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L’aldilà della verità

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Francesco Forlani
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Scrittore, direttore artistico di “Sud” - periodico di cultura, arte e letteratura

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Piero Gobetti, morto a Parigi a soli 25 anni, è sepolto al cimitero del Père Lachaise. Fino a poco tempo fa, c’era una piccola lapide messa provvisoriamente dalla famiglia, con il nome e le date di nascita e morte. Da qualche mese, c’è una nuova targa, messa dal governo Berlusconi: dal testo proposto dalla famiglia (e sottoposto al presidente Ciampi) è stato tolto ogni riferimento all’impegno politico di Gobetti e alle cause della morte. La parola “antifascista” non compare. Anche se la proposta del Centro Gobetti, approvata da Ciampi, era di mettere una frase di Norberto Bobbio - “credeva in coloro che hanno sempre torto perché hanno ragione, nei vinti anche se non saranno mai vincitori, negli eretici, che soccombono di fronte agli ottusi amministratori dell’ortodossia, nei ribelli, che perdono sempre le loro battaglie contro i potenti del giorno” - accanto a una dello stesso Gobetti - “mon langage n’était pas celui d’un esclave”. La lapide avrebbe dovuto concludersi con: “In ricordo di Piero Gobetti (Torino 1901 - Parigi 1926), oppositore del fascismo, morto in esilio”. Ma ogni riferimento all’antifascismo e alle circostanze della morte è scomparso.

Anna Maria Merlo, corrispondente de “il manifesto”

Questo testo sarebbe dovuto uscire col numero tre di “Sud”, ad accompagnare la straordinaria testimonianza di Renata Prunas sui rapporti amicali ed editoriali che v’erano stati tra Gobetti e Oliviero Prunas, ufficiale comandante della Nunziatella, scuola militare di Napoli, e papà di Pasquale, direttore della gloriosa testata, “Sud”, che proprio tra quelle mura era nata. La rivista però era già tra gli aghi e i martelli della stamperia e questa mi sembra una buona occasione per proporlo a “Proteo”, accompagnato dalla lettera autografa di Gobetti.

Cominciamo proprio da quella parola: antifascista. Perché la si gratta via, elimina, rimuove? Perché oggi, dicono, è tempo di riconciliazione. Non ha più senso definirsi “antifascista”, oggi, ma ieri? La profonda angoscia che si vive di questi giorni è la nonchalance con cui si fa violenza alla verità e si tacciono i fatti. Tutti, che si tratti di Giuliano Ferrara o di quanti altri ex comunisti (perché poi diciamocelo, essere stati comunisti di prima scelta fino agli anni Settanta e anticomunisti negli anni Novanta e a seguire, è il must per questo nostro brave new world) starnazzano come in uno strano gioco in cui vince chi ha più vittime. Voi ci avete Gobetti ma con le foibe come la mettete? Gli ex comunisti poi, quelli fanno il pieno e piangono le morti di tutti. Perché dovrei piangere i loro morti, SS, Gestapo e camicie nere. No, caro lettore, mi dispiace ma io non piangerò tutti i morti. Vorrei solo capire perché quella parola al Père Lachaise non c’è più. Abito non distante di lì e ci vado di tanto in tanto a passeggiare lungo il muro dei comunardi.

Parliamo pure di foibe o di esecuzioni sommarie, di violenze d’una parte e dell’altra, dei giovani repubblichini ritratti in aria d’innocenza e di indulgenza, parliamone serenamente, a tavola, seduti, in un salotto televisivo o in quello di casa e poi da Porta a Porta. Ammettiamo che siamo d’accordo su tutto. Ma perché Ciampi ha permesso che si togliesse quella parola? Stessa confusione sotto il cielo grigio di Valbeneunamessa, quando si parla di anni di piombo. Che gli anni di piombo (ma quella che seguì fu età del bronzo) ogni giorno ce la dicono e ce la inventano e tutti hanno parola - per carità! - e giù colla meglio e colla peggio gioventù, con chi perde e chi vince. Qualcuno può dirmi finalmente non chi vince ma cosa? Gli storici. Revisionisti e non, del complotto o della verità della fonte - come se le fonti fossero sinonimi di acque pulite. Ad un recente incontro su Pisacane (ex allievo Nunziatella), insieme a Peppino Catenacci illustrai l’operetta che avremmo di lì a poco con Sacha Ricci e Sergio Trapani rappresentato a Metz: Do you remember revolution? Spiegavo di quelle strane coincidenze tra i destini paralleli di Pisacane e Che Guevara. 38 anni entrambi, tutti e due uccisi da coloro che volevano affrancare. E convinti, ormai in trappola, di non perire. Uno storico intervenuto subito dopo aveva detto che gli artisti lo fanno sorridere per come parlano della storia ma che la storia si fa altrove, con i documenti alla mano. No caro storico, gli ho detto, una poesia come La spigolatrice di Sapri (avete mai visto crescere il grano in riva al mare? E dei trecento cosa realmente successe?) serve alla storia più di ventimila tesi di dottorato (quanta carta bruciata dagli alberi?). Loro, gli storici, quelli tanto per capirci che per evitare suicidi alla Esenin, che scrive col sangue l’ultimo biglietto alla vita, aumenterebbero la produzione di inchiostro. Uno storico tra i più revisionisti e dunque titolati in Italia, pare abbia scritto dei fratelli Rosselli sporcandone la memoria. Uno storico che vanta una bibliografia seguente

Libri pubblicati da Franco Bandini

1954 - Ed. E.U.B. - I pirati dello Spazio. Tre uomini su Marte 1955 - Ed Longanesi - Il Petrolio italiano 1959 - Ed Sugar - Le ultime 95 ore di Mussolini 1960 - Ed Sugar - Claretta 1963 - Ed Sugar - Tecnica della Sconfitta 1969 - Ed Longanesi - Il Piave mormorava 1970 - Ed Longanesi - Gli italiani in Africa 1971 - Ed. Longanesi - Io c’ero 1972 - Ed. Nardini - Il Mistero dei Dischi volanti 1978 - Ed. Mondatori - Vita e morte segreta di Mussolini 1979 - Ed Rusconi Ed. Rusconi - Il maschio in estinzione 1990 - Ed. Sugar - Il Cono d’Ombra

I fratelli Rosselli. Nemmeno quarantenni. Gli assassini fascisti della “Cagoule” li hanno trucidati non lontano da qui a coltellate e a colpi di pistola. Perché vale la pena ricordarlo, gli agguati squadristi si facevano ammazzando di botte. Da qualche giorno a Parigi si racconta la storia di Aldo Moro. È uno spettacolo teatrale ma non è teatro, si svolge in un teatro, l’Hotel Galiffet, che come il nome indica non è un teatro. La scena. Ma in realtà non c’è la scena, perché ci sono due colonne e due specchi nel salone del palazzo che qui chiamano teatro, a separare uno spazio esiguo di due metri per due. Il pubblico si trova su un lato e sull’altro e gli attori guardano davanti a sé - profilo bassissimo - oppure guardano in faccia gli uni dando il culo agli altri e viceversa. In realtà non trattasi di teatro ma di due gradinate che non sono nemmeno separate dalla scena perché una scena non c’è. È l’oscena. Tra cartapesta e cartoni disneyani appesi agli stucchi del Settecento, come un teatro dei burattini. Ma il burattinaio, esattamente come nelle chiese dà il culo al pubblico, o al Cristo, dipende. Su dei teli sottili e trasparenti passano in rassegna immagini del rapimento Moro, vere di repertorio e le altrettante vere dei film, quello con Gianmaria Volonté e quello di Bellocchio. Il tutto accompagnato da musiche e da frammenti di lettere. I comunicati delle Brigate Rosse alla lettura venivano amplificati come i Muezzin che recitano dai minareti. Moro une tragedie italienne è il titolo, che riduce tutto al doppio partito: quello di chi vuole negoziare e il cosiddetto partito della fermezza. Lo spettacolo era montato come una trasmissione televisiva tipo Chi l’ha visto? Non sai se il numero di imposture dette in un’ora e passa di spettacolo sono le stesse degli ultimi cinquant’anni di storia italiana. Si cerca ancora dopo infiniti processi il decimo (l’undicesimo uomo) dell’agguato di via Fani. All’Hotel Galiffet - ma pare che sia diventato un teatro, un teatro senza scena - mi è sembrato di assistere a una grande metafora della situazione italiana. Ormai non c’è più la storia ma solo gente che se la racconta. A volte facendo pagare il biglietto o schiaffandoci una bella pubblicità tra un atto e l’altro. Ne propongo una. Di detersivo. Di quelli che lavano via lo sporco più sporco delle coscienze e dove anche il nero più resistente ne uscirà bianco. Più bianco del bianco. Corro allora al Père Lachaise con un secchio di vernice rossa e quella parola che manca (ma forse era un lapsus o le misure del marmo ad impedire la frase) ce la scrivo io. Perché la pioggia, si sa, da queste parti non scolora.

APPENDICE

Caro Prunas, La ringrazio della Sua lettera affettuosa. Non le posso scrivere a lungo. Mi affretto soltanto a darle questa dolce notizia: sono completamente soppresso. Ho avuto una nota prefettizia per cui “In considerazione dell’attività nettamente antinazionale del Dott. P.Gobetti lo si diffida a cessare da qualsiasi attività editoriale”. Lei può immaginare le conseguenze di questo nuovo arbitrio!

Per ora accolga i miei più affettuosi saluti suo Piero Gobetti

Note

* Scrittore, direttore artistico di “Sud” - periodico di cultura, arte e letteratura.