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ANALISI-INCHIESTA:PER UNA LETTURA STATISTICO-ECONOMICA DELLA GEOGRAFIA DELLO SVILUPPO

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Abitare le città

GAETANO FUSCO

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L’architettura è per lo più considerata costruzione, disegno, engineering, ma essa è soprattutto l’idea di uno spazio la cui intima interiorità è connaturata dalla distinzione limpida tra un dentro e un fuori. Abitare l’architettura è mettere radici in uno spazio delimitato; recingerlo costituisce il carattere primo e indispensabile della natura di un edificio, di ogni edificio. “Quando noi costruiamo - scrive Geoffrey Scott - non facciamo altro che distaccare una conveniente quantità di spazio, chiuderlo e proteggerlo”1. Per eccellenza, la città è lo spazio dell’abitare. L’architettura è prima di tutto dunque residenza e dimora dell’uomo e concorre alla costruzione degli insediamenti urbani. L’antropologia degli archetipi ha scavato l’intima qualità dell’abitare che nella classica lezione di Bachelard è legata alla memoria dei luoghi, le réveries inscritte nelle città e nelle dimore dell’uomo2. La città stessa è un registro straordinario di edifici e di fatti urbani, documento unico della memoria di ogni uomo che l’abita. Prendersi cura dell’abitare e studiare l’architettura da un punto di vista antropologico si rivela dunque una antica quanto contemporanea necessità utile a circoscrivere i confini di una nuova alleanza con la natura e con la natura dell’uomo. Questa traccia può determinare oggi i confini di una nuova recerche sull’essenza heideggeriana dell’abitare che rimetta al centro la cultura della polis3. La natura degli edifici e della città che li contiene è iscritta nelle proprie immagini, nella letteratura descrittiva, nei fermo-immagine della pittura e della fotografia e rivela e allo stesso tempo custodisce l’intimità dei luoghi e continua a promuovere la poiesis delle città, il desiderio invincibile di creare opere d’arte che è e sempre stata e rimane la missione prima dei muratori di opere gravi, espressione che per Fernando Tàvora evoca tanto il peso quanto l’azione intelligente e meditata del fare architettura. D’altra parte le eccessive scomposizioni delle forme dello spazio costruito, generate dalle amnesie di cui si nutre la cultura architettonica contemporanea, concorrono fortemente ad accrescere il disorientamento della psiche umana. L’esistenza stessa sembra non riconoscere più un centro nello spazio, l’oikos greco che identifica l’uomo come parte del mondo, della città e della natura. Nella metafora dell’Arcipelago di Massimo Cacciari, mare fecondo d’isole, c’è il richiamo potente alla città, alla polis greca, all’ethos del molteplice come dimora e soggiorno dell’esserci4. Il metaforico mare che lo comprende è il luogo, per eccellenza, della relazione tra le molteplici forme. Nell’inseparabile distinzione le città confermano nel topos dei luoghi quelle forme che ne intrecciano lo spazio dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento all’Ottocento. Uno spazio dove, come nella cosmologia degli infiniti mondi di Bruno, il centro è ovunque come molteplice è l’identità della polis, una scrittura di segni mai riducibile a una. La città antica è immagine della natura doppia dell’uomo, polis e oikos, come “Ulisse e Achille, le due anime simmetriche dell’antica Grecia”5. La città è sempre sospesa tra le mutazioni del suo divenire e la necessaria inamovibilità antropologica che ne custodisce l’identità, le radici della tradizione, il mito, l’aiòn. I due poli si sfidano ma convivono: la polis è la nostalgia dell’andare, l’irrinunciabile viaggio di Ulisse; l’oikos è la nostalgia del centro, del ritorno di Achille alla memoria della terra da cui è nato. L’oikos ha nel passato il suo centro, la polis nel futuro il proprio destino.”Ma è immanente all’Arcipelago quella sconvolgente trasformazione psicologica e tecnica che, in un solo secolo, il Novecento, ha così profondamente distinto gli Occidentali dal resto degli uomini, mutazione che consiste essenzialmente in un allontanamento sempre più marcato dalle condizioni iniziali o naturali della vita”6. L’Arcipelago delle città occidentali sopravvive in bilico tra lo spazio gerarchicamente ordinato della città storica e il dissolvimento nel magma edilizio degli habitat territoriali che nulla hanno più da spartire con la missione cosmica dell’abitare. Che cos’è oggi la città per noi?, si chiedeva Calvino7, e a chi e a cosa serve? La vasta res exstensa di sobborghi, periferie, circonvallazioni, capannoni e supermercati è un alveare d’inquieta stanzialità, in cui i processi di interiorizzazione del vissuto confliggono anche drammaticamente con il mutamento della temporalizzazione dell’esistenza. Ma se la città è ovunque, ormai non abitiamo più città ma occupiamo territori, più o meno metropolitani e globalizzati, la cui frammentazione è speculare alla crisi della natura e inesorabilmente vi si sovrappone. La solitudine dell’identità dell’uomo si accompagna implacabilmente a quella degli edifici in cui abitano. Nel caos antropologico della surmodernità di Marc Augé, la regola del costruire sembra essere ormai la negazione di ogni possibilità di luogo8. Secondo il punto di vista di molti antropologi, il territorio è una vera e propria estensione dell’organismo umano, caratterizzata e delimitata da segnali visivi, vocali ed olfattivi per cui non solo è interessante distinguere i diversi universi spaziali prodotti dalle diverse culture e subculture, ma anche il modo in cui tali spazi siano influenti sugli aspetti della vita quali la qualità dello spazio abitato, il modo di vedere se stessi e il proprio destino. Il comportamento umano è, senza dubbio, influenzato dalle rappresentazioni simboliche che il gruppo ha dato allo spazio che vive e con il quale è in intimo rapporto. I differenti gruppi sociali infatti, a seconda delle diverse culture cui appartengono, percepiscono, strutturano e si rappresentano gli oggetti in pensieri seguendo schemi che sono loro propri, e a poco a poco tendono a regolare lo spazio in cui vivono in funzione di questa rappresentazione. Lévi-Strauss, compiendo un’ampia comparazione tra insediamenti umani diversi, rivela che l’occupazione dello spazio dei singoli individui è considerata un linguaggio esplicativo della struttura sociale e della visione del mondo del gruppo stesso. Da questo punto di vista, l’incontro tra cultura e territorio diventa un tracciato delle interrelazioni personali che nel corso del tempo si sono svolte e si svolgono in quello spazio. “Cosi questo spazio cessa di essere un’entità naturale e diviene un insieme strutturato dai rapporti sociali svoltisi nel passato e in cui si iscrivono ogni sorta di nuovi rapporti sociali. Ed allora il processo di socializzazione può anche essere considerato in modo caratteristico e specifico, con ogni gruppo che insegna ai suoi membri più giovani a vivere, ad organizzare e a gestire lo spazio”9. Paradossalmente, nell’epoca della diffusione di massa dell’art design applicato a ogni cosa e in ogni dove, abbiamo smarrito il senso della concezione di natura dell’abitare pressati della subliminale ideologia dell’ edonismo estetico, eco mediatico di un frastuono psichico che per James Hillman ci sta allontanando dagli archetipi mitici delle dimore dell’esistenza10. Eppure l’attuale inarrestabile declino della città industriale, consente di poter improntare una nuova cultura dell’abitare e rifondare le relazioni tra l’urbs e la civitas, in cui l’architettura può riappropriarsi dei propri modi di uso e forma e la città delle ragioni dei fatti urbani che la identificano. Adorno suggeriva di farlo con la più semplice delle soluzioni, ovvero con “un’architettura degna dell’uomo, [che] ha degli uomini e della società un’opinione migliore di quella che corrisponde al loro stato reale”11. Numerosi studi epidemiologici e ricerche sugli ambienti, svoltisi soprattutto dalla metà del 1900, rivelano che molti problemi sociali gravi quali la mortalità perinatale ed infantile, la psicopatologia, la delinquenza e la criminalità giovanile sono collegati a fattori sociali che seguono la ripartizione spaziale della città. I bambini e gli adolescenti, ad esempio, in piena formazione, e quindi rapidamente modellabili e marcabili, con i loro problemi, testimoniano severamente le carenze di determinati ambienti. Possiamo riferirci soprattutto ai quartieri urbani delle nuove periferie nella cui pianificazione non si è tenuto conto di esigenze di determinate categorie sociali quali i bambini, i giovani e gli anziani. Per esempio, nelle maggioranza dei nuovi quartieri “non sono previsti spazi per gli adolescenti, né per riunirsi, né per svolgere attività che non siano fissate o prestabilite da una società adulta che ha sempre ignorato i loro reali bisogni. E in quest’ottica, essi sono considerati vittime di un’organizzazione urbana -riflesso essa stessa di un sistema socio-economico e politico- che non solo crea e rinforza le diseguaglianze sociali, ma che dimentica alcune categorie sociali, in particolare le categorie definite non produttive”12. Benasayag e Schmit osservano acutamente che un giovane “sa bene - come sappiamo tutti oggi - che basta osservare la piantina di una città per poter dire, quartiere per quartiere, quanti disoccupati ci sono, quanti giovani smettono di andare a scuola prima di aver concluso le medie e quanti andranno in prigione con un margine di errore minimo. È proprio questa statistica con un margine di errore minimo che costituisce probabilmente il nocciolo duro della realtà dei giovani e del loro schema di riferimento: è la manifestazione del determinismo o meglio del fatalismo, che li condanna in anticipo e che indica come possibile unica via d’uscita quella di esercitare la legge della giungla, che ai nostri occhi evidentemente, non è affatto una via d’uscita”13.

note

* Psichiatra e membro fondatore della “Scuola sperimentale per la formazione alla psicoterapia ed alla ricerca nel campo delle scienze umane applicate” di Napoli.

** Architetto e docente alla Facoltà di Architettura Luigi Vanvitelli della Seconda Università degli Studi di Napoli.

1 Geoffrey Scott, L’Architecture of Humanism, Firenze, 1914; trad. it. L’architettura dell’umanesimo, Dedalo libri, 1978, p. 179.

2 Gaston Bachelard, La poétique de l’espace, presses Universitaries de France, 1957; trad. it. La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, 1999.

3 Cfr. Martin Heidegger, Vorlage und Aufsatze, Verlag Gunther Neske Pfullingen, 1954; trad. it. Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, 1976.

4 Cacciari, L’arcipelago, Adelphi, 2005.

5 Massimo Cacciari, L’arcipelago, op. cit., p. 25, note.

6 Massimo Cacciari, L’arcipelago, op. cit., p. 22.

7 Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondatori, 1985.

8 Marc Augé, Non-lieux, Seuil ed., 1992; trad. it, Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera editrice, 1993, passim.

9 Matilde Callari-Galli, Per una cultura antropologica dell’adolescenza, in Tommaso Senise (a cura di), L’adolescente come paziente, Franco Angeli, 2003, p. 33.

10 Cfr. James Hilmann, L’anima dei luoghi, conversazione con Carlo Truppi, Rizzoli, 2004.

11 Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschadigten Leben, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1951; trad. it. Minima Moralia, Einaudi 1954, p. 176.

12 Matilde Callari-Galli, Per una cultura antropologica..., op. cit., p. 26.

13 Miguel Benasayag e Gérard Schmit in Les passion tristes. Souffrance psychique et crise sociale, Editions La Découverte, Paris 2003; trad. it. L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2004, p. 32.