Rubrica
Il punto, la pratica, il progetto

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Luciano Vasapollo
Articoli pubblicati
per Proteo (48)

Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Argomenti correlati

Nella stessa rubrica

Proposte di dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società
Luciano Vasapollo


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Proposte di dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società

Luciano Vasapollo

Formato per la stampa
Stampa

7. La riduzione dell’orario di lavoro e la proposta del reddito sociale minimo di cittadinanza

Il processo di modernizzazione del Paese non può passare attraverso il massiccio ricorso alle privatizzazioni, aziendali e del Welfare, viste ormai dai più qualificati ambienti politici, sindacali, imprenditoriali come l’unica strada percorribile per il risanamento complessivo dell’azienda Italia. Non si può escludere una forte presenza dello Stato, un competente ed efficiente intervento e controllo pubblico nei settori economici strategici ,cioè in tutti quei servizi in cui il carattere pubblico è ineliminabile per la funzione sociale svolta, di uno Stato che si riproponga in veste di occupatore, cioè capace di creare e distribuire lavoro, soprattutto a carattere di utilità pubblica e a definizione non mercantile. Le esperienze internazionali ci insegnano che i processi di privatizzazione non solo hanno determinato aumento dei prezzi, coniugato spesso ad un abbassamento della qualità del servizio erogato, ma nel contempo non si sono collegati a progetti di incentivazione dell’investimento produttivo capace di creare occupazione; anzi le privatizzazioni sono state il banco di prova dei cosiddetti “tagliatori di teste”, aumentando la disoccupazione e il disagio sociale senza nel contempo abbattere il sistema clientelare, assistenziale, inefficiente e tangentocratico.

La stessa costruzione dell’Europa basata sui parametri di Maastricht rappresenta la definizione di uno scenario di un confronto aperto e diretto del modello del capitalismo europeo alla partecipazione da protagonista a quella economia globalizzata che misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense, quella giapponese e quella europea guidata dall’asse franco-tedesco. Un percorso definitorio neoliberista che in nome di un malfigurato progresso, di un capitalismo sempre più selvaggio si apre all’incontro-scontro con i diversi modelli di mercato, tutti comunque finalizzati a lasciare un sempre maggior numero di persone senza protezione, nella miseria, aumentando le diseguaglianze economico-sociali nel nome della gigantesca mistificazione europea.

La costruzione di un’Europa dei popoli, un’Europa sociale del lavoro, non può non tener conto che qualunque sia il sistema di capitalismo, risultano sempre e comunque dominanti quelle forze tese alla ricerca di obiettivi di guadagno, immediato o a medio lungo termine, che non si trasformano mai in processi di redistribuzione equa e di utilità sociale generale. Gli equilibri, la stabilità, la redditività cercata dal sistema capitalistico internazionale si sono rivelati soltanto processi di destabilizzazione degli equilibri politici, sociali e ambientali.

Oggi è possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte di politica economica e di politica industriale, perché le innovazioni tecnologiche permettono una più alta produttività di impresa che deriva esclusivamente dall’incremento di produttività del lavoro. Incrementi di produttività che sono quindi ricchezza sociale nel suo complesso, e perciò tali incrementi di produttività devono essere finalizzati al miglioramento della qualità del lavoro, della qualità della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore, a parità di salario, di ritmi e controllando i turni e il lavoro straordinario, adeguando il tempo di lavoro a favore del tempo liberato e di una migliore socialità dell’intera collettività.

Date le attuali condizioni internazionali di sviluppo dell’innovazione tecnologica si può ipotizzare che la quota di lavoro socialmente necessario alla sussistenza media dell’intera classe dei lavoratori sia pari a circa il 20% dell’attuale giornata lavorativa sociale a livello internazionale; ed è questa la parte di lavoro retribuita, mentre il resto è pluslavoro destinato ad accumulazione di capitale.

Allora la battaglia per la riduzione dell’orario deve da subito porsi su un terreno offensivo per superare le ostilità e il tentativo palese, da parte della Confindustria, di opporsi al connotato conflittuale di tale proposta. Bisogna altresì combattere le ipotesi di riportare la riduzione dell’orario di lavoro su una media annuale, ipotesi legata la tentativo di mediare in tal modo i periodi ad alta intensità con quelli a bassa intensità di lavoro.

L’attenzione va posta anche sulle difficoltà interpretative e sulla divisione fra i lavoratori che la proposta sulla riduzione dell’orario di lavoro può provocare, sia in funzione di una difesa del lavoro straordinario sia relativamente alla rincorsa verso il secondo lavoro, spesso sommerso e atipico, aumentando così la divaricazione tra l’economia ufficiale e l’economia del lavoro nero e “grigio”, soprattutto legata al modello delle piccole e medie imprese.

Se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è accompagnata da una battaglia offensiva dell’intera classe dei lavoratori, dei garantiti e dei non garantiti; se tale proposta non è legata alla più ampia battaglia relativa alla socializzazione dell’accumulazione di ricchezza riconoscendo a tutti i non garantiti un reddito sociale minimo di cittadinanza; se le organizzazioni dei lavoratori non impongono la parità del salario reale, il controllo dei ritmi, della condensazione del lavoro, il mantenimento degli stessi turni, specialmente nelle attività produttive a ciclo continuo; se non si ha il controllo sul lavoro straordinario e sull’aumento dell’utilizzo degli impianti che può più che compensare l’incremento del salario-orario derivante dalla riduzione dell’orario; se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è effettuata considerando l’intero arco di vita del lavoratore; allora si può cadere in un contesto contraddittorio, difensivistico, compatibile con le esigenze di ristrutturazione del modello capitalistico, creando anche forti conflitti orizzontali all’interno della stessa classe dei lavoratori.

Si deve anzi riportare la battaglia sulla riduzione dell’orario di lavoro in funzione di una forte richiesta di diversificazione della qualità della vita, di socializzazione del tempo liberato dal lavoro, con la consapevolezza che l’obiettivo delle 35 ore è di natura intermedia, poiché il livello di tecnologia raggiunto e di produttività media del lavoro fa si che soltanto con il 20% dell’intera giornata lavorativa oggi si possa coprire il salario sociale spettante all’intera classe dei lavoratori.

Nell’economia capitalistica l’abbreviazione della giornata lavorativa corrisponde semplicemente alla riduzione del lavoro necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza per l’intera classe dei lavoratori, mantenendo o aumentando la parte di pluslavoro non pagato. In tale contesto gli incrementi internazionali di produttività media corrispondono a decrementi della massa salariale sociale complessiva, mantenendo od aumentando così il tasso di sfruttamento.

Allora non si tratta di dare ulteriori incentivi fiscali, sgravi e agevolazioni contributive alle imprese che accettano la riduzione dell’orario di lavoro, ma va immediatamente capito che l’incremento di produttività è ricchezza sociale che può garantire il soddisfacimento di nuovi bisogni, redistribuendo socialmente l’accumulazione di capitale, e ponendo un programma di iniziativa che entro pochi anni può portare alla giornata lavorativa, a parità di condizioni, di 15 ore e non di 35!

Si può intanto imporre immediatamente l’allargamento della base occupazionale a partire da politiche reali di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, senza intaccare la certezza dei diritti acquisiti e delle conquiste dei lavoratori in termini di organizzazione dei turni, dei ritmi, dei tempi e della qualità del lavoro. Bisogna allora considerare la riduzione dell’orario sull’intero arco di vita del lavoratore, collegando tale riduzione ad una prospettiva di iniziativa complessiva, una campagna di opinione, di lotta, un appello all’Europa sociale del lavoro per rivendicare il diritto al reddito sociale minimo di cittadinanza.

La redistribuzione del reddito ha assunto e assume un carattere limitativo perché basata sulla concessione del salario individuale, mentre il conflitto sociale ha possibilità di volgere dalla parte dei lavoratori solo se le lotte per il salario assumono quella portata globale che rivendica il salario sociale reale complessivo.

È la dimensione sociale di classe del salario che fa sì che esso costituisca il prezzo dei costi di esistenza e di riproduzione dell’intera classe lavoratrice. Di conseguenza la categoria economica del salario minimo non può essere riferita al singolo individuo, poiché un grandissimo numero dei singoli soggetti appartenenti alla classe lavoratrice non ricevono quel minimo vitale necessario per esistere e riprodursi. È solo il salario complessivamente appartenente all’intera classe lavoratrice (compresi i disoccupati, i precari, gli inoccupati e sottoccupati) che assume la forma di salario minimo per permettere la vita e la riproduzione dell’intera classe.

Il salario è allora determinato dal suo rapporto con il profitto, assumendo la forma di salario relativo, cioè prezzo del lavoro fornito ad un determinato istante, confrontato col prezzo del lavoro anticipato e accumulato che si trasforma in fattore produttivo capitale. Il salario relativo è indissolubilmente legato alla capacità del capitale di trarre vantaggio dagli incrementi di produttività.

Il salario è così una grandezza sociale perché riguarda i lavoratori come entità sociale, e pertanto essendo relazionato all’insieme dei mezzi di sussistenza ingloba anche le prestazioni sociali collettive a carattere assistenziale, previdenziale (tredicesima, liquidazione, pensione) e l’insieme dei consumi collettivi erogati gratuitamente o a prezzi controllati (sanità, trasporti, istruzione, assistenza, spesa sociale in genere, ecc.), comprendendo infine anche quella parte di valore sociale della forza lavoro corrispondente all’impiego di tempo di lavoro non retribuito (come ad esempio il lavoro delle casalinghe,ecc.). Il reddito sociale è quindi destinato all’acquisizione da parte dell’intera classe lavoratrice dei mezzi di sussistenza indispensabili alla sopravvivenza dignitosa anche dei disoccupati, dei precari, degli anziani, dei giovani, degli inabili al lavoro.

A partire da tale necessaria premessa ne deriva che bisogna prestare particolare attenzione quando, seguendo alcune impostazioni di carattere economico-sociale, cooperativo, apparentemente solidaristico, (vedi ipotesi sull’economia della partecipazione , sull’impresa sociale, sul Terzo Settore), si propongono alcune forme di salario minimo garantito che, se non tengono conto del carattere di per sé già sociale del salario, cadendo di fatto nella richiesta di assistenzialismo, di carità garantita, di riproposizioni di clientele, di rapporti subordinati di scambio che svuotano, delegittimano e ostacolano la riproposizione del conflitto a partire dalla centralità del diritto al lavoro.

Anche questo può essere un modo per realizzare profitto da parte del capitale attraverso il controllo della cosiddetta economia sociale, sfruttando anche in termini fiscali le donazioni a fini solidaristici, allargando le possibilità di finanziamento e di distribuzione dei trasferimenti pubblici su quelle imprese sociali legate al mondo politico-affaristico. Si realizza così anche un uso strumentale del Terzo Settore finalizzato alle regole dell’efficienza capitalistica con l’utilizzo dell’economia non profit che si sostituisce al ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti nell’ottica di uno Stato basato esclusivamente sulle regole dell’economia del profitto affiancate da elargizioni caritatevoli compatibili con il sistema.

Non si tratta quindi di richiedere quel minimo vitale a carattere etico e filantropico che può assumere la forma di salario minimo o reddito garantito, ma si vuole imporre semplicemente il pieno riconoscimento della forma sociale del salario riferito all’intera classe lavoratrice e storicamente determinato e derivato dai rapporti tra lavoro e capitale. È per questo che tale diritto preferiamo individuarlo con i nome di reddito sociale minimo di cittadinanza.

In questa visione lo stesso Welfare State è un concetto limitativo, poiché voluto e derivato dal punto di vista del capitale come possibilità di limitare la rivendicazione dell’intero reddito sociale che globalmente spetta alla classe lavoratrice. Quando si attraversano fasi di crisi o di ristrutturazione complessiva (vedi l’Europa di Maastricht) allora il capitale si sceglie la via di allontanarsi sempre più dal reddito minimo sociale globale, tagliando la spesa pubblica e affidando alcuni servizi sociali al volontariato.

È per questo che oggi va riproposta una battaglia europea dell’intera classe dei lavoratori, occupati e non occupati, garantiti e non, come momento centrale della iniziativa legata alla riproposizione verticale dei conflitti sociali a partire dalla distribuzione sociale dell’accumulazione del capitale, della ricchezza sociale generale complessivamente prodotta. Si propone così una iniziativa politica a livello europeo sulla salvaguardia e rivendicazione di distribuzione a tutti i lavoratori, occupati e non, dell’intero spettante salario sociale prodotto come classe, tralasciando le richieste corporative basate sul salario individuale e sulle forme di elargizione caritatevole di “soccorso agli esclusi”. Questo è il significato legato al riconoscimento del reddito sociale minimo di cittadinanza.

Non sono quindi le parvenze di un “equo” Stato sociale, di forme di democrazia economica basate sull’apparente partecipazione e la cogestione, non è quindi la richiesta corporativa di elargizione caritatevole di un minimo vitale, che possono riverticalizzare il conflitto sociale bensì è attraverso la lettura storico-economica del rapporto fra capitale e lavoro, che si può esigere il pagamento di un equo reddito sociale reale complessivo.

8. Una nuova fiscalità: distribuzione sociale degli incrementi di produttività e dell’accumulazione

Riaffermare la centralità del reddito sociale reale complessivo, attraverso il riconoscimento, la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita e di un reddito sociale minimo di cittadinanza, significa rimettere le mani sul bilancio pubblico incrementando le entrate che derivano dalla tassazione del capitale e dell’accumulazione. In tal modo si può abbandonare la logica del salario individuale che deriva dalla contrattazione aziendale e comunque basata sui rapporti di forza tra capitale e lavoro, riportando la contraddizione ad un livello più alto fra Stato e capitale, facendo pesare la realizzazione di tali obiettivi fiscalità generale, addossata maggiormente al capitale, in modo da restituire alla classe lavoratrice ciò che nel tempo ha dato in termini di incremento di produttività e di contributo forzoso all’accumulazione.

Per iniziare a realizzare tali obiettivi minimi bisogna a questo punto inserire un altro argomento macroeconomico fondamentale, che è volutamente sorvolato o affrontato in chiave esclusivamente “morale” e, quindi, non risolutiva dai tecnici ed economisti che fanno riferimento al nuovo modello economico-sociale concertativo. Stiamo parlando dell’evasione e dell’elusione fiscale, e più in generale di una radicale riforma fiscale in grado di prelevare le entrate del bilancio pubblico da una maggiore e più articolata tassazione dei capitali.

Il sistema fiscale italiano insiste nell’assoluta persistenza di protezione dell’evasione e dell’elusione e di continui e massicci trasferimenti, agevolazioni ed incentivi alle imprese. Si consideri che negli ultimi anni mediamente oltre i due terzi delle società di capitale denunciano un IRPEG negativa, e più del 25% dimostrano di realizzare un reddito imponibile al di sotto dei 20 milioni; senza considerare che la stragrande maggioranza dei lavoratori autonomi denunciano redditi inferiori ai loro dipendenti. All’opposto invece i lavoratori dipendenti, i pensionati e i redditi da famiglia in genere sono giunti a carichi contributivi ormai insostenibili.

La costruzione di un’Europa sociale del lavoro ha bisogno di ridistribuire reddito e ricchezza attraverso un fisco che aumenti la massa dei contribuenti, contraendo l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, colpendo i capitali speculativi, i movimenti di capitale all’estero, tassando l’innovazione tecnologica, recuperando in termini redistributivi gli immensi incrementi di produttività del lavoro che si sono realizzati in particolare in questi due ultimi decenni.

Perché non porre come perno centrale delle politiche economiche la lotta seria all’evasione ed elusione fiscale in modo da ampliare le possibilità di intervento dello Stato sociale, abbandonando le politiche monetariste restrittive, le politiche neo-liberiste dei tagli alla spesa sociale, della mobilità e flessibilità; di un sistema dei diritti che si trasforma in benevola carità cristiana puntando ad un Terzo Settore, un volontariato che deve sostituire il Welfare State, ma piuttosto realizzando una incisiva politica delle entrate che finalmente punti alla riduzione dell’evasione fiscale che in Italia raggiunge valori altissimi.

Ed allora bisogna trovare politiche, sistemi di controllo in grado effettivamente di snidare i grandi evasori fiscali, con un profitto e una rendita che non siano di fatto esentati dalla contribuzione; invertendo così la tendenza che vede ormai dal 1970 la quota dei trasferimenti di reddito allo Stato sempre più aumentare a scapito delle famiglie e a vantaggio delle imprese.

Si può così contribuire ad invertire la tendenza di una politica di fiscalità che si esprime a favore del “nuovo patto sociale”, attraverso le elargizioni dirette e indirette di favore al “nuovo blocco sociale” che ruota intorno alle centralità delle imprese, realizzando un sistema fiscale nel quale più si è ricchi, più si è detentori del fattore capitale e meno si partecipa alla spesa collettiva, con la rendita e il profitto che non devono essere intaccati, e con un’evasione fiscale che è di fatto legalizzata. Di contro sono sempre i redditi delle famiglie ad essere direttamente e indirettamente spremuti, restringendo ulteriormente le forme di redistribuzione del reddito; trasformando le forme di redistribuzione egualitaria del reddito in forme al ribasso di uguaglianza che puntano a ripartire tra i poveri solo la miseria; contrapponendo i giovani agli anziani, gli occupati ai disoccupati, il diritto al lavoro ai diritti del lavoro, gli aumenti occupazionali a salari ridotti, alla flessibilità, alla grande precarietà, al continuo abbassamento della qualità del lavoro e della qualità della vita.

Si tratta di scegliere un terreno offensivo anche in ordine alle politiche fiscali, recuperando per i lavoratori almeno parte del tempo reso disponibile dagli incrementi di produttività del lavoro che il capitale trasforma in disoccupazione strutturale, in quanto si tratta di forza-lavoro che non è più compatibile far tornare all’impiego, perché i bisogni derivanti dalla domanda di produzione mercantile non sostengono più lo sviluppo capitalistico. Visto quindi l’enorme incremento di accumulazione media del capitale, derivante da incrementi di produttività, è giunto allora il momento di tassare di meno i lavoratori e invece di aumentare fortemente la tassazione sulle macchine, sui robot, sulle innovazioni tecnologiche, sui grandi patrimoni.

L’introduzione dell’IRAP è una nuova scelta per favorire ancora le multinazionali, le grandi imprese, i grandi capitali, colpendo invece in maniera ancora più forte le microimprese e in genere i redditi medio-bassi.

Un terreno immediatamente praticabile è invece quello di applicare una efficace imposta patrimoniale, di colpire le rendite finanziarie e i grandi patrimoni, di tassare i guadagni in conto capitale (capital gain), di ridurre le agevolazioni verso le imprese, per poter così aumentare la spesa pubblica in modo che questo possa rappresentare un investimento ad alta redditività sociale basato su principi di giustizia fiscale e tributaria, e quindi di giustizia sociale.

Invertire la tendenza abbassando il carico fiscale sul lavoro dipendente e sul lavoro autonomo più marginale, colpendo maggiormente le società di capitale, le rendite finanziarie, i profitti, i capital gain, i grandi patrimoni significa semplicemente assolvere ai dettami costituzionali secondo i quali il carico fiscale deve servire per redistribuire i redditi dall’alto verso il basso. Significa, inoltre, recuperare quasi 300.000 miliardi annui di evasione di imposte dirette, di imposte immobiliari, di imposte indirette e di evasione contributiva. Già il recupero di una parte di tali ingenti somme di evasione annua significa poter adeguare le entrate pubbliche finalizzandole ad un rafforzamento del Welfare State e non ad una rincorsa dei tagli della spesa sociale.

Si consideri inoltre che le plusvalenze, realizzate dalla differenza fra quanto ricavato al momento della vendita di un titolo azionario e quanto pagato per il suo acquisto (capital gain), non è attualmente gravato da alcuna imposta. D’altro canto non esiste in generale una seria tassazione dei redditi da capitale, vanno quindi riviste e incrementate le aliquote delle ritenute almeno a partire da una determinata soglia minima di possesso dei titoli (si dovrebbe per lo meno giungere, sia per i titoli privati sia per i titoli pubblici, ad un passaggio dall’attuale aliquota del 12,5% ad una del 30%) facendo si che gli interessi maturati sui titoli debbano essere indicati nella dichiarazione dei redditi. È inoltre assente una qualsiasi forma di tassazione sulle transazioni riguardanti prodotti finanziari denominati in valuta estera, senza che siano colpiti in alcun modo i trasferimenti internazionali di capitale, neppure quelli a finalità speculativa.

Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il capitale, fino a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, effettuare degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una efficiente anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno abbienti della popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella ricchezza sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata nel tempo in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad esclusivo vantaggio del capitale.

Inoltre il sistema fiscale deve allargare l’area delle tutele, permettendo maggiori deducibilità fiscali delle spese a carattere sociale sostenute dalle famiglie, in modo tra l’altro da contribuire così a colpire vasti fenomeni di evasione ed elusione fiscale. Si fa ovviamente riferimento ad una serie di spese, che in uno Stato dei diritti e delle garanzie universali, dovrebbero essere tutte a carico della fiscalità generale ( spese per lo studio, spese per l’assistenza, spese per le manutenzioni della casa, spese per l’affitto di abitazioni principali, riparazioni di autoveicoli, ecc.).

Le soluzioni sono a portata di mano e realizzabili in maniera tale da diminuire il carico fiscale su pensioni, su lavoro dipendente, su artigiani e piccoli commercianti, sulle microimprese, e trovando invece il bilanciamento con forme diverse di tassazione che si trasferiscono dai salari alle rendite, ai patrimoni, all’accumulazione di capitale, aumentando e migliorando così lo Stato sociale.

Si tratta di recuperare all’occupazione, al rafforzamento dello Stato sociale, al riconoscimento di un reddito sociale minimo di cittadinanza, qualcosa come diverse centinaia di migliaia di miliardi l’anno. Ci sembra quindi un obiettivo minimo, praticabile quello di aprire una battaglia, una iniziativa di dibattito e di lotta, già a partire dalla Finanziaria del prossimo anno, che realizzi la nostra “ragionevole utopia”: riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore a parità di salario e con controllo dei ritmi e della condensazione del lavoro; riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore; un milione di posti di lavoro ripartendo da produzioni non mercantili e dalla ridefinizione di uno Stato occupatore; almeno 50 mila miliardi da destinare al reddito sociale minimo di cittadinanza.