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L’analisi-inchiesta

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Profit State

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Indagine statistico-aziendale sulle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. La via al Profit State europeo
Rita Martufi, Luciano Vasapollo

 

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Indagine statistico-aziendale sulle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. La via al Profit State europeo

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Per un’analisi storica ed un approccio critico alle scelte politico-economiche neoliberiste dei processi di privatizzazione

(SECONDA PARTE).

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In tale contesto la definizione di modello liberista di sviluppo incentrato sul Profit State rende pienamente comprensibile anche il ruolo che l’impresa pubblica deve svolgere nell’economia complessiva del Paese, e come le specifiche e differenti funzioni attribuite all’economia pubblica a livello centrale e nelle singole aree locali, siano il tessuto connettivo capace di “legare” in un tutt’uno omogeneo il nuovo modo di essere e di presentarsi dello sviluppo capitalistico.

Ciò spiega ancor meglio i connotati anche qualitativi, oltre che quantitativi, della ristrutturazione del capitale e la ridefinizione dell’economia mista, anzi la sua sostituzione con un’univoca politica di privatizzazioni e come essa assuma sempre più un ruolo fondamentale per comprimere il conflitto di classe nelle diverse forme che va assumendo.

Le imprese del panorama industriale italiano che necessitano oggi più che mai di un riassetto e di un rilancio sono proprio quelle appartenenti alla sfera pubblica. L’impresa pubblica italiana si trova oggi ad operare in condizione di assoluta incertezza, che certamente non agevolano il già difficile recupero che in alcuni comparti sembra addirittura impossibile. A generare incertezza sono da un lato l’affievolirsi, almeno apparente, della influenza dei partiti, dall’altro l’accelerazione vertiginosa impressa al processo di privatizzazione, con tutte le sue conseguenze economiche, politiche e sociali. Il diverso modo, meno soffocante nelle apparenze, di presentarsi del controllo politico, paradossalmente spiazza il sistema delle imprese pubbliche che si trovano improvvisamente di fronte ad una ridefinizione della loro funzione obiettivo. Operare sul mercato con diversi, rispetto ai precedenti, sistemi di protezione, rappresenta per l’impresa pubblica italiana un passaggio che, con drammaticità, mette in evidenza la sua strutturale debolezza. La più evidente si riscontra nella incapacità di saper anticipare e rispondere al mercato governando i processi di trasformazione; anche l’incapacità di riposizionarsi sul mercato e di internazionalizzare le proprie attività sono un chiaro esempio di questa debolezza.

Tra l’altro la crisi del vecchio modo di essere dell’impresa pubblica ed il complessivo ruolo dell’economia pubblica entrano in crisi anche in Italia nel momento in cui entra in crisi lo stesso modello keynesiano di supporto allo sviluppo. Il successo delle politiche keynesiane sta nella loro capacità di farsi interpreti delle nuove forme di accumulazione fordista, neutralizzando contemporaneamente la carica rivoluzionaria e sovversiva contenuta nelle idee della rivoluzione bolscevica del ‘17. Il modello keynesiano è strumentale per favorire forme di progresso civile e di miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti, senza però intaccare i margini di profittabilità delle grandi e medie imprese capitalistiche. La crisi del modello fordista comporta la crisi delle politiche keynesiane dal momento che quest’ultime rappresentano la più avanzata sintesi politica del compromesso sociale.

A questo va aggiunto che al rilancio ed alla ridefinizione del ruolo dell’impresa pubblica certamente non contribuisce, come si è già detto, la mancata chiarezza del Governo sulle linee di indirizzo complessive dell’economia che sembrano esclusivamente incentrate sul tema delle privatizzazioni.

Il processo di privatizzazioni del modello capitalistico italiano, dopo il 1995, è arrivato ad uno stadio molto complesso e difficile, anche perché in questa fase si sta procedendo alla dismissione di società ed enti che operano in regime di monopolio, interessando settori fondamentali e strategici per l’economia del Paese nel suo complesso, quali le telecomunicazioni, i trasporti, le fonti di energia.

Le privatizzazioni riguardano, quindi, interessi pubblici talmente rilevanti, garantiti finora dalla proprietà pubblica, che è necessario analizzare il fenomeno con molta attenzione da ogni punto di vista.

Dal momento che le privatizzazioni vengono considerate una fonte di finanziamento a risanamento del debito pubblico, va sottolineato che è ormai provato che non possono intendersi come una soluzione a tale problema, in quanto è scientificamente dato che una stabilizzazione del rapporto debito/PIL si può ottenere solo con un programma radicale di privatizzazioni, ossia che superi l’ordine del 15% del PIL. A riguardo si ricorda che: “Nel rapporto prodotto nel novembre 1990 dalla commissione Scognamiglio il capitale statale potenzialmente privatizzabile è stato valutato tra un minimo del 13,4% del PIL ed un massimo del 16,3% del PIL (cioè tra 175 mila miliardi di lire e 214 mila miliardi di lire). Le aziende statali sono state divise in tre gruppi:

A) Società di proprietà statale: CREDIOP, IMI, INA, ENI, ENEL.

B) Aziende pubbliche non direttamente possedute dallo Stato: Banca Nazionale del Lavoro, Istituto S.Paolo di Torino, Monte dei Paschi, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banco di Sardegna, Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma, Casse di Risparmio e Monti.

C) Altre aziende industriali controllate dalle Partecipazioni Statali. Circa 150 aziende sono incluse in questo gruppo, tra le principali Finmeccanica, Stet, Finmare, SME, Finsiel, Sofin, Ilva, Iritecna, Fincantieri, Cementir, Alitalia, Rai, Spi, Iritech.

La Commissione ha raccomandato la privatizzazione del gruppo A) prospettando dei proventi nell’ordine del 5-7% del PIL.” [1]

Per avere un metro di paragone relativamente al livello del PIL nei 15 paesi dell’Unione Europea, si veda la Tab.1 e nella Tab.2 quanto del Valore Aggiunto totale sia imputabile alle diverse branche produttive (attenzione particolare merita l’ultima colonna della Tab.2 in cui è riportato il Valore Aggiunto imputabile ai servizi pubblici).

Nonostante i dati delle precedenti tabelle e le indicazioni della Commissione dovrebbero indicare nell’Italia un paese con un significativo impatto sul PIL dei settori pubblici e una conseguente cautela, qualitativa e quantitativa, nei processi di privatizzazione, risulta invece che l’illusoria chimera della riduzione del debito pubblico ha fatto si che si procedesse in modo estremamente rapido e senza porsi particolari limiti. Dati recenti confermano che gli incassi da dismissioni nel nostro Paese superano di gran lunga quelli di altri stati “veterani” delle privatizzazioni (ad es. Gran Bretagna).


[1] Cfr. C.A. Favero, “Privatizzazione e stabilizzazione del debito pubblico in Italia”, in “Politica ed Economia”, Il Mulino, Bologna, 1992, pag.195-196.