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SOCIETA’ E PROCESSI IMMATERIALI

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Politica, ideologia e informazione.

Vladimiro Giacché

La politica della menzogna e il ruolo dei media

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“Siamo circondati da un arazzo di bugie... Come tutti i presenti sanno, la giustificazione per l’invasione dell’Irak era che Saddam Hussein possedeva un insieme molto pericoloso di armi di distruzione di massa, alcune delle quali avrebbero potuto essere lanciate entro 45 minuti, recando con sé una spaventosa devastazione. Ci avevano garantito che era vero. Non era vero. Ci avevano detto che l’Irak aveva rapporti con Al Qaeda e condivideva la responsabilità delle atrocità dell’11 settembre 2001. Ci avevano garantito che era vero. Non era vero. Ci avevano detto che l’Irak minacciava la sicurezza del mondo. Ci avevano garantito che era vero. Non era vero. La verità è qualcosa di completamente diverso. La verità ha a che fare con il modo in cui gli Stati Uniti intendono il loro ruolo nel mondo e come scelgono di realizzarlo”. (Harold Pinter, “Nobel Lecture”, 7 dicembre 2005)

Il campionario delle bugie che circondano la guerra in Irak, che l’hanno preceduta e che l’accompagnano, è impressionante. Non abbiamo a che fare con una singola menzogna, né con una pura e semplice serie di menzogne. Bensì con una strategia complessa: con una politica della menzogna. Qualcuno ritiene che questa politica in fondo non abbia dato grandi risultati: in ultima analisi, si argomenta, l’opinione pubblica internazionale è sempre rimasta contraria alla guerra. Forse è il caso di essere un po’ meno ottimisti. Dobbiamo tenere presente che ancora oggi il 40% degli americani pensa che ci fosse un rapporto tra Saddam e l’attentato alle torri gemelle. E anche l’afflosciarsi del movimento della pace dopo l’invasione denota una subalternità almeno ad una parte della disinformazione e delle menzogne ufficiali: quella relativa ai “terroristi” e all’esportazione della democrazia. Con la politica delle menzogne, insomma, è bene fare i conti.

1. Il ruolo dei media nella guerra

Chi e come ha messo in scena le bugie che circondano la guerra irachena? In apparenza, lo schema è semplice e lineare: il regista è rappresentato dagli interessi delle grandi corporations Usa, l’attore principale è la politica, lo strumento l’informazione. In verità le cose non sono così semplici. E non soltanto perché regista e attore sono sempre più una cosa sola, come dimostra il fatto che gran parte dei membri più importanti dei governi Bush ha in passato svolto ruoli di comando nelle industrie militari e petrolifere Usa. Ma anche perché lo stesso mondo dell’informazione appartiene a pieno titolo al mondo delle grandi corporations: e da strumento è divenuto sempre più chiaramente esso stesso regista. A questo riguardo si è parlato di “complesso mediatico-industriale”, i cui protagonisti sono di dimensioni sempre più grandi ed esercitano un potere sempre più invasivo e diffuso a livello planetario: si pensi all’impero mediatico di Murdoch, di cui fanno parte tanto la rete televisiva pro-guerra Fox News (che già nel 2000 aveva giocato un ruolo fondamentale nel “grande furto” delle elezioni Usa da parte di Bush), quanto i tabloid inglesi che nei giorni precedenti l’aggressione angloamericana raffiguravano Chirac come un verme, a causa delle sue posizioni contrarie alla guerra. Già questo dovrebbe indurci ad usare con cautela il concetto di fallimento dell’informazione a proposito della copertura della guerra irachena da parte dei grandi media. Infatti, si può fallire quando si ha di mira qualcosa e non si riesce ad ottenerlo. Ma è assai dubbio che i media statunitensi in questo caso avessero l’obiettivo di informare correttamente i cittadini. In verità, l’informazione Usa è stata in gran parte da subito “embedded”: belligerante. E lo è stata in una misura e con modalità che ricordano da vicino la stampa della prima guerra mondiale, così ben riprodotta da Karl Kraus in quello straordinario documento storico e letterario che è rappresentato da Gli ultimi giorni dell’umanità. Per avere un’idea della blindatura dell’informazione negli Usa di questi ultimi anni basterà ricordare qualche episodio. Dan Rather, conduttore della CBS, aveva dichiarato il 21 settembre 2001: “George Bush è il presidente. È lui che comanda e se ha bisogno di me ha solo da dirmi dove devo andare”. L’informazione Usa si è attenuta strettamente a questa dichiarazione d’intenti già in occasione della guerra contro l’Afghanistan. Così, Walter Isaacson, della CNN, ha chiesto ai giornalisti della sua rete di non insistere “sulle vittime civili in Afghanistan, che faranno inevitabilmente parte della guerra”: infatti “è perverso focalizzarsi eccessivamente sulle vittime civili in Afghanistan”. Ai giornalisti della CNN ha chiesto, invece, di insistere sul fatto che “il governo dei talebani è responsabile della situazione attuale del paese”; e comunque - questa la sua indicazione - ai telespettatori bisognerà far capire che “quando vedono dei civili che soffrono [in Afghanistan], questo avviene nel contesto di un attacco terroristico che ha causato enormi sofferenze negli Usa”. Sempre in occasione della guerra afgana, i redattori del quotidiano Daily (Panama City) hanno ricevuto dalla direzione del giornale questi ordini: “NON USARE a pagina 1 foto che mostrino vittime civili della guerra degli Usa contro l’Afghanistan... NON USARE per i titoli lanci di agenzia incentrati sulle vittime civili della guerra in Afghanistan. Andranno menzionate più sotto nel testo. Se la notizia deve essere riscritta per minimizzare le vittime civili, FATELO”.1 Sembrano i dispacci inviati ai giornali dall’agenzia Stefani sotto il fascismo. Ma qui a ben vedere la situazione è ancora peggiore: perché si tratta di autocensura. Per quanto riguarda l’Irak la situazione dell’informazione è stata, se possibile, ancora più grave. Su 800 esperti andati in onda negli Usa sino al 9/4/2003, data in cui i soldati americani sono entrati a Bagdad, soltanto 6 erano contrari alla guerra.2 Quando l’attore americano Sean Penn ha voluto manifestare una posizione contraria alla guerra in Irak, ha dovuto comprarsi una pagina del Washington Post.3 Tanto il Washington Post quanto il New York Times hanno invece offerto generosissimo spazio e copertura tanto alle presunte rivelazioni sulle “armi di distruzione di massa” fatte da rifugiati iracheni in Usa già piuttosto screditati, quanto all’”arazzo di bugie” messo in piedi dal governo Usa. Alla fine, se ne sono scusati con i lettori. In particolare, il 26 maggio 2004 (quindi dopo oltre un anno dall’inizio della guerra) il NYT ha fatto autocritica, ammettendo - in un editoriale firmato dalla direzione del quotidiano - che alcuni articoli “non erano stati rigorosi a sufficienza”, e si erano giovati di fonti “discutibili”. Pochi giorni dopo, il garante dei lettori, Daniel Okrent, è andato oltre: nell’articolo “Armi di distruzione di massa o di distrazione di massa?” (del 30 maggio 2004) ha detto che la copertura offerta dal New York Times sull’argomento è stata un fallimento “non individuale ma istituzionale”; un “fallimento” fatto di titoli strillati in prima con notizie false, di storie scomode trascurate, e così via. Per rimediare, Okrent chiedeva reportages approfonditi “sui canali di disinformazione e misinformazione che hanno portato buona parte del mondo a credere che l’Irak avesse armi di distruzione di massa”; e la spiegazione “non solo delle tattiche di coloro che hanno diffuso le storie sulle armi di distruzione di massa, ma anche di come lo stesso Times sia stato usato per promuovere la loro campagna di menzogne”.4 Ovviamente, questi reportages li stiamo ancora aspettando. E comunque non potrebbero riparare al danno fatto. Perché ha ragione Seymour Hersch, il giornalista che ha rivelato al mondo gli orrori della guerra del Vietnam: “Sono contento che il New York Times e il Washington Post abbiamo recitato i loro mea culpa. Penso soltanto che avrebbero dovuto farlo prima del marzo 2003 - prima che la guerra iniziasse. Questo sarebbe stato importante”.5 Come sarebbe stato importante che il signor Hans Blix dicesse allora apertamente quello che pensava. Ancora oggi invece dice: “Non pensavo [che la guerra fosse la soluzione giusta], ma sentivo che sarebbe stato presuntuoso (!) da parte mia dirlo al Consiglio di Sicurezza”.6 Lo stesso vale per il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, che ha aspettato il settembre del 2004 per definire l’invasione dell’Irak come un atto “illegale”.7 Verrebbe da dire che non sappiamo che farcene di questa verità fuori tempo massimo, di questa verità postuma: nel frattempo, infatti, l’”arazzo di bugie” è servito a creare orientamenti e - soprattutto - fatti compiuti. È senz’altro più utile cercare di capire come sia stato possibile tutto questo.

2. Menzogne e ideologia

Sui meccanismi che hanno reso possibile il colossale caso di disinformazione a cui abbiamo assistito si è molto riflettuto, da parte dei più onesti tra gli addetti ai lavori. Ad esempio, il New York Times nella sua autocritica ha fatto riferimento all’“ansia di scoop”, quale movente che avrebbe indotto a pubblicare notizie senza verificarne in misura adeguata l’attendibilità. Anche Franck de Veck (ex direttore di “Die Zeit”) ha attribuito una parte della colpa delle notizie false pubblicate alla necessità per i giornali di decidere rapidamente cosa mettere in pagina: “meglio un’opinione, anche non suffragata da prove, che nessuna”.8 Qui si tocca un problema reale, che non vale soltanto per le “armi di distruzione di massa” irachene. Se tutti i giornali aprono su Al-Zarqawi, con una notizia assolutamente inverificabile, io - giornalista della redazione x - che faccio? “Prendo un buco” o la metto anch’io? Da un punto di vista di “etica dell’informazione”, la scelta dovrebbe essere ovvia: non la metto. In pratica succede quasi sempre il contrario: perché il fatto che tutti mettano una notizia non verificata mi copre se risulterà non vera. L’esempio di Al-Zarqawi non è preso a caso: da anni tutti i giornali del mondo ci parlano di questo fantomatico personaggio, che nessuno ha visto da molto tempo, che per qualcuno è morto in Afghanistan, per altri ha perso in guerra una gamba, e che nessuno sa dove sia; quello che è certo è che con la scusa della sua presenza a Falluja (ovviamente mai confermata), questa città irachena è stata messa a ferro e fuoco, facendo uso tra l’altro di armi vietate dalle convenzioni internazionali. Più in generale, è chiaro che se si accetta la logica dello scoop è facile cadere vittima di depistaggi, accreditare come vere notizie inventate di sana pianta, ecc. Anche perché chi depista è dotato di mezzi ingentissimi: il Pentagono ha a disposizione un budget di 655 milioni di dollari per influenzare l’opinione pubblica. E soprattutto di una strategia: la “gestione della percezione” (“perception management”). Si tratta di una strategia esplicitamente professata: la nuova dottrina dell’aviazione Usa, ad esempio, teorizza esplicitamente gli obiettivi di “influenzare la percezione degli eventi, facilitare la comprensione da parte dell’opinione pubblica, orientare il dibattito pubblico”.9 Ma l’argomento dell’“ansia di scoop” non convince fino in fondo. E non soltanto perché nel caso della guerra irachena il vero scoop sarebbe stato dire la verità. Ma anche per un motivo più di fondo: perché dietro la notizia non ci sono soltanto i fatti, ma anche l’ideologia. È l’ideologia condivisa che rende spesso così simili tra loro i titoli dei giornali su determinati argomenti. L’informazione è oggi tramite (e amplificatore) dell’ideologia dominante. Cosa significa questo in concreto? Che essa si basa sui luoghi comuni e sui cliché dominanti, sulle “metafore influenti” oggi egemoniche - e li rende ancora più dominanti e influenti. Questo insieme di luoghi comuni, di cliché (ossia frasi fatte), di pre-giudizi e metafore rappresentano le griglie concettuali (o semi-concettuali) entro cui collochiamo le nostre percezioni, le informazioni di cui veniamo in possesso. Sono queste “griglie” che strutturano la nostra esperienza. E molto spesso, quando i fatti non si adattano a queste griglie interpretative, queste “vengono conservate e i fatti ignorati”.10 È importante insistere sul fatto che griglie false di lettura della realtà hanno conseguenze molto più serie e durature dell’affermare cose non vere su un singolo fatto. E questo per due motivi: perché un punto di vista sbagliato non si cambia con la stessa facilità con cui si individua la falsità di un singolo fatto; e perché un punto di vista sbagliato fa sì che io possa vedere una serie di fatti e di eventi in modo distorto. Aiutiamoci con un esempio. Nel luglio 2005, dopo gli attentati di Londra, la polizia inglese ha assassinato un giovane brasiliano nella metropolitana londinese: la completa falsità della versione ufficiale di questo evento è stata smascherata piuttosto rapidamente grazie ai molti testimoni oculari (il brasiliano non era un terrorista, non scappava, non indossava un impermeabile sospetto, è stato ucciso dopo essere stato immobilizzato, ecc. ecc.). Se però qualcuno è riuscito a fare passare nella mia mente l’idea che tutti gli immigrati sono potenziali terroristi, questo mi renderà disponibile a credere a molte false notizie del genere sull’argomento, e - anche nel caso in cui siano smascherate - mi renderà comunque “comprensivo”; nel caso specifico, nei confronti dei poliziotti inglesi che hanno ammazzato in pieno giorno nella metropolitana di Londra una persona che non aveva fatto nulla.

3. I luoghi comuni della “guerra al terrore”

Proviamo quindi a passare in rassegna, senza pretese di completezza, alcuni dei cliché all’opera oggi.

• Tutto è cominciato l’11/9 (cioè: il contesto di tutto ciò che accade è determinato dall’11 settembre)
 Versione hard: Nella sua forma più brutale, questo cliché l’abbiamo visto usato dal direttore della CNN che esortava i suoi giornalisti a “contestualizzare” le morti civili in Afghanistan come conseguenza dell’11 settembre. Ma si possono ricordare numerose altre varianti: “il mondo è cambiato”, “dopo l’11 settembre non ci si può più permettere gli stessi diritti che valevano prima”, “bisogna ripensare il diritto internazionale”, ecc. In questo modo fenomeni gravissimi quali la restrizione delle libertà civili e addirittura la sistematica violazione della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri, sull’uso di determinate armi, ecc. vengono spacciati quali “conseguenze inevitabili dell’11 settembre”.
 Versione soft: Esiste anche una forma più sottile (e quindi più insidiosa) dello stesso cliché. Questa forma entra in gioco quando la guerra in Irak viene criticata come un “modo sbagliato per combattere il terrorismo”. Ora, siccome era largamente prevedibile (e previsto) che la guerra in Irak avrebbe enormemente giovato al terrorismo, quell’affermazione equivale a dire che “versare benzina sul fuoco è un modo sbagliato per spegnere un incendio”. Ma questa posizione non ha soltanto il difetto di essere ridicola. Essa ha soprattutto il torto di dare per scontato che la “guerra al terrorismo” sia realmente il movente della politica Usa. Ossia di accettare quello che l’ideologia dominante ci racconta. Con il risultato di giudicare la guerra in Irak come un errore e non come quello che realmente è: un orrore e un delitto (anche sul piano del diritto internazionale).

• Guerra contro il Terrore
 “Guerra”: chi cercasse una conferma concreta dell’affermazione secondo cui “le metafore possono uccidere” (G. Lakoff),11 può fare tranquillamente riferimento alla definizione dell’attentato alle Twin Towers come un “atto di guerra”: fu infatti grazie a questa indebita ridenominazione di quello che era un attentato terroristico che gli Usa ottennero dall’Onu il via libera per l’aggressione all’Afghanistan. In questo modo, una “guerra” metaforica aprì la strada ad una guerra vera.
 “Guerra al Terrore”: parlare di “guerra contro il terrorismo”, secondo l’uso ormai invalso, è un modo di esprimersi improprio, significa fare uso di una metafora riduttiva e fuorviante, in quanto pone eccessiva enfasi sull’elemento militare.12 Ma c’è di peggio. L’uso della metafora della “guerra contro il terrore” va infatti considerata nella sua interezza: non solo “guerra”, ma “guerra contro il terrore”. Le conseguenze dell’uso e dell’interiorizzazione di questa metafora sono devastanti. Questa metafora ci induce quasi automaticamente a considerare “naturale” che la “guerra al terrore” sia: ◊ una guerra senza quartiere e senza regole, visto che il nemico è totale e assoluto (“il Terrore”); ◊ una guerra infinita, visto che il nemico è oltremodo sfuggente (anche perché definito in maniera così generica...); ◊ una guerra senza legittimazione dell’avversario in quanto tale (il “Terrorista” non è, in quanto tale, avversario al quale si possa riconoscere legittimità: ecco quindi giustificati il trattamento dei “nemici combattenti” rinchiusi a Guantanamo e la violazione della Convenzione di Ginevra); ◊ una guerra legittima in quanto tale: ogni iniziativa bellica acquisisce legittimità purché sia inserita in questa cornice concettuale.
 “Terrore”: vale infine la pena di notare come già il termine “Terrore” sia adoperato, nel contesto della “guerra al terrore”, in modo assolutamente improprio. In esso possiamo infatti ravvisare: ◊ la trasformazione di una tattica (il terrorismo) in un Nemico (il Terrorista); ◊ l’attribuzione a questo Nemico dell’esclusiva del terrore - escludendo ad esempio dal novero degli atti terroristici i bombardamenti. E si noti bene: il fatto che i bombardamenti siano una forma terroristica di guerra non si ricava soltanto dall’intera storia dell’aviazione militare;13 il carattere terroristico dei bombardamenti aerei è così poco segreto da essere contenuto nelle definizioni ufficiali delle operazioni militari: così gli stessi alti comandi Usa diedero nel 2003 il nome “Colpisci e terrorizza” (“Shock and Awe”) ai bombardamenti su Bagdad.

• Guerra del Bene contro il Male
 È una variante, molto adoperata dagli Usa, della “Guerra contro il Terrore”. In verità, non fa che esplicitarne il carattere religioso: infatti “Bene” e “Male” sono qui intesi in senso strettamente religioso. La cosa non può stupire: nel settembre 2004 si è calcolato che Bush jr. aveva parlato del “Diavolo” in non meno di 319 discorsi pubblici.14 Si tratta esattamente dello stesso modo di pensare che emerge dai proclami di Bin Laden.
 A sua volta, questa metafora manichea viene variata ad infinitum sui mezzi di comunicazione di massa. Ad es., sulla vittima italiana dell’attentato di Londra la Repubblica ha titolato “In nome dell’odio hanno ucciso l’amore”.15 Questo tipo di contrapposizione è molto efficace dal punto di vista retorico. Purtroppo, non aiuta granché a capire i moventi concreti degli attentatori di Londra. E anzi - tramite lo spostamento degli atti compiuti dai terroristi suicidi nella sfera del “non umano” e del “bestiale” - aiuta a dimenticare che in dichiarazioni registrate prima dell’attentato i terroristi di Londra hanno offerto una motivazione concreta e razionale delle loro azioni: dichiarando che il loro atto andava inteso come una rappresaglia per la guerra portata in Irak da Stati Uniti e Gran Bretagna.

• Quella in corso è una guerra di civiltà
 Apparentemente, si tratta di una variante della Guerra contro il Terrore”. Emblematica al riguardo la dichiarazione del ministro della difesa Martino, rilasciata il 15 dicembre 2003 in relazione alla guerriglia irachena: in Irak ‘’ciò che accade è lo scontro tra il terrorismo e la civiltà senza aggettivi’’.
 L’importanza di questo cliché consiste però nel fatto di presupporne un altro. Questo:

• L’Occidente è portatore di una civiltà superiore
 Versione hard: È quella contenuta, ad esempio, nei testi xenofobi e razzisti di Oriana Fallaci.
 Versione soft: L’Occidente è superiore in quanto non è integralista ed è “tollerante”. Ovviamente, rispetto a tale dato di fondo è del tutto irrilevante il fatto che negli ultimi anni eserciti e armi dell’Occidente abbiano ammazzato decine di migliaia di civili in Afghanistan e in Irak. Inoltre, la sua economia rispetta i principi del mercato. Ovviamente, rispetto a tale dato di fondo sono del tutto irrilevanti i fortissimi dazi imposti su molte importazioni, generalmente superiori a quelli imposti dai paesi in via di sviluppo sulle loro importazioni.

• L’Occidente è portatore di un sistema politico superiore (“democrazia”)
 Si tratta di una variante del cliché precedente. È di importanza fondamentale nel dispositivo del discorso ideologico contemporaneo. L’Occidente è portatore della “democrazia” e nemico delle “dittature” e dei “totalitarismi”.
 Questo cliché ha consentito a Blair addirittura di fare un uso apologetico della scoperta delle torture praticate in Irak dai soldati inglesi: “La differenza tra democrazia e tirannia non è che in una democrazia non accadono cose brutte, ma che quando accadono se ne chiede conto ai responsabili”.16 In sintesi: se le porcherie che facciamo non vengono scoperte, il nostro è un sistema politico superiore perché non c’è nulla che dimostri il contrario; se vengono scoperte, il fatto stesso che vengano scoperte dimostra che il nostro è un sistema politico superiore. Lo schema può essere variato all’infinito: così, si può argomentare che la scoperta delle menzogne di guerra dimostra la buona fede degli Usa e la trasparenza del sistema ecc.
 Ma la cosa più importante è un’altra. Da questo luogo comune discende infatti

• la legittimità (ed anzi necessità) dell’esportazione della democrazia
 Se si accetta questo presupposto si è indotti ad accettarne molti altri. Qualche esempio, applicato alla guerra irachena: ◊ La resistenza irachena è terrorismo (o comunque un fenomeno tribale pre-moderno). ◊ In Irak il problema è il “terrorismo” e non l’invasione angloamericana. Per avere un’idea di come quest’ultimo cliché possa orientare l’informazione, si può prendere un articolo uscito su la Repubblica del 27 gennaio 2005, alla vigilia delle elezioni in Irak. È di Bernardo Valli, ed è abbastanza equilibrato. Nel testo l’articolista si chiede tra l’altro: è possibile esprimersi in un paese “in stato d’assedio, occupato da truppe di una superpotenza straniera... e di trenta potenze minori, da ausiliari armati come in un Far West mediorientale? In un paese minacciato da una guerriglia disperata e spietata?”. Questo ragionamento nell’occhiello diventa: “resta la questione: è possibile esprimersi liberamente in un paese assediato?”.17 L’informazione viene selezionata sulla base del cliché secondo cui il problema è il “terrorismo”, ed il gioco è fatto: gli invasori sono spariti, e i resistenti sono diventati assedianti.
 Va notato che sul presupposto della “legittimità di esportare la democrazia” è stata costruita - una volta venute meno quelle originarie - una giustificazione posticcia dell’invasione dell’Irak: che sarebbe avvenuta, appunto, allo scopo di “esportare la democrazia”.18 Chiunque conosca la storia del colonialismo non avrà difficoltà a rinvenire i precedenti di questa giustificazione: del resto è logico che chi si rende colpevole di una guerrra di aggressione preferisca ammantare le proprie azioni con motivazioni altruistiche. Un po’ meno logico è che gli si dia credito. Se proviamo a riconsiderare in sintesi i cliché appena visti, ci accorgiamo di diversi aspetti degni di nota: • La resistenza (resilienza) di questi concetti nonostante ogni evidenza contraria. Il discorso dominante, anche nella sua variante liberal e “critica”, ci dice dalle pagine dei giornali e dagli schermi della tv che:
 gli eserciti dell’Occidente portano la civiltà anche se ammazzano, torturano, usano armi di distruzione di massa proibite dalla Convenzione di Ginevra;
 l’Occidente porta la democrazia anche se le elezioni sono truccate, il sistema di elezione organizzato nello Stato invaso è per etnia (principio democratico non modernissimo...) e tale da condurre alla disgregazione del Paese stesso, la Costituzione torna alla religione di Stato, la sharia è stata reintrodotta in un Paese che prima era laico, ecc. ecc. Tutti questi aspetti, ciascuno dei quali è una confutazione dell’assunto, vengono interpretati quali limitazioni e difficoltà contingenti che si contrappongono ad intenti lodevoli e generosi: al massimo, come la classica eccezione che conferma la regola.

• Il fatto che essi si avvalgono di (o comunque presuppongono) alcune parole chiave del lessico ideologico contemporaneo Possiamo raggruppare queste parole per schieramenti:
 da un lato i nostri Amici: Democrazia, Mercato, Sicurezza;
 dall’altro i nostri Nemici: Terrorismo e Totalitarismo (sempre più spesso evocati insieme). A proposito dell’uso di queste parole si può ben dire, riprendendo una felice formulazione di Harold Pinter, che qui “il linguaggio viene adoperato per tenere a distanza il pensiero”.

4. Strumenti di contrasto

Il compito di un’informazione critica su quanto avviene è in primo luogo quello di restituire alla riflessione e al pensiero i loro diritti. La consapevolezza critica è di centrale importanza. Bisogna prendere - e dare - coscienza su ciò che accade. In negativo, ossia contro l’informazione e l’ideologia ufficiali, i punti di attacco possono essere diversi:
 le contraddizioni nel discorso dominante. Un caso tipico: il “doppio standard”. Per cui ci si indigna se l’Iran vuole procurarsi energia nucleare, paventando il rischio che voglia fabbricare la bomba atomica; ma contemporaneamente si tace sul fatto che sia Israele che paesi confinanti con l’Iran quali India e Pakistan hanno già armi atomiche.
 le omissioni del discorso dominante. Ossia quello non ci viene detto, o ci viene detto in forma mistificata. Un caso importante è l’occultamento della realtà dietro eufemismi, tanto più barocchi, numerosi e grotteschi quanto più presidiano una realtà indifendibile. Basti pensare che per le torture di Abu Ghraib si sono usati i seguenti termini: “abusi”, “maltrattamenti”, e inoltre “interrogatori coercitivi”, “trattamenti degradanti”, “interrogatori duri”, “tattiche di pressione e intimidazione”, “tecniche di interrogatorio rafforzate”, “pressioni psicologiche”, “pressioni fisiche moderate”. Il muro costruito da Israele (una costruzione di cemento alta 8 metri e lunga svariate centinaia di chilometri) è stato definito “recinto di protezione”. Gli eufemismi a volte funzionano eliminando un aggettivo da un sostantivo: così, i “Territori occupati” da Israele sono per i nostri telegiornali e per i nostri quotidiani nulla più che “Territori” (terminologia in sé insensata - ogni paese insiste su un territorio - ma funzionale ad occultare la realtà dell’occupazione). Altre volte, quando il problema è rappresentato dal sostantivo, l’aggettivo viene invece aggiunto: così, in un’espressione quale “guerra umanitaria” (un vero e proprio ossimoro) l’aggettivo tenta di mascherare la realtà della guerra.
 Ripartire dalle parole. Bisogna restituire alle parole il loro significato, smascherarne l’uso mistificato. Come già vide Kraus, la barbarie linguistica è ad un tempo sintomo e strumento della barbarie politica e sociale.
 Ritornare all’evidenza, e difenderla come il grado zero della verità. Ci sono tempi in cui non soltanto la verità, ma anche quella sua forma minimale che è rappresentata dalla tautologia, è rivoluzionaria. Una guerra di aggressione è una guerra di aggressione. A fianco a questo lavoro di demistificazione, bisognerà condurre un lavoro costruttivo. Bisognerà cioè costruire cornici concettuali da contrapporre a quelle dominanti. Va infatti tenuto presente un punto fondamentale: discutere nel contesto definito dalle metafore e dalle cornici concettuali degli avversari significa accettare il loro terreno, giocare fuori casa. A questo riguardo Lakoff ha proposto il “reframing”, ossia la sostituzione di una griglia di lettura dei fatti alternativa, di altre metafore e di altri concetti.19 Cosa significa questo in concreto?
 Questo significherà in qualche caso rifiutare concetti ideologici e inadeguati, in altri casi recuperarne il vero significato: così, se la categoria di “totalitarismo” è sostanzialmente inservibile, per quanto riguarda la “democrazia” si dovrà tornare alla pienezza del suo concetto (“potere del popolo”), svirilito e depauperato dall’uso ideologico contemporaneo.
 Ma soprattutto significherà offrire un’interpretazione alternativa degli eventi. Rifiutando i cliché sia nella versione hard che in quella soft e contrapponendo ad essi un’altra interpretazione di ciò che è avvenuto. Così, l’invasione dell’Irak non è né una tappa della guerra contro il terrorismo (cliché in versione hard), né un errore (cliché in versione soft). Cos’è, allora? È “un atto di banditismo, di puro terrorismo di stato, che dimostra un disprezzo assoluto per il concetto stesso di legge internazionale. L’invasione è stata un’azione militare arbitraria che si è nutrita di bugie su bugie e di una volgare manipolazione dei media e quindi dell’opinione pubblica; un atto che aveva l’obiettivo di consolidare il controllo militare ed economico degli Usa sul Medio Oriente, camuffandolo - una volta manifestatesi infondate tutte le altre giustificazioni - da liberazione. Un formidabile dispiegamento di forza militare che ha la responsabilità della morte e della mutilazione di migliaia e migliaia di persone innocenti. Abbiamo portato tortura, cluster bombs, uranio impoverito, innumerevoli atti di assassinio indiscriminato, miseria, degradazione e morte al popolo iracheno e l’abbiamo chiamato ‘portare libertà e democrazia al Medio Oriente’”. Anche queste sono parole, come quelle citate in apertura di questo articolo, sono tratte dal discorso di Harold Pinter per il conferimento del Nobel.20 È un gran peccato - ma alla luce di quanto si è visto non è casuale - che nessun giornale italiano abbia ritenuto opportuno tradurle per esteso.

* Consiglio Scientifico Editoriale di Proteo.

1 N. Salomon, “The foulest media performances in 2001”, www.bushwatch.net. Le parole in maiuscolo sono così nell’originale.

2 D. Schechter, “I tempi oscuri della mediacrazia”, il manifesto, 28/2/2005.

3 S. Penn, “Dead man walking contro lo guerra”, il manifesto, 20/10/2002.

4 G. D’Agnolo Valla, “La guerra in Iraq? Solo scuse”, il manifesto, 3/6/2004.

5 L. Chaudry, “Seymour Hersch: Man on Fire”, intervista pubblicata su Alternet, 27/10/2004: www.alternet.org/story/20309/.

6 A. Maitland, “The watchdog who refused to bark”, FT, 20/5/2005.

7 V. Zucconi, “Anatema tardivo - L’ira dell’ONU”, la Repubblica, 17/9/2004.

8 F. de Veck, “Furcht und Schrecken”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 18/3/2003.

9 Testo riprodotto in R. de Veck, “Furcht und Schrecken”, cit.

10 G. Lakoff, “Metaphor and War, Again”, Alternet, 18/3/2003: http://www.alternet.org/story/15414.

11 G. Lakoff, “Metaphor and War: The Metaphor System Used to Justify War in the Gulf”, in Viet Nam Generation Journal & Newsletter, V3, N3, 1991: http://lists.village.virginia.edu/sixties/HTML_docs/Texts/Scholarly/Lakoff_Gulf_Metaphor_1.html.

12 Così J. Nye, “La metafora della guerra nella lotta al terrorismo”, la Repubblica, 29/7/2004.

13 In proposito si veda lo straordinario libro di S. Lindqvist, Sei morto! Il secolo delle bombe, Milano, Ponte alle Grazie, 2001.

14 Dato riportato nella pièce teatrale Stuff happens di David Hare.

15 Art. di M. Occhipinti, 22/7/2005.

16 O. Casagrande, “Blair sulle torture: ‘Foto scioccanti’”, il manifesto, 20/1/2005.

17 B. Valli, “Bagdad, i volantini del terrore - ‘In strada scorrerà il sangue’”, la Repubblica, 27/1/2005.

18 Emblematico T. Blair, “Perché combattiamo questa guerra”, la Repubblica, 13/4/2004. E già il fondo del “Foglio” dal titolo sublime: “L’arma di distruzione è la dittatura”, 4/10/2003.

19 Vedi R. Mastrolonardo, “Metafore politiche su ordinazione”, il manifesto, 30/1/2005.

20 H. Pinter, “Art, Truth & Politics”, Nobel Lecture, 7/