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TRASFORMAZIONI SOCIALI E SINDACATO

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Notizie da un mondo metalmeccanico sempre presente e combattivo.
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Vincenzo Pecorella

Il cammino del sindacalismo di base nel Meridione

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1. I lavoratori del 2006

La guerra non finirà, aumenta il petrolio, cresce la Cina, è cambiato il governo, i conti pubblici non tornano, quelli di alcuni privati neanche partono: rimangono sotto zero. Le notizie e i fatti ci investono e ci schiaffeggiano come vento gelato alternato a brevi schiarite. E così ci muoviamo il meno possibile per non compromettere il nostro benessere minimo, quasi smarriti, imitando chi ci ha preceduto, adeguandoci agli altri, senza sapere cosa fare. Un partito a cui fare riferimento non lo abbiamo più: tutti i politici, da destra a sinistra, ci dicono che siamo vincolati all’Europa e che dobbiamo fare scelte obbligate, sempre - detto o non detto - per favorire le imprese; la sinistra parlamentare più estrema, se così si può definire un partito della rifondazione comunista, è una robusta associazione di loquaci professionisti della politica, di studenti, di insegnanti, di intellettuali veri o presunti e di pochi, imbarazzati lavoratori. Il sindacato non lo capiamo più: da tempo delegati e segretari ci fanno lunghi discorsi che con parole diverse, spesso “scocchiate”, portano alle stesse conclusioni dei sermoni aziendali; la verità è che i nostri vecchi rappresentanti si sono seduti alla tavola del padrone, mangiano con lui, condividono adesso i suoi interessi e non più i nostri. Potremmo raccontare così, in poche parole, la condizione media di noi lavoratori nell’Italia del 2006. Stare, subire, muoversi o reagire? La scelta di alcuni lavoratori di industrie metalmeccaniche pugliesi - in tanti o in pochi a seconda dei punti di vista - è stata quella di aderire a un sindacato nuovo, definito di base per sottolineare la differenza con CGIL, CISL e UIL, mastodonti burocratici dove contano solo i vertici, organizzazioni esclusive all’interno delle quali i segretari non si contano e si cooptano tra loro. Per certi versi organizzarsi in sindacato di base in una azienda meridionale è stato pionieristico: derisi e poi perseguitati dentro la fabbrica, disorientati fuori in una selva di sigle sindacali tutte di base e tutte inevitabilmente miscuglio di onesti lavoratori, mezzi leaders riciclati e persone competenti. Tutto questo è passato: ora ci interessa, prendendo spunto dalle recenti elezioni dei rappresentanti sindacali in una particolare realtà industriale meridionale, abbozzare un’analisi della situazione attuale. 2. Sindacalismo di base in una fabbrica meridionale

A giugno di quest’anno nella SKF di Bari - industria metalmeccanica con più di quattrocento dipendenti e parte di una multinazionale - è stata presentata alle elezioni RSU una lista con la sigla FLMUniti-CUB. Il risultato, 56 voti tra gli operai (pari al 16,6%), è stato soddisfacente ma non sufficiente per ottenere la nomina di un delegato; e questo solo per la clausola che prevede che un terzo della Rappresentanza Sindacale Unitaria non venga eletto dai lavoratori ma nominato dalle segreterie di FIM, FIOM e UILM. Infatti la lista della FIOM ha ottenuto il delegato pur avendo registrati solo 39 voti. Lasciamo da parte le lagnanze sulla antidemocraticità del regolamento. Nella SKF, azienda che fino agli anni Ottanta faceva parte della galassia FIAT e della quale conserva ancora certe impostazioni di fondo, storicamente la dirigenza ha cercato di attenuare gli effetti della sindacalizzazione incanalando le istanze operaie nel sindacato giallo FISMIC; sindacato che ha sempre mantenuto la quota maggioritaria delle iscrizioni e dei voti nelle elezioni per i delegati. Tanto per capire: l’esponente di spicco del FALI-FISMIC nella SKF di Bari è un operaio, ma solo sulla carta; egli è un luogotenente a tutti gli effetti del capo del personale in officina. In quanto tale, dispensato dal lavoro e dispensatore di favori e raccomandazioni, questo personaggio ha finora raccolto nelle elezioni per i rappresentanti sindacali un numero di preferenze personali superiori, spesso di gran lunga, a cento. Ebbene, un primo dato interessante delle elezioni che si sono tenute nel giugno di quest’anno è il netto calo del FISMIC e il tracollo di questo suo candidato principale, che non ha preso neanche 50 voti, una miseria per lui; un segnale inequivocabile del fascino calante delle sirene aziendali. Ma se il calo di consensi del sindacato giallo è il segnale che tanti lavoratori non si sentono più né tutelati né protetti dalle lunghe mani aziendali, d’altra parte molti di quei voti si sono travasati nelle liste di UILM, FIM e FIOM, dove diversi candidati hanno ottenuto tutti tra i venti e i trenta voti. E tutti, come in una lotta tra bande rivali, proponevano in sostanza lo stesso modello sindacale del FISMIC: quello del delegato sindacale come intermediario nella contrattazione individuale tra dipendente e direzione. Molti operai, evidentemente, sono restii ad abbandonare i vecchi modelli; è un rischio considerato ancora troppo grande, da loro, spezzare il filo che li lega ad una organizzazione venduta ma potente e capace di far ottenere piccoli favori, per un’altra che presenta ancora delle incognite, anche se coerente. Se dunque quasi il 17% degli operai (non c’erano candidati impiegati nella lista FLMUniti-CUB e quindi non ci sono stati voti) ha scelto di votare per un modello di sindacato che ripropone un modo collettivo di difesa dei propri interessi - pur in una fabbrica nella quale molti giovani dipendenti sono figli di ex dipendenti e quindi particolarmente condizionati - qualcosa è cambiato. È stata determinante la scelta di fare soprattutto una battaglia di informazione, fornendo regolarmente - tramite un giornale aziendale che è poi diventato locale - dati, analisi e commenti, in modo da innescare un circolo virtuoso di interesse e coinvolgimento? In ogni caso, se a distanza di 7 - 8 anni dal suo primo annuncio in loco una proposta sindacale considerata da tutti poco meno che eversiva (se vincono “quelli” lo stabilimento chiuderà, andavano ripetendo in molti) riceve tanti consensi significa che la strada è giusta. Andare avanti quindi, ma come? Una volta si considerava centrale la categoria dei metalmeccanici. Lo è, lo sarà ancora in un sistema economico nazionale sempre più “terziario”? Se, per esempio, potessimo ragionevolmente prevedere che in Italia avverrà quello che accaduto nella Gran Bretagna di fine secolo scorso: la produzione automobilistica è praticamente scomparsa, le fabbriche sono state trasferite in altri paesi a più basso costo del lavoro, e comunque non c’è stato un massiccio aumento della disoccupazione, segno che in altri settori sono aumentati i posti di lavoro; se potessimo ragionevolmente prevedere questo, allora sarebbe altrettanto importante del lavoro sindacale dentro la fabbrica metalmeccanica un lavoro sindacale di ricerca e di collegamento con altre categorie. Questo si fa già, potrebbe obiettare qualcuno. Ma non dimentichiamo che esiste ancora oggi una grande differenza tra regioni settentrionali (se la Lombardia fosse uno stato, economicamente si porrebbe al livello della migliore Germania) e regioni meridionali. A Milano è una realtà la manifestazione annuale dei precari in occasione del primo maggio. In Puglia, che accade? Il cosiddetto distretto del salotto pugliese, di cui tutti abbiamo sentito parlare, in realtà non è solo pugliese: l’area interessata è un triangolo i cui vertici sono Altamura e Santeramo, in provincia di Bari, e Matera, in Basilicata; conta tra le quattrocento e le cinquecento imprese e un numero di addetti che nel 2005 veniva stimato intorno ai diecimila. Le grosse aziende sono due o tre, Natuzzi in testa, a cui fanno da sub fornitori una folla di piccole attività specializzate nella costruzione dei “fusti” (gli scheletri dei divani) o nel taglio dei tessuti o della pelle. La maggior parte della produzione, più dell’80%, è destinata all’esportazione. Il boom del salotto pugliese si è avuto tra i primi anni ’90 e il 2003, l’anno della crisi, con il massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali e la chiusura di diverse aziende, molte delle quali hanno scelto di “delocalizzarsi” in paesi come la Romania. Oggi quella crisi sembra almeno in parte rientrata, il settore continua ad essere un pezzo importante della economia pugliese (e lucana), ma è rimasto un pesante e diffuso presentimento di un futuro difficile e incerto. In tutto il distretto la retribuzione dei dipendenti è uniformata da un criterio sperimentato nella azienda madre e poi imposto a tutte le altre. Esso consiste in un cottimo neanche camuffato: ogni pezzo prodotto da ogni dipendente (un “taglio” di pelle per una poltrona, un “fusto”, o un pezzo montato) equivale a tot minuti teorici di lavorazione; ogni minuto di lavorazione viene pagato oggi, giugno 2006, 170 delle vecchie lire; a fine mese il padrone fa il conto dei pezzi prodotti, l’equivalenza in minuti teorici di lavorazione e infine con una semplice moltiplicazione calcola la retribuzione. Naturalmente, e qui sta la fregatura per i lavoratori, i minuti teorici di lavorazione di ogni pezzo su cui è parametrata la retribuzione sono meno di quanti ce ne vogliono in realtà. Facciamo un esempio verosimile e concreto: a fine giornata, dopo dieci ore di lavoro senza interruzioni, un operaio si ritrova (si ritroverà in busta paga) una retribuzione proporzionale non a seicento minuti (dieci ore), ma a quattrocento, perché a tanto equivale il numero di pelli che è riuscito a tagliare secondo le tabelle imposte dai padroni. Quattrocento “minuti” è ciò che realmente si riesce a fare, più o meno in 8-10 ore: 68.000 lire al giorno, meno di quaranta euro, è la realtà. A fine mese, a seconda del commercialista, ci sono strade diverse per salvare la forma: o si è obbligati a firmare una busta paga in cui sono segnati tutti i giorni di lavoro effettivi (i giorni, non le ore, che risultano sempre otto) e quindi più alta di quello che si percepisce realmente; oppure l’importo segnato corrisponde alla retribuzione reale, calcolando un numero di giornate lavorative inferiore a quello vero. Nessuno si sogna di protestare apertamente. Pochissimi sono gli iscritti al sindacato nelle aziende più grandi, nessuno in quelle piccole, sentita la minaccia di licenziamento a tutti i costi i quelli che vorranno ricorrere al sindacato e di nessuna speranza poi di riassunzione nelle altre aziende del settore, coalizzate tra loro in un fronte antisindacale.

3. Un sindacato del futuro: alcuni problemi Siamo partiti dal risultato delle elezioni sindacali in una fabbrica meridionale per dimostrare che è appropriata, finora, la proposta del sindacalismo di base. Ma se lo sguardo si spinge da dentro a fuori quella realtà, il quadro in cui inserire la nostra azione di lavoratori che si organizzano in sindacato si arricchisce e si complica. Non possiamo farci carico di tutto, è vero, ma neanche ignorare. Abbiamo citato la Gran Bretagna degli anni ’90, giusto per ipotizzare uno scenario futuro della nostra economia. Se, per esempio, un domani le fabbriche in Italia dovessero diminuire avrebbe senso cercare sviluppi alternativi ripercorrendo la vecchia strada dell’agricoltura? Ancora una volta bisogna specificare: l’agricoltura meridionale è caratterizzata dalla frammentazione delle proprietà, dalla relativa specializzazione, drogata da sovvenzioni e integrazioni distribuite senza criterio e che l’hanno conservata troppo a lungo uguale a sé stessa. Avverrà domani in agricoltura quello che è accaduto ieri nel settore del commercio, quando la categoria dei piccoli commercianti si è quasi estinta di fronte all’invasione della nuova razza dei centri commerciali? Sarebbe un peccato, per certi versi, ma è inevitabile per altri. Oggi molti di quei piccoli proprietari si avvalgono del lavoro nero di indiani clandestini, gli ultimi e i più poveri tra i poveri immigrati, perché è l’unico modo per salvaguardare l’economicità della loro azienda. Ma è anche un modo per conservare l’esistente aumentando lo sfruttamento degli uomini invece di aumentare il rendimento dei mezzi produttivi. Delle forme di gestione della terra più collettive e meno individuali sarebbero certamente più funzionali, per evitare di ritornare allo schiavismo. Ma come promuoverle senza aspettare che si imponga anche in agricoltura un selvaggio capitalismo? Sempre cercando di guardare al futuro: è vero che lo sviluppo, come amano dire gli industriali, è frenato da una spesa pubblica troppo alta? Non tutti abbiamo la stessa idea di sviluppo dei signori confindustriali, ma c’è del vero in quello in quello che dicono. Come considerare, nell’indirizzo della nostra azione sindacale, i tantissimi uomini e le tantissime menti ancora oggi schiavi fedeli della mistica del posto fisso, del posto statale? Sono tre milioni e mezzo in Italia i dipendenti pubblici e da anni si parla di una loro diminuzione, visto che è dimostrata l’esuberanza degli organici. Certo, a voler coerentemente combattere il parassitismo sociale sarebbe più giusto cominciare da altri, dai più grossi, più in alto, mettendo in discussione l’intero sistema. Se non si fa niente è perché il vertice politico di una costruzione sociale come la nostra non può fare a meno, evidentemente, della calce e del collante di tante persone alle quali è stato concesso il privilegio di un lavoro sicuro, tranquillo, tutelato e comodo: nessuno più di loro è conservatore, in politica; nessuno più di loro è miglior propaganda vivente della falsa bontà di un sistema capace di “sistemare”, appunto, tanta gente. Se per principio un lavoratore dell’industria deve essere solidale con tutti i lavoratori di tutte le categorie, qualche volta si fa però fatica a concepire cause comuni tra chi - in fabbrica - è sovraccaricato di lavoro e deve difendersi dal capo che conta i pezzi e non vuole farlo andare al gabinetto più di due volte al giorno, e quella parte (non tutti) di dipendenti pubblici che si lagnano per dei carichi di lavoro a cui sono sottoposte soltanto, e piuttosto staticamente, le loro scrivanie. Inutile negarlo, anche a costo di polemiche: dal punto di vista dell’operaio vedere così le cose del palazzo è, se non altro, un inevitabile errore di prospettiva. Potremmo e dovremmo continuare con le questioni ambientali: un sindacato serio deve denunciare la pericolosità di un modello economico che sta facendo del nostro territorio pugliese una occulta discarica di veleni prodotti e scartati altrove E deve saper indicare una alternativa concreta al lavoro, alle ricchezze e alle clientele prodotte dal più sporco riciclaggio di sporchi rifiuti. Questo da solo, come argomento, varrebbe una conferenza. Qui abbiamo potuto solo accennare in maniera confusa alle questioni, tutte concatenate tra loro, che ci riguardano come lavoratori, quindi come uomini. Affrontarle è un compito difficile ma ineludibile per una organizzazione che voglia ragionevolmente indicare una via per il miglioramento della condizione dei lavoratori. Quanti infatti dei lavoratori della SKF di Bari, per esempio, hanno un vicino che fa l’agricoltore, una figlia che lavora in un supermercato oppure invidiano segretamente un cugino impiegato alla regione, beatamente privilegiato? Se il compito di un sindacato non è semplicemente quello di rivendicare più soldi, e anche se fosse solo quello: si può farlo seriamente senza tenere presenti queste cose? A volte può bastare dimostrare che i profitti di una azienda sono aumentati, per rivendicare aumenti retributivi. A volte invece bisogna dimostrare che non solo un passo, ma anche la direzione è quella giusta. E per farlo abbiamo bisogno di saperne di più, su tutto.

note

* Esperto problemi della trasformazione del mondo del lavoro.