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SOCIETA’ E PROCESSI IMMATERIALI

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Filippo Viola
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Professore di Sociologia, Fac. di Sociologia, Univ. “La Sapienza”

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L’università come azienda, il sapere come merce

Filippo Viola

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“Liscia o gassata? Università di Macerata”. Questo slogan campeggiava, fino a qualche settimana fa, su grandi cartelloni stradali e rendeva, con indubbia efficacia, il modello dell’università come azienda, da reclamizzare alla stregua di un’acqua minerale. È il modello al quale si ispira la controriforma Moratti. Ma non è un fulmine a ciel sereno. La Moratti porta alle estreme conseguenze una logica aziendale che si è insediata nella vita universitaria con l’introduzione della laurea triennale. Le ricadute di quella svolta sono note: riduzione del sapere a semplice operatività tecnica e frammentazione degli insegnamenti in una miriade di moduli didattici. Gli studenti - con l’intelligenza collettiva, propria dei movimenti - hanno colto subito il dato di continuità dell’ultimo provvedimento con gli interventi legislativi del centro-sinistra. E, partendo dalla rivendicazione del diritto allo studio ed al sapere, hanno iscritto nell’agenda della protesta la loro drammatica condizione materiale e immateriale. Fra tasse alle stelle, libri costosissimi, camere in affitto a prezzi di speculazione, per non parlare del caro-vita, studiare all’università è diventato un lusso, che pochi possono permettersi. E il tutto in un quadro di perenne precarietà e marginalità, per via di una organizzazione sociale fondata sulla centralità dell’azienda. L’introduzione della logica aziendale nell’università, cioè in una istituzione culturale e scientifica che ha alle spalle secoli di storia, equivale al trapianto di un organo. Era quindi nel conto che potesse provocare una generale reazione di rigetto. Da qui una sottile strategia, volta a sostenere il processo di aziendalizzazione con una operazione ideologica che sposti l’attenzione dalla qualità funzionale all’efficienza amministrativa. Lo scarto non è di poco conto. Si passa dalle finezze della elaborazione intellettuale alle rudezze del calcolo ragionieristico. Il cambiamento si sente nell’aria e si riflette anche sull’organizzazione della vita universitaria. Uno studente non fa un corso di studi. Accumula crediti e debiti. Un docente non è uno studioso con una particolare biografia ed una personalità culturale e scientifica. È un budget. Su questa scia, si arriva ad affermare in sedi ufficiali che un docente anziano equivale a due docenti di prima nomina. L’ideologia dell’efficienza pretende di separare la gestione amministrativa dell’università dalla sua funzione culturale e scientifica. Nella prima sfera il metro di valutazione sarebbe il tasso di produttività, nella seconda varrebbe il livello di scientificità. In realtà, la logica aziendale è pervasiva. Non c’è aspetto della vita universitaria che non ne venga investito. Si finisce per modellare la produzione scientifica sullo standard della produzione industriale. È al tramonto la figura del ricercatore scienziato. Si va affermando la figura del manager culturale, capace di piazzare sul mercato i sottoprodotti dell’azienda universitaria. E in questa direzione non si va per il sottile. Che volete che valgano i diritti acquisiti e i destini personali di migliaia di donne e uomini di fronte all’esaltante progetto di “modernizzare” il sistema universitario, adeguandolo alle impellenti esigenze della produzione capitalistica? In funzione del processo di “modernizzazione”, l’università tende a connotarsi sempre più come mera struttura di potere. Le gerarchie di potere nell’università non sono certo una novità. Ma, all’interno del processo di aziendalizzazione, esse subiscono una mutazione di notevole portata. Dalla struttura di tipo feudale si passa alla organizzazione manageriale di tipo industriale. E gli studenti? La sottomissione dell’istituzione universitaria alla logica aziendale comporta una ristrutturazione che operi in due direzioni: da un lato sulla formazione del sapere e dall’altro sui soggetti sociali che devono farsi portatori di funzioni estranee alla cultura ed alla scienza. Su questo secondo versante, si tende a disegnare un soggetto studentesco funzionale alle dinamiche del mercato. Nell’università si è insediato un ampio strato di precarietà sociale: giovani che si arrangiano in mille modi in condizioni disastrate. Un soggetto con queste caratteristiche - disancorato da ogni certezza esistenziale e quindi culturalmente irrequieto, discontinuo, imprevedibile - da un lato può essere facilmente sottoposto a ricatto e supersfruttamento, dall’altro può rappresentare una mina vagante all’interno di una logica privatistica della formazione e della ricerca. Va quindi rimodellato da una accademia che aspira a darsi una immagine centrata sul valore della efficienza aziendale. L’università, per presentarsi con titoli manageriali sul libero mercato, tende ad offrire un soggetto giovanile ancorato ad un sapere esclusivamente tecnico, direttamente fruibile nel processo produttivo e disponibile a vivere in uno stato di permanente precarietà. In questo quadro, un particolare rilievo assume lo stravolgimento della formazione universitaria. La formazione non è finalizzata alla crescita culturale degli studenti, ma all’utilizzo tecnico. Questo abbassamento della tensione formativa comporta una ridefinizione del rapporto fra università e mercato del lavoro. È il mercato che crea le figure professionali. All’università viene riservato un ruolo subordinato: produrre le professionalità che le industrie richiedono. Non solo. Si va in direzione di un rapporto sempre più stretto fra università e industrie del territorio. Al punto che gli industriali possono arrivare ad assumere un ruolo interno all’università e condizionarne le scelte. Il modello che si viene a delineare ha effetti devastanti sul ruolo dell’università nella società. Intanto, le facoltà vengono a perdere, in pratica, la propria autonomia culturale e scientifica. Non possono mettere mano a progetti autonomi, perché devono stare attente alle variazioni che si determinano nel mercato del lavoro. E, poiché queste variazioni sono sempre più accelerate, mentre la cultura e la scienza hanno bisogno di progetti di ampio respiro, l’università finisce di definirsi come sede istituzionale della formazione “superiore” e tende a presentarsi sul mercato come semplice agenzia di servizio professionale. Il piano dell’università come azienda comporta per la collettività la perdita di una importante risorsa culturale e scientifica, a cui potere attingere per progettare il proprio futuro. Perdita non di poco conto, nella prospettiva - tutta da costruire - di una organizzazione democratica e popolare dello studio e della ricerca.

Note

Professore della Facoltà di Sociologia, Università “La Sapienza”, Roma.