettive, con il singolo Ateneo le condizioni di svolgimento degli studi.”

Non voglio entrare nel merito se nell’attuale rapporto la condizione dello studente sia passiva nel momento della sua iscrizione ad una Università. A mio parere non lo è, e lo preciserò, se necessario, in sede di dibattito. Qui mi voglio soffermare sulla proposta avanzata dalla Commissione di sostituire l’attuale rapporto con un esplicito accordo bilaterale, grazie al quale lo studente definisce gli standards delle prestazioni da parte dell’Ateneo.

Traduciamo in termini operativi questa proposta. Che significa? Che lo studente pattuisce il programma, le modalità di partecipazione alle relazioni di studio e di ricerca della facoltà? Che lo studente definisce e pattuisce gli standards qualitativi e quantitativi della didattica? Ed in caso di risposta positiva, come fa lo studente a definirli? E come si fa a stabilire che sono rispettati? Chi si erge a terzietà per stabilire che sono rispettati? E, una volta che oggettivamente si sia riusciti a stabilire che non sono rispettati, come si fa a definire il danno subito? E chi lo risarcisce?

La mia sensazione è che se ci si muove lungo questa strada non si procede alla costruzione di un rapporto in cui le esperienze del docente e le esigenze dello studente si integrano e reciprocamente si vivificano, ma si viene a costruire un rapporto che contiene in sé tutti gli elementi che tendono ad intensificare e ad esasperare i motivi di conflittualità tra lo studente e il docente.

Chiudo con una breve considerazione. Molti sono i problemi da risolvere, al di là dei semplici principi elencati nel documento sull’autonomia della didattica proposto dalla Commissione nominata dal Ministro dell’Università.

Su tutto si può, si deve ed è giusto discutere per trovare le soluzioni più idonee. Ma un aspetto credo non debba essere messo in discussione: quello della parcellizzazione del sapere.

In una società che tende a divenire sempre più complessa, perché sempre più terziarizzata, il capitale umano diviene un fattore fondamentale per la crescita e il governo della società. Ed il capitale umano acquista tanto più valore quanto più è dotato di sapere, di sapere critico.

In una società che tende sempre più a internazionalizzarsi, a globalizzarsi c’è sempre più bisogno di capacità professionali in grado di comprendere i complessi meccanismi economici e sociali, le complesse interrelazioni che continuamente sorgono e mutano in un tale contesto. E queste capacità professionali si formano e sono alimentate solo da una scuola che educa alla comprensione dei problemi, che educa alla concettualizzazione, che educa alla logica generalizzante della realtà di riferimento.

In una società in cui si prevede che il sistema produttivo e i processi sociali registreranno mutamenti continui, quanto intensi, occorre che gli individui siano dotati di un retroterra culturale che permette loro di adattarsi a tali mutamenti. E per muoversi in questa prospettiva occorre una scuola che produca sapere, che produca sapere critico, che umanizzi il sapere e non già di una scuola che produca solo e semplici nozioni di prevalente o, peggio ancora di esclusivo carattere tecnicistico.

Di una scuola cioè si muova in direzione opposta a quella che sembra derivare dal disegno emergente dai documenti di Governo fin qui predisposti.