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Analisi-inchiesta: il movimento dei lavoratori tra cambiamento e indipendenza

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

Sabino Venezia
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Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (terza parte). Dalla partecipazione controllata alla concertazione
Rita Martufi, Luciano Vasapollo, Sabino Venezia

 

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Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (terza parte). Dalla partecipazione controllata alla concertazione

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Sabino Venezia

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Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci proponiamo non solo di “ imparare” su un argomento storico-economico tutto aperto e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto per le correzioni di tiro e gli ulteriori approfondimenti.

1. Le “compatibili necessità” di una ristrutturazione del capitale contro il movimento operaio

Il lungo ciclo delle lotte, e delle conquiste, “dell’autunno caldo” si chiude, di fatto nel 1980, con una grave sconfitta del movimento operaio. La grave crisi della FIAT (6800 mld di debito), in linea con la più grande crisi internazionale del settore automobilistico, già figlia della grande crisi di accumulazione degli anni ’70 ed ancora a tutt’oggi in corso, compresi gli shock petroliferi, si abbatte inesorabilmente sulla classe operaia. Lo sciopero dei “35 giorni” segnerà probabilmente anche sul piano simbolico il punto di caduta del movimento sindacale; alla fine della grave vicenda saranno 33.000 gli operai in cassa integrazione a zero ore (fino al 1987) e tra questi centinaia di delegati sindacali (contro ogni accordo); al rientro ci saranno “reparti confino” ad aspettarli.

Siamo in pieno processo di ristrutturazione economico-produttiva ma che viene da lontano, così come da lontano arrivano le avvisaglie di un progetto di attacco al movimento dei lavoratori che si espliciterà ancor più negli anni ’80, ’90 e fino ad oggi grazie alla collaborazione dei sindacati confederali.

In Italia dal dopoguerra ad oggi si possono individuare molti modelli geografici e sociali dello sviluppo economico; in particolare si nota il passaggio da un modello di progressiva concentrazione territoriale della produzione, del reddito e della popolazione, ad un modello di diffusione locale delle dinamiche di sviluppo che ha interessato aree a rilevanza intermedia, che ha come obiettivo quello di disarticolare l’unità di classe dei lavoratori.

Si può affermare che l’economia italiana si è sviluppata con delle caratteristiche particolari che comportano dei paradossi e delle contraddizioni, ma tutte finalizzate a riportare il conflitto a vantaggio del capitale.

Come si è visto nelle puntate precedenti il boom economico degli anni ’50 ha visto la nascita di grandi famiglie capitalistiche che, passate indenni al processo di trasformazione economica-sociale post-conflitto mondiale, hanno inciso profondamente nelle modalità dello stesso sviluppo complessivo. Considerando che l’Italia fino alla seconda guerra mondiale era un paese basato su un’economia prevalentemente agricola, va segnalato che lo sviluppo industriale avutosi tra gli anni ’50 e gli anni ’70 si è concentrato solo su alcune zone del Paese senza estendersi alle aree più depresse.

L’industrializzazione che caratterizza questi anni ha comportato un divario tra il Nord e il Sud del Paese, determinato soprattutto dal fatto che mentre per il Settentrione si sono adoperate politiche di integrazione con gli altri paesi europei, il Mezzogiorno è invece rimasto sempre più isolato economicamente e socialmente. Ed è stata quindi la famiglia padronale, sia essa fondata su aristocrazie cittadine sia caratterizzata da un congiunzione solidale, ad essere la principale protagonista dello sviluppo economico del nostro Paese. Si è passati dall’affermazione della piccola e media impresa familiare allo sviluppo della grande impresa familiare che ha rappresentato la colonna portante del nostro sistema economico per vari decenni.

Negli anni ’70 si attua il cosiddetto “decentramento produttivo” che scorporando alcune fasi del processo di produzione le indirizza verso imprese di minore dimensione. In questo senso la piccola impresa si caratterizza sempre più per una elevata indipendenza dalla grande azienda committente, in quanto si specializza e si caratterizza per la sua innovatività e ciò diventa funzionale allo smembramento delle concentrazioni operaie nelle grandi fabbriche proprio per indebolirne la capacità di conflitto.

Lo scenario che si presenta nella realtà italiana è quindi caratterizzato in primo luogo dalla presenza di grandi holding private (a carattere familiare con il supporto del manager); ci sono poi le imprese pubbliche che hanno sostenuto lo sviluppo ed infine un numero elevato di piccole e medie imprese le quali per la loro innovatività si caratterizzano per un elevato livello di efficienza. In sostanza nella piccola e media impresa vi è una presenza costante e continua dell’imprenditore-proprietario, invece, nelle imprese di grandi dimensioni, caratterizzate da una elevata concentrazione della proprietà, si verifica qualche caso di incrocio azionario tra le più grandi famiglie industriali del Paese.

Va rilevato che mentre nella piccola impresa i lavoratori e l’imprenditore provengono spesso dallo stesso contesto socio-culturale, essendo a volte appartenenti allo stesso nucleo familiare, nella grande impresa basata su rapporti di gerarchia non mediati e su grandi concertazioni operaie è invece presente un forte conflitto tra i diversi soggetti economici interessati.

Si assiste in sostanza ad una forma di imprenditoria di élite tipica delle grandi aziende, all’imprenditoria della piccola e media impresa ed infine all’imprenditoria assistita. Questa situazione fa risaltare lo storico problema delle Tre Italie imprenditoriali, in quanto gli imprenditori d’élite sono concentrati nell’Italia settentrionale, al centro troviamo un tipo di imprenditorialità diffusa mentre al sud si trova il cosiddetto “imprenditore assistito” legato al sistema politico.

Si realizza in sostanza già a partire dagli anni ’70, per poi rafforzarsi negli anni ’80, una forma di industrializzazione diffusa con al centro i distretti che ha il vantaggio di associare i benefici della piccola dimensione con quelli della grande. È in tale chiave che va letta la grande importanza che viene attribuita al nuovo concetto di distretto, industriale e terziario.

Infatti, nell’ambito di un area geografica ben delimitata si raggruppano un agglomerato di imprese appartenenti al medesimo settore (ad esempio: le ceramiche a Sassuolo, le maglierie a Carpi, l’industria delle pelli e del cuoio in Toscana). In questi distretti si viene così a creare un patrimonio di conoscenze tecniche e specializzate nel settore e quindi, la struttura produttiva permette di sviluppare prodotti qualitativamente pregiati. Inoltre, in queste microaree geografiche viene a realizzarsi una quasi piena occupazione, sia diretta che indiretta; e anche se i salari sono mediamente più bassi di quelli delle grandi imprese, grazie alla piena occupazione, nel suo insieme, si realizzano redditi familiari più elevati.

Va ricordato che

L’industria manifatturiera italiana si fonda su alcune particolari caratteristiche che ne definiscono il successo sui mercati internazionali:

- una dimensione media d’impresa più piccola di quelle dei paesi nostri concorrenti (10 addetti in Italia contro i 17 in Giappone, 25 in Germania, 60 negli USA, 85 nel Regno Unito);

- un modello di specializzazione industriale in cui un ruolo importante è giocato da settori ad alta intensità di know-how, di design, di gusto e di creatività e a bassa o medio-bassa intensità di capitale;

- una presenza significativa di sistemi locali d’impresa, di cui circa un centinaio sono Distretti Industriali.

Nei Distretti italiani operano oltre 60.000 imprese con circa 600.000 addetti che realizzano circa 120.000 miliardi di lire di fatturato, pari ad una quota del 10% circa del Prodotto Interno Lordo industriale italiano; sono sistemi di imprese che, nelle fasi congiunturali difficili, hanno dimostrato una capacità di tenuta maggiore di quella media dei settori industriali.

I settori di specializzazione dei Distretti riguardano prevalentemente i beni per la persona o per la casa e i beni strumentali. Il sistema moda (tessile-abbigliamento-calzature) e il sistema legno-arredo costituiscono una parte rilevante nel panorama dei Distretti italiani,in cui sono rappresentati tutti i principali settori del Made in Italy [1].

Un distretto industriale, quindi, come rappresentazione ed evoluzione del modello capitalistico italiano, volto a raggiungere alti livelli di competitività internazionale, attaccando i diritti e le garanzie dei lavoratori, a partire dall’abbattimento del costo del lavoro. È per questo che nell’economia del distretto si trova una forte specificità, una propria dimensione socio-economico e territoriale, definita in funzione delle relazioni di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra imprese e comunità locale e una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro.

Una visione delle economie locali e nazionali sempre più classista ed intollerante che assume le modalità relazionali socio-economiche rappresentate dal rafforzamento e trasmissione forzata comportamentale di alcune imprese locali, o gruppi di imprese. Gruppi economici nazionali che in alcuni paesi, come ad esempio l’Italia, stanno assumendo un ruolo guida nell’influenzare le azioni economiche e sociali dei soggetti economici locali che avevano in passato fortemente caratterizzato l’evoluzione dei distretti.

Un modo di fare impresa, uno scompaginamento, modelli comportamentali coercitivi verso la forza lavoro, da parte dell’impresa medio-piccola, ma sussulti ad esempio da tutto il modello capitalistico italiano, che nel contempo suggeriscono un approfondimento a livello sociale in modo più disaggregato.

Sono gli anni della ristrutturazione capitalistica caratterizzata da una atavica necessità per le imprese: estendere ed accrescere il livello di flessibilità della forza lavoro, per fronteggiare l’ampliamento dei mercati e tenere il confronto con la globalizzazione della concorrenza.

È per questi motivi tutti interni alle dinamiche di riconversione produttiva e di ristrutturazione del capitalismo italiano entro il ruolo assegnatogli dalla ridefinizione per aree geoeconomiche del capitale internazionale e alla connessa divisione internazionale del lavoro, che va letta anche la storia sindacale degli anni ’80 e degli anni ’90.

2. Crisi del capitale e subalternità sindacale

Nel marzo del 1979 l’Italia, dopo un lungo e contrastato dibattito politico, aderisce al Sistema Monetario Europeo. È opinione comune che il vincolo esterno della stabilità dei cambi possa obbligare il Paese a seguire una politica di stabilità monetaria. Infatti, con l’entrata nel sistema di cambi stabili, l’Italia non può più affidarsi allo strumento inflazionistico e della svalutazione per fronteggiare l’aspra concorrenza nei mercati mondiali. Gli strumenti più idonei per far fronte a questa nuova realtà sono l’aumento della produttività e la riduzione del costo del lavoro. Ne è una conseguenza diretta il cosiddetto piano Pandolfi, presentato al Parlamento nel febbraio del 1979, che ha come esigenza primaria, quella, appunto, di assicurare l’efficienza del sistema produttivo. Il “piano” si propone di effettuare il blocco dei salari per tre anni, un ampia restaurazione della mobilità del lavoro, una riduzione della spesa sociale e infine un aumento dei trasferimenti a favore delle imprese per incentivare la ristrutturazione e l’ammodernamento tecnologico. Alcuni di questi obbiettivi sono destinati a realizzarsi anche se in un periodo molto lungo di tempo, mentre altri trovano un’applicazione immediata nel settore della politica monetaria. Se in passato, infatti, si era preferito finanziare la spesa pubblica anche diminuendo qualche risorsa al settore privato, ora per accrescere l’ammodernamento del sistema produttivo, si dà l’avvio al processo opposto.

Nel 1980, viene varata la riforma dell’emissione dei Buoni Ordinari del Tesoro, che porta al “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia. Infatti se in passato, a ogni emissione dei BOT, la Banca d’Italia aveva comprato tutti i titoli non sottoscritti dal mercato (2), nel 1980 si stabilisce che il Tesoro si sarebbe affidato soltanto ai titoli emessi dal mercato, senza alcun obbligo da parte della Banca d’Italia di acquistare il residuo. Questa riforma produce dei sostanziali cambiamenti: nel 1978 oltre il 27% del debito totale del settore pubblico era verso la Banca d’Italia; tale percentuale è gradualmente ridotta negli anni fino a raggiungere il 6,7% nel 1994. Obbiettivo immediato raggiunto dalla normativa del “divorzio” è quello di lasciar maggiore spazio al finanziamento del settore privato.

Comunque, questo indirizzo di carattere generale non mitiga il dilagare dell’inflazione. Infatti, l’aumento dei prezzi supera il 20% annuo nel 1980 e rimane molto alto fino al 1984. Mentre negli anni passati tale fenomeno, come si è detto, era di origine prettamente salariale, in questi anni le ragioni che portano all’aumento dell’inflazione sono sostanzialmente tre: inflazione importata; inflazione dei prezzi amministrati; inflazione dei tassi di interesse.

Ma se negli anni dei cambi flessibili l’inflazione era “ben vista” dalle imprese (come strumento per aumentare i prezzi più dei salari e ridurre il costo reale del lavoro), in seguito con la stabilità dei cambi esteri, l’inflazione viene considerata negativamente perché riduce la competitività dalle imprese stesse con l’estero.

Inoltre, la bilancia commerciale italiana va lentamente, ma inesorabilmente, deteriorandosi. Infatti, in quasi tutti i settori dell’industria manifatturiera si hanno saldi passivi. Per arginare questo fenomeno, le autorità italiane adottano un metodo opposto a quello consueto, ovvero considerando il disavanzo dei movimenti di merci come una conseguenza della politica di stabilità dei cambi esteri e quindi, inclini a compensarlo mediante importazioni di capitali.

A tal fine, i tassi di interesse vengono tenuti più alti di quelli degli altri mercati finanziari, in conseguenza di ciò, per gli speculatori stranieri si aprono possibilità di investimenti particolarmente vantaggiose. E per agevolare gli ingressi di capitali, le autorità italiane avviano un processo di liberalizzazione dei mercati finanziari (anticipando addirittura le scadenze comunitarie), realizzando la piena libertà dei movimenti dei capitali nel 1990.

Una conseguenza dei limiti della politica dei “tassi elevati”, è quella di far crescere, fino a livelli ormai non più gestibili, il debito pubblico; una seconda conseguenza sono gli effetti depressivi che tassi così elevati producono sugli investimenti. Un’ultima conseguenza è l’indebitamento crescente dell’economia italiana verso l’estero. L’Italia, quindi, non potendo collocarsi nei settori più avanzati, si specializza nelle produzioni quali abbigliamento, cuoio, calzature, macchinari agricoli, ecc.

Sul terreno reale sono determinanti a rendere fragile la posizione commerciale italiana diverse componenti. In primo luogo, i già citati Nuovi Paesi Industrializzati: questi Paesi hanno produzioni simili a quelle italiane, ma con costi del lavoro decisamente inferiori.

Il secondo fattore, che contribuisce all’indebolimento dell’economia nazionale, è l’allargamento della Comunità Europea ad altri Paesi quali Spagna, Grecia e Portogallo, anch’essi diretti concorrenti dell’industria italiana.

Tutto questo, avvenuto in poco tempo, ha seriamente minato l’industria italiana. Chiuse tra inflazione interna e i cambi stabili, le grandi imprese adottano una politica ostile contro gli aumenti salariali e attuano uno sforzo per aumentare la produttività media del lavoro. Da una parte ingaggiando una battaglia violenta per ottenere la riforma del meccanismo della scala mobile (obbiettivo peraltro raggiunto nel 1992), dall’altra realizzano una profonda revisione dei processi produttivi. Tutti i periodi dello sviluppo economico del nostro Paese hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale, poiché queste fasi accentuano i flussi migratori e i processi di urbanizzazione, i processi di espulsione dalle garanzie del reddito, con conseguenti fenomeni socio-economici che trasformano e modificano i rapporti centro-periferia in chiave geografica, e garantiti-non garantiti in chiave economica, accrescendo la schiera delle nuove marginalità, delle esclusioni, delle nuove povertà.

Sempre secondo tale interpretazione socio-economica vanno analizzate proprio e soprattutto a partire dagli anni ’80 le trasformazioni tecnologico-produttive che caratterizzano alcune realtà territoriali, determinando la crescita d’importanza di sistemi terziarizzati e reticolari. Questi ultimi si configurano come reti territoriali che si formano intorno a grandi imprese, anche di servizi, con forti connotazioni locali e reti risultanti dalla deverticalizzazione congiunta di grandi imprese industriali e terziarie in ambiti locali e con forti connotati a specializzazione produttiva locale.


[1] http://www.vigevano.it/distretto/distretti.htm