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IL CAPITALISMO ITALIANO: RIFLESSIONI E CONTRADDIZIONI

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Dario Stefano Dell’Aquila
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per Proteo (11)

Dottorando in Istituzioni, Ambiente e Politiche per lo sviluppo economico, Università di Roma III

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Dario Stefano Dell’Aquila


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Il futuro ha un cuore antico. Gli obiettivi di politica economica del Dpef 2007-11

Dario Stefano Dell’Aquila

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1. Introduzione

Il Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef 2007-11), presentato dal Ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa e approvato, definitivamente, alla fine di luglio, da Camera e Senato, ha un portato simbolico che va oltre i suoi contenuti economici e di programma. Primo atto di indirizzo economico del nuovo governo di centrosinistra, spetta al Dpef dire se, sul terreno dell’economia, ci sarà discontinuità con i cinque anni delle politiche di centrodestra. E, per non costringere chi legge a perder tempo, diciamo subito che, la consistente portata della manovra economica annunciata, 35 milioni di euro (20 di tagli e 15 di nuove entrate), sembra inserirsi lungo un asse strategico già sperimentato. Il documento, sul piano lessicale presenta, certo, parole e concetti che, nel documento precedente, sembravano addirittura scomparsi. Rispetto al precedente, infatti, la parola povertà ricorre 31 volte, il termine equità 19 (una sola volta nel Dpef 2006), la parola sviluppo compare ben 85 volte (31 l’anno precedente), la parola sociale fa capolino 56 volte (contro le 4 del 2006). In più compare, una nuova parola magica, cuneo fiscale, su cui è poi necessario un approfondimento. Ma, se almeno sul piano filologico, il Dpef appare in discontinuità con quello precedente, l’intero assetto strategico della prossima programmazione economica e finanziaria è invece in continuità con la strategia di privatizzazioni e di interventi sulla spesa sociale che ha caratterizzato la politica economica dal 1992 ad oggi. La filosofia di fondo dell’intero documento è molto chiara (meno gli aspetti specifici di programmazione). Bisogna puntare alla crescita, accompagnata da rigore fiscale, perché questa assicura risanamento e ricchezza, e questa, a sua volta, ridistribuita, assicura equità e sviluppo. Il problema che ha caratterizzato l’economia italiana è, secondo gli economisti del centrosinistra, la bassa crescita del Pil, le cui cause (o le cui conseguenze) sono la fragilità del sistema produttivo, composto da imprese di “piccole dimensioni”, e la bassa produttività del lavoro. Ora questa strategia, basata su crescita, risanamento e equità, (che, come ha detto l’ex ministro Giulio Tremonti2, sono per l’economia quello che per la religione rappresentano fede, speranza e carità) ha due strumenti strategici di fondo: privatizzazioni-liberalizzazioni e il contenimento delle componenti della spesa pubblica (sanità, pensioni, scuola, pubblico impiego). Nelle pagine che seguono, avvalendoci degli stessi dati di analisi del Dpef, proveremo a trarre conclusioni diverse. Di come cioè il processo di privatizzazione e di riduzione dello stato sociale non ha conseguito i risultati attesi, ma anzi ha prodotto risultati di senso contrario e che, nonostante l’accenno, le politiche per l’equità proposte del documento sono insufficienti rispetto al quadro tendenziale generale. 2. Le privatizzazioni alla prova dei fatti

“Il Governo rimane impegnato nel proseguimento della politica di privatizzazione che ha caratterizzato le passate legislature”3. Il documento di programmazione non è certo ambiguo su questo punto. Le privatizzazioni hanno avuto effetti positivi per cittadini e imprese4. Come è noto, dal 1992 si è avviato in Italia un inarrestabile processo di privatizzazioni giunto oggi quasi agli sgoccioli. Attraverso il Ministero delle Partecipazioni Statali e l’IRI, l’ENI e l’EFIM5, sino al 1990 lo Stato, come ricorda il Dpef, controllava il 45% del settore industriale e l’80% del sistema bancario. È oggi possibile, ad oltre dieci anni dall’avvio di quel processo, trarre un bilancio oggettivo dai dati disponibili? Secondo noi si, anche dai dati non tutti traggono le stesse conclusioni. Vediamo di sintetizzare gli argomenti più diffusi a sostegno delle privatizzazioni e metterli alla prova dei dati.

a. Le privatizzazioni fanno cassa e consentono di diminuire il debito pubblico Le esigenze di cassa sono state uno degli argomenti principali di sostegno alle privatizzazioni. Di fronte ad un ampio debito pubblico, cedere le aziende pubbliche avrebbe avuto un impatto significativo in termini di riduzione del debito e di crescita del Pil. Se vediamo in dettaglio quanto hanno inciso le cessioni delle partecipazioni in termini percentuali rispetto al Pil, è evidente, che queste, per quanto consistenti in termini di cassa, ben poco hanno inciso complessivamente. Gli effetti attesi in termini di riduzione del debito pubblico non ci sono stati. Se analizziamo il grafico n. notiamo come il rapporto raggiunto oggi tra debito pubblico e Pil sia analogo a quello del 1992. E la riduzione rispetto al picco del 1994 non è dovuta altro che alla riduzione del tasso di interesse sui titoli del debito pubblico. Fin dai primi anni novanta, l’economia italiana ha mostrato una performance deludente. La crescita è rimasta lontana sia dai tassi di sviluppo che avevano contraddistinto i decenni precedenti sia da quelli registrati dagli altri principali paesi industrializzati. L’aumento del PIL, che si attestava in media intorno al 3,6 e al 2,3 per cento rispettivamente negli anni 1971-1980 ed 1981-1990, è sceso all’1,6 per cento del periodo 1991-2000 e, infine, allo 0,6 per cento nell’ultimo quinquennio. Anche la crescita potenziale, che negli anni settanta si manteneva in media intorno al 4 per cento, si è gradualmente ridotta nei decenni successivi, collocandosi all’1,3 per cento nella media dei primi anni 2000. L’abbassamento del tasso di crescita della nostra economia trova le sue principali ragioni nella progressiva decelerazione della dinamica della produttività (oltre che nel rallentamento demografico): dal 2,2 per cento della prima metà degli anni ‘90 all’1 per cento della seconda metà fino ad annullarsi tra il 2001 e il 2005. In un contesto europeo di generale riduzione della produttività, l’Italia si caratterizza per una più accentuata tendenza6.

b. Le privatizzazioni fanno crescere le imprese

Altro argomento in favore delle privatizzazioni, è stato quello della necessità di ridare spazio al mercato e far crescere il sistema delle imprese. Anche ammesso che sia la piccola dimensione delle imprese il problema del sistema produttivo, non si può dire che la rapida dispersione del patrimonio pubblico abbia rilanciato il settore privato. Se da un lato si registra la scomparsa di grandi imprese pubbliche di dimensioni internazionali (come la SME nel caso del settore agroalimentare), dall’altro si deve costatare come il numero medio di addetti per impresa manifatturiera sia di 8,7 operai, contro il 16 della Francia e i 23 della Germania. Va detto, però, che quello della “piccola dimensione” delle imprese italiane è un problema controverso. Sino a pochi anni fa, incoraggiati dai buoni risultati delle esportazioni, si considerava il ridotto dimensionamento uno dei fattori di successo, in grado di consentire flessibilità nell’offerta e adattamento ai mutamenti della domanda del mercato. Oggi, a fronte delle difficoltà dei prodotti italiani sui mercati esteri, si imputano alle dimensioni, i problemi dei costi crescenti e della difficoltà ad investire nel settore della ricerca e dell’innovazione. Sia come sia, non si può dire che al progressivo ritirarsi dell’impresa pubblica abbia contribuito a rinforzare il sistema delle imprese. Anzi, bisogna aggiungere che si registra un rallentamento della produttività del lavoro. Il rallentamento della produttività del lavoro in Italia ha interessato, negli ultimi dieci anni, tutti i settori dell’economia. L’industria (al netto delle costruzioni) che, nella prima metà degli anni novanta, registrava tassi medi di crescita della produttività pari al 3 per cento, ha mostrato una forte decelerazione nella seconda metà del decennio, (1 per cento in media) che si è tradotta in una dinamica negativa negli anni 2000 (-0,4 per cento). Anche il settore terziario privato ha registrato un profilo di progressiva riduzione della produttività: dopo il recupero registrato nella prima metà degli anni novanta, la produttività è cresciuta, in media d’anno, dello 0,4 per cento nell’ultima parte del decennio fino a mostrare nell’ultimo quinquennio un andamento flettente. Ad un’analisi più specifica, nell’industria, i settori tradizionali, che nei decenni passati avevano avuto un ruolo trainante dell’economia italiana, hanno mostrato un’inversione di tendenza nella dinamica della produttività già dalla prima metà degli anni novanta. Nel settore tessile, per esempio, il prodotto per addetto che cresceva del 3,5 per cento in media negli anni novanta è diminuito del 3,3 per cento nei primi anni 2000.7 Non solo la piccola impresa non è cresciuta quindi, né in termini di addetti che di produttività, ma il progressivo ritrarsi del pubblico non ha comportato un miglioramento delle politiche industriali e manifatturiere. Anzi, a differenza dei paesi dell’area euro, il declino industriale è direttamente conseguenza delle politiche delle privatizzazioni, che hanno “spezzato le dimensioni delle imprese pubbliche” e dell’assenza di una qualsivoglia politica industriale, finanche solo di indirizzo, in questo paese8. Il grafico n. 1, è sufficientemente esaustivo e mostra come al rallentamento segue, a partire dal 2000 una rapida fase di declino. Nonostante la debolezza delle argomentazioni e l’evidenza dei fatti, per il Ministero diretto da Tommaso Padoa Schioppa bisogna proseguire sulla strada già tracciata. Essendo, ovviamente, ormai quasi terminato il patrimonio di imprese e beni pubblici, il processo di privatizzazione è residuale e si accompagna ad uno di liberalizzazione. Piatto forte il settore dell’energia, gas, servizi pubblici locali, trasporti, servizi municipali ed alcuni settori professionali. Nel settore dei servizi saranno necessari interventi differenziati al fine di promuovere l’ingresso di nuovi operatori sul mercato (energia), una maggiore trasparenza dei servizi offerti (settori finanziario e delle professioni), un quadro regolamentare più chiaro e coerente, il superamento degli affidamenti diretti (servizi pubblici locali)9 È probabile che terminata la prima fase di interventi sui settori professionali, indubbiamente giusta sul piano etico, ma i cui effetti economici sono un po’ troppo enfatizzati, l’azione si concentrerà sul mercato dell’energia, già liberalizzato, ma che, proprio a causa di una troppo veloce deregolamentazione, è “ingolfato” da centinaia di richieste di costruzione di nuove centrali termoelettriche (il tutto in assenza di un piano energetico nazionale). Da non sottovalutare il tema delle aziende municipalizzate, in particolare di quelle del trasporto pubblico locale e della gestione delle risorse idriche, anche in considerazione delle difficoltà economiche in cui versano gli enti locali che saranno lusingati da rapide prospettive di cassa.

3. La spesa pubblica, tra stato sociale e pensioni Agli interventi, essenziali, per il rilancio della crescita e della produttività, vanno dunque associate misure strutturali dirette a piegare la dinamica della spesa pubblica. Per far ciò è indispensabile non solo operare sul fronte delle entrate, ma anche intervenire sui grandi comparti da cui scaturisce la parte predominante delle spesa pubblica: l’apparato delle amministrazioni pubbliche e conseguentemente il pubblico impiego; il sistema pensionistico, pubblico e complementare; il servizio sanitario nazionale; la finanza degli enti decentrati. Pensare che il riequilibrio dei conti pubblici possa essere compiuto senza intervenire sui comparti essenziali che ne costituiscono l’impianto fondamentale sarebbe del tutto illusorio (corsivo nostro)10 Per quanto riguarda l’apparato delle amministrazioni pubbliche, la strategia è quella dello snellimento e del contenimento della spesa delle pubbliche amministrazioni, con sostanziale contenimento della spesa per il personale, assicurata anche da probabili esodi incentivati e da probabile rallentamento del turn over. Proseguirà l’applicazione del patto di stabilità interno per il controllo della spesa degli enti regionali e locali. Sin qui nulla di nuovo, rispetto alla stretta di questi ultimi anni che riguarda il pubblico impiego. Una strategia, quella della riduzione del debito pubblico, che ha raggiunto l’obiettivo di riportare il rapporto Debito/PIL, dopo tredici anni di rigore, agli stessi livelli del 1992 e solo grazie alla progressiva riduzione del costo del denaro che ha consentito di ridurre l’incidenza degli interessi sul debito pubblico. Meno incisive appaiono le decisioni riguardo la spesa sanitaria (al 6,7 del Pil, lievemente aumentata rispetto al 6,1 del 1992) per le quali il governo intende proseguire nell’attuale finanziamento alle Regioni (responsabili del settore sanità) per cifre inalterate per il triennio successivo. Per quanto riguarda le pensioni, nonostante sia diminuito il tasso medio della spesa pensionistica negli ultimi dieci anni (2,1 tra il 1997 e 2001 e 1,4 sino al 2005) è diminuito, per gli economisti di Padoa Schioppa è ancora necessario intervenire sulle pensioni, poiché la spesa per le pensioni è pari, nel 2005 al 14,2 del Pil, contro un 10,6% della media europea. L’allarme è senza dubbio enfatizzato, poiché non tiene conto del fatto che se la spesa per le pensioni è più alta della media europea, di contro molto più basso è il livello di prestazioni per la spesa sociale. Appare poi alquanto ingiustificato se si considera che i temuti incrementi di spesa, pari solo al 1,2% del Pil si verificheranno nel loro picco massimo nell’intervallo di tempo tra il 2035-40, per poi tornare a valori di spesa percentuali pari a quelli attuali nel 2050. Il grafico n. 3 mostra l’evoluzione della spesa pensionistica in percentuale del Pil nel corso dei prossimi decenni, da cui si evidenzia che la crescita è alquanto contenuta. Il documento contiene solo un breve, ma poco equivocabile, accenno alla necessità di aumento dell’età pensionabile11. Più netto, invece, il passaggio sulla previdenza complementare. Poiché, come è noto, le pensioni del futuro, difficilmente raggiungeranno il 40% dell’ultima retribuzione, quello della previdenza complementare è per il governo un settore da rilanciare. Se qualcuno si chiede dove una famiglia, che vede fermi dal 1993 i propri salari reali, possa prendere le risorse da investire nella previdenza privata, la risposta è presto data: “..dal conseguente conferimento del TFR alle forme pensionistiche del secondo pilastro”12.

4. L’equità e le sue politiche. Precarietà, disoccupazione e i miracoli del cuneo Il documento di programmazione prevede la promozione delle forme di lavoro a tempo indeterminato e la riduzione dell’area della precarietà. Questi obiettivi, però, più che condivisibili, sono raggiunti, con due misure specifiche: a) aumentando le quote previdenziali per le figure dei lavoratori a contratto a progetto e parasubordinati b) abrogando alcune figure professionali previste dalla legge Biagi, come il lavoro a chiamata e lo staff leasing, che sono due tipologie contrattuali raramente applicate e sostanzialmente ininfluenti sull’area delle precarietà. Lo strumento magico, poi, che in questo documento di programmazione ricorre più volte, è la riduzione del cuneo fiscale, definito come la “differenza tra il costo del lavoro sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta ricevuta dal lavoratore, che in Italia risulta più alto che nella media dei paesi sviluppati, anche se in linea con Francia e Germania13”. Ora è difficile dire chi pagherà il costo di questa riduzione, considerato che la differenza tra il salario versato dal datore di lavoro e quella in busta paga è dato da contributi pensionistici e assicurativi e quote di TFR accantonato. Il documento su questo non si sbilancia, pur spiegando diffusamente i benefici che deriverebbero da questa riduzione del cuneo. Della riduzione del cuneo dovranno beneficiare sia la quota a carico del datore di lavoro sia quella a carico del lavoratore, con il fine di migliorare la capacità di competere delle imprese italiane - attraverso una riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto - e al contempo di assicurare ai lavoratori un recupero in termini di reddito disponibile. L’intervento sul cuneo non intaccherà le aliquote contributive destinate all’assicurazione generale per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, ovvero ad alimentare le pensioni. Per favorire l’inserimento stabile dei giovani nel mondo del lavoro, nella definizione del provvedimento dovrà essere scelto un criterio di selettività che premi le imprese che stabilizzino i rapporti di lavoro14 La riduzione del cuneo avrà, secondo il Dpef, questi risultati: a) fornisce una prima spinta alla competitività dell’economia italiana b) sarà destinata al lavoro subordinato a tempo indeterminato, al fine di favorire l’occupazione in forme di lavoro standard c) sarà finanziata in modo tale da non attingere ai contributi previdenziali. d) il costo del lavoro, in conseguenza, cuneo contributivo, risulterà in forte decelerazione rispetto allo scenario a legislazione vigente e) favorisce in particolare l’occupazione femminile e giovanile. Sul piano delle politiche per l’equità, c’è una certa attenzione, è giusto dirlo, al problema della povertà. Il documento suggerisce interventi a sostegno dei redditi bassi attraverso un’imposta negativa e la reintroduzione del Reddito Minimo di Inserimento. Vi è anche un rapido accenno alla possibilità di interventi per l’edilizia pubblica, anche se nella ambigua formula del project financing15. Ma sono misure residuali, importanti, ma che potranno incidere su situazioni di estrema indigenza e povertà, ma non in grado di contrastare i processi di impoverimento e di ampliamento delle disuguaglianze. Grandi assenti di questo documento sono i termini salari e inflazione, nonché delle cause che hanno determinato in questi dieci anni, un rapido accentuarsi di stati di povertà. L’evoluzione della disuguaglianza è evidente nel grafico n. che mostra l’evoluzione dell’indice di Gini16, mentre dal grafico n. si evidenzia la progressiva riduzione dei salari, tanto del settore dell’economia nel suo complesso che in quello della pubblica amministrazione. 5. Draghi e colombe, ovvero del liberalismo ben temperato Se volessimo fare sintesi dei dati a nostra disposizione potremmo dire senza timore di smentita che gli ultimi dieci anni hanno segnato una profonda accelerazione dei processi di disuguaglianza. Blocco dei salari, aumento delle tariffe, dei prezzi dei beni di largo consumo, dei costi delle abitazioni, iniquità delle politiche fiscali (che penalizzano i redditi da lavoro dipendente) con aumento della tassazione indiretta rispetto a quella diretta, sono ormai una realtà che dal 1993 ad oggi ha prodotto un forte impoverimento nel presente che si trasformerà in rigida povertà nel prossimo futuro. La spesa sociale (sanità, previdenza e assistenza, sociale) ha subito un incremento di soli 2 punti, passando dal 22% al 23,7% del 2005. Sono lievemente aumentate la parte della spesa destinata alla funzione salute (il 27,1% della quota destinata alla spesa sociale contro il 23,3% del 1995) e la quota per il sostegno alla famiglia (dal 3,9% al 2,9%), si è ridotta la parte assorbita dalla previdenza che oggi rappresenta il 66,6% della spesa sociale, era il 71,5% nel 1995. La pressione fiscale tributaria è aumentata dello 0,5%, dal 1992 al 2005, ma è radicalmente cambiato il rapporto tra tassazione diretta e indiretta. Nel 1992 la pressione diretta (quella che si paga proporzionalmente al reddito) era del 14,3%, nel 2005 questo dato è pari al 13,3%. Viceversa, la pressione indiretta che nel 1992 era pari all’11%, nel 2005 ha raggiunto il 14,2%. In questo quadro, guardando oltre i contenuti della prossima manovra finanziaria, la politica economica del secondo governo Prodi, dimostra, seppure con mano più sapiente e con maggiori competenze rispetto al governo di centrodestra, di percorre rotte già note. Èevidente che la scelta è quella di orientare lievemente le forze di mercato, senza incidere sui rapporti di forza attualmente in essere. Si dice che la spesa sociale va incrementata con la ricchezza futura, che deriverà dal recupero della fiscalità inevasa, dalla riduzione del cuneo fiscale, dalla ripresa delle esportazioni, dall’aumento del Pil, ma ad oggi quello che è sul campo è immodificabile. Certo non sfugge il preciso richiamo che nel documento si fa a misure di equità come l’introduzione del Reddito Minimo di Inserimento (RMI), ma il documento separa le politiche per l’equità da quelle economiche, come se le une fossero indipendenti dalle altre, come se la riduzione del potere d’acquisto, le differenze tra i redditi medio bassi e quelli altri, fossero indipendenti dalle politiche economiche. Da qui l’occhio benevolo alla povertà, non rende lo sguardo meno fiducioso verso l’automatico organizzarsi delle forze di mercato che, raggiungendo il proprio equilibrio, determineranno crescita e benessere. Una visione, che potremmo definire di liberalismo moderato, lontana anche dalle visioni socialdemocratiche di sviluppo e stato sociale. L’assunto che la crescita determina l’equità e che non è possibile l’inverso non tiene conto della diffusa letteratura nazionale e internazionale né delle più recenti tendenze delle politiche economiche suggerite anche da organizzazioni internazionali come l’UNDP. L’equilibrio politico dietro questo Dpef è evidente, così come è evidente che la stesura del documento tiene conto della presenza di forze politiche nella coalizione governativa poco disponibili (se non assolutamente contrarie) ad accettare modelli di liberalismo assoluto. Ma se la stesura delle “colombe” può smussare alcuni angoli, basta leggere l’ultima relazione del neo-governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, per rendersi conto di nella sua relazione finale siano definiti gli stessi obiettivi del documento di programmazione in maniera più netta e decisa. Citiamo tre punti salienti della relazione17 che riguardano spesa pubblica, pensioni e privatizzazioni delle reti locali. «È necessario frenare la spesa primaria corrente, che nell’ultimo decennio è cresciuta in termini reali del 2,5 per cento l’anno. Vi sono accanto alla compressione delle spese di funzionamento dell’Amministrazione, due priorità ineludibili: affrontare il nodo dell’età media effettiva di pensionamento; responsabilizzare pienamente Regioni ed Enti locali nel controllo della spesa. In prospettiva, insieme con lo sviluppo della previdenza complementare, solo un innalzamento significativo dell’età media di pensionamento può conciliare l’erogazione di pensioni di importo adeguato con la sostenibilità finanziaria del sistema contribuivo. L’allungamento della vita lavorativa aiuterà anche ad aumentare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro. La gestione delle reti, l’ampliamento del novero dei fornitori sono problemi ancora largamente irrisolti. Nei servizi pubblici locali la stessa privatizzazione ha fatto pochi passi avanti: la liberalizzazione manca quasi del tutto, tanto che la gestione può essere affidata senza gara a società pubbliche o miste. Le Amministrazioni locali detengono ancora il controllo di molte imprese operanti nella fornitura di servizi pubblici. In taluni casi ambiscono ad ampliare la gamma dei servizi offerti, innescando fenomeni di ripubblicizzazione». Come si vede, dalla Banca d’Italia, meno preoccupati di equilibri di coalizione o forse solo meno sensibili alle problematiche che derivano dai processi di impoverimento, la ricetta è sempre la stessa, tagli e privatizzazioni, con una spruzzata di concorrenza. Purtroppo non sembra molto differente quella di Padoa Schioppa, che ha gli stessi ingredienti, ma che forse cambia i tempi di cottura.

note

* Dottore di ricerca in Istituzioni, ambiente e politiche per lo sviluppo economico. Osservatorio Meridionale Cestes- Proteo.

1 Si ringraziano, per la disponibilità e la collaborazione, la dott. ssa Imma Carpiniello e la dott.ssa Eleonora Dell’Aquila per i riferimenti bibliografici.

2 Intervista al quotidiano la Repubblica, luglio 2006, in www.larepubblica.it

3 Dpef, pag. 145.

4 “L’ingresso di nuovi operatori, le privatizzazioni, gli interventi di separazione delle filiere dei servizi a rete, la regolazione economica assistita da solidi presidi tecnici, hanno agito sia da propulsore tecnico, sia come fattore di riequilibrio e di trasparenza dei prezzi” (Dpef pag. 92) .

5 Su questo si veda la recente pubblicazione di L. Vasapollo - D. Antoniello, Eppure il vento soffia ancora, Jaca Book, Milano, 2006.

6 Dpef, pag. 33.

7 Ibidem, pag. 35.

8 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2002.

9 Dpef, pag. 95.

10 Certo, sostengono gli estensori del documento, sarebbe un grave errore “ pensare - o far credere - che intervenire sull’impianto delle funzioni essenziali del sistema pubblico significhi impoverirne la funzione di solidarietà, di promozione della crescita, di fornitura ai cittadini di beni pubblici essenziali quali la giustizia, la sicurezza e l’istruzione”. (ibidem, pag. 116)

11 “L’unico modo di raggiungere la condizione di equilibrio senza ridurre le prestazioni, è l’allargamento della popolazione attiva, anche attraverso l’emersione contributiva e l’aumento dei tassi di occupazione in particolare tra le donne e le fasce più anziane, che tenga conto del fatto che il miglioramento della salute umana e l’allungamento della vita media permettono di restare attivi ben oltre l’età attuale dell’andata in pensione” (ibidem, pag. 122).

12 Ibidem, pag. 124.

13 Ibidem, pag. 111.

14 Ivi.

15 La formula per cui un investimento pubblico viene fatto in compartecipazione con un privato che, in cambio, si assicura la gestione del bene per un consistente numero di anni (tra i venti e i cinquanta) per rientrare dalle spese.

16 Una riduzione dell’indice significa una riduzione delle disuguaglianza dei redditi. Se è pari a 1 la disuguaglianza è massima, se è pari a 0 non esiste disuguaglianza.

17 Considerazioni finali del Governatore della Banca di’Italia, Relazione del Governatore prof. Mario Draghi, pronunciata nell’assemblea del 31/05/2006 disponibile in www.bancaditalia.it

18 Il contributo degli investimenti sarebbe pari a 0,5 % quello dei consumi a 0,8 %. Le esportazioni nette darebbero un apporto nullo.