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Economia di guerra e il complesso industriale bellico: militarismo transnazionale

ESTEBAN MORALES DOMINGUEZ

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1. Alcuni precedenti

La costruzione di un apparato militare e il sorgere di un vincolo crescente tra quest’ultimo, la politica del governo e l’economia risponde, all’interno del capitalismo, alla necessità sempre più urgente di dare una risposta al processo di acutizzazione delle contraddizioni di questo regime di sfruttamento, e al medesimo tempo serve a sostenere l’ordine imperialista nonché a fornire uno strumento regolatore del ciclo di riproduzione. Tale processo, che non si origina all’interno del capitalismo, ha generato all’interno di esso una continua crescita delle forze armate e un vincolo stretto tra queste e l’economia, dando luogo già a partire dallo sviluppo dei monopoli, all’affermazione di una industria bellica che, in modo profondamente contraddittorio, soddisfa le esigenze del continuo incremento di profitto e della concentrazione di potere economico e politico all’interno della società capitalista attuale. Nel contesto poc’anzi indicato, la crescita dell’apparato militare, insieme allo sviluppo delle sue basi materiali di sostegno, l’industria bellica, non rappresenta più solamente una crescita del carattere aggressivo-repressivo del capitalismo in generale e dello Stato borghese in particolare, per trasformarsi lentamente in una necessità per il funzionamento del regime capitalista di produzione in sé, in una necessità della riproduzione capitalista nei centri di capitalismo avanzato, con conseguenze nel resto del sistema capitalista mondiale. Il Presidente degli Stati Uniti D. Eisenhower, nel suo discorso di commiato alla nazione, mise in guardia riguardo la formazione di tale struttura, che in quel momento andava consolidandosi, richiamando l’attenzione sul pericolo che essa poteva rappresentare per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti1. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, il militarismo raggiunse il suo apice, favorito per gran parte dalle condizioni che, alla fine del conflitto, servirono come premesse oggettive per la politica di guerra fredda: la leadership assoluta degli Stati Uniti, la debolezza relativa del campo socialista nel processo di formazione e la conferma che le intenzioni delle potenze imperialiste avevano dimostrato nei confronti della possibilità che l’asse fascista, con la Germania di Hitler in prima fila, avesse potuto liquidare l’esperienza socialista in URSS, non furono soddisfatte, e pertanto, nonostante l’alleanza messa in piedi per sconfiggere il fascismo, la guerra, dal punto di vista imperialista, non raggiunse uno dei suoi obiettivi fondamentali2. “Le spese militari della nazione si erano sestuplicati tra il 1940 e il 1941, e il 1940 e il 1945, nei quali lo stato americano spese non meno di 185 milioni di dollari in carri armati, aerei, navi e ogni altro materiale bellico. Ciò diede un notevole impulso alla... economia del paese. La partecipazione delle spese militari nel Prodotto Interno Lordo nordamericano - che era cresciuto tra il 1939 e il 1944-45 da circa 90.000 milioni a 200.000 milioni - subì un notevole incremento, passando da un insignificante 1,5% nel 1939 a quasi il 40% nel 1944-1945”3. In tale contesto, le relazioni tra i gruppi monopolisti produttori di armamenti e la burocrazia politico-militare, che esiste da molto tempo, subirono un’impennata senza precedenti, anche grazie al clima di Guerra Fredda che emerse con la fine della Seconda Guerra Mondiale4. Emerse così quello che viene comunemente definito “Keynesismo Militare”, “Economia di Guerra” o “Economia del Pentagono”. Durante le due Guerre Mondiali si era andato definendo il sistema di vincoli e legàmi tra i monopoli e la burocrazia politico-militare, strettamente connesso con l’organizzazione e il funzionamento di un apparato industrial-militare, che rappresentava un assunto di prim’ordine per agire in circostanze di guerra, ma i cui vincoli raggiunti, al medesimo tempo, e contrariamente ad altre fasi anteriori del capitalismo, smisero di avere carattere congiunturale e imposto da crisi politico-militari momentanee, e si convertirono in un fenomeno che in misura sempre maggiore cominciava a formare parte integrante del meccanismo generale di funzionamento della riproduzione capitalista. In altre parole, la produzione di armi e bellica in generale, iniziava a far parte del meccanismo di riproduzione del capitale in maniera strutturale. Essa veniva fortemente stimolata dal vantaggio rappresentato, per i gruppi industriali militari, di poter produrre a carico del bilancio dello Stato. Nel caso specifico degli Stati Uniti, una volta superata la fase bellica, rimaneva una infrastruttura industriale sufficientemente solida per servire da strumento di difesa, o da strumento per “mantenere la pace” o, come successe nel Secondo dopoguerra, da strumento di sostegno dell’egemonia raggiunta dagli Stati Uniti. Questa egemonia si rafforzò quando, quasi verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’allora presidente Harry Truman decise di lanciare ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, dietro il pretesto di concludere rapidamente la guerra con il Giappone, quando in realtà lo fece per mandare un messaggio di ricatto nucleare prima di tutti all’URSS. Opinione quest’ultima condivisa da un numero sempre maggiore di specialisti. A loro volta, nell’epoca della Guerra Fredda, le azioni dirette, da parte di tutte le potenze imperialiste, a rinforzare la capacità militare nordamericana (già allora nucleare), erano armonizzate e spinte dalla ricerca di una superiorità strategica nei confronti dell’URSS, il che divenne oltretutto un tema centrale del discorso politico imperialista5. A partire da allora l’Unione Sovietica emerse come il principale tema sul quale si articolava la politica militare, e in particolare nucleare, degli Stati Uniti: il “nemico necessario”. Ciò che possiamo ritenere certo è che, a prescindere dagli effetti che la spesa militare potesse avere sull’economia, e pertanto sulla crescita del cosiddetto bilancio di difesa, questi si trovano strettamente vincolati al benessere economico di un gruppo di importanti corporazioni monopoliste e al potere di una estesa burocrazia politico-militare e ai suoi gruppi collaterali6. Il processo appena descritto è stato a grandi linee comune a tutte le potenze imperialiste e su di esso si è cementata l’esistenza del cosiddetto Complesso Militar-Industriale, come parte integrante e inseparabile del sistema di relazioni politico-economiche del capitalismo Monopolista dello Stato. Fenomeno che non rimane circoscritto all’ambito nazionale. La fusione e i legami tra i monopoli bancari e industriali finiscono con il ricrearsi anche tra questi e lo Stato. Tale legame tra lo Stato e il monopolio finisce con il generare a sua volta il fenomeno del “legame particolare” tra lo Stato e i monopoli produttori di armi, che si sviluppa a partire dall’impulso dato dallo stesso Stato assieme a quei monopoli che in generale producono per conto del cosiddetto bilancio di difesa, o beneficiano indirettamente dello stesso. Tale comunione d’interessi si rafforza a garanzia dell’ottenimento del massimo profitto, in una struttura di potere ramificato, che arriva perfino a generare il suo stesso apparto ideologico. Al suo interno, il fenomeno della competizione acquisisce risvolti completamente nuovi7. L’imperialismo genera il militarismo, e quest’ultimo, sotto le condizioni del Capitalismo Monopolista di Stato, consolida inevitabilmente l’ascesa di un gruppo di monopoli statali-militari, così come un’ampia rete di vincoli e relazioni tra la burocrazia politico-militare e l’industria monopolista che rifornisce l’apparato militare, il quale, facilitando e intensificando il processo di militarizzazione e di militarismo, produce la tendenza ad una spirale bellica, che costituisce uno dei tratti più dinamici e contraddittori del capitalismo attuale8. Contraddizioni che vanno da un processo di tergiversazione del “valore d’uso” (dando a tale consumo un carattere distruttivo) fino alla realizzazione di un processo ciclico di riproduzione che minaccia in maniera sempre maggiore di distruggere chi lo ha realizzato. Il punto è che gli armamenti sono privi di qualsiasi valore d’uso per il processo di riproduzione9. Ma questa dinamica non si può imporre sempre, dal momento che è illogico pensare che i gruppi industriali militari rappresentino gli interessi di tutto il capitale monopolista, e che questi gruppi possano arrivare a costituire qualcosa di simile a un supermonopolio che controlli tutto l’ordine economico e politico. Di fatto ci sono gruppi industrial-militari che godono perfino di incarichi di appalto o subappalto del governo, ma la cui attività fondamentale è molto spesso produrre merci di scambio, attività per la quale hanno bisogno di un ambiente di relativa pace, anche per attrarre le attività di investimento. Oltre al fatto che esiste tutto un settore non-monopolista, la cui attività è profondamente legata all’economia interna e non alla produzione militare. In base a quanto detto finora, non è logico pensare che gli interessi del settore industrial-militare, per quanto essi si rafforzino, possano dominare su tutti gli interessi dell’economia capitalista. All’interno di questa cornice quindi si producono contraddizioni all’interno dell’oligarchia finanziaria, dal momento che non tutti i suoi esponenti possono soddisfare i loro interessi di fronte alla prospettiva di bilanci militari che continuano a crescere.

2. La spesa militare degli Stati Uniti

A partire dalla fine degli anni 40 si manifestò una tendenza marcata all’incremento della spesa militare degli Stati Uniti. Ciò iniziò in maniera più nitida con l’Amministrazione Carter, anche se la tendenza è in ultima istanza il frutto del fatto che la produzione bellica continuò a crescere a partire dal cosiddetto periodo della Guerra Fredda, che ebbe inizio con la fine della Seconda Guerra Mondiale10. La tendenza all’aumento della spesa militare si acutizzò a partire dagli anni 80, specialmente con l’Amministrazione Reagan (1981-1988). Durante l’Amministrazione di G. Bush padre (1988-1992) e di William Clinton (1992-2000), la tendenza all’incremento della spesa militare non si invertì completamente, e con l’arrivo di George Bush figlio ha recuperato rapidamente i livelli passati. Quindi, le spese militari si mantennero alte e con l’ascesa dell’attuale Amministrazione (G. Bush figlio) a partire dal 2001, a seguito degli attentati alle Torri Gemelle del WTC, si acutizzò ancor più la tendenza alla crescita come risultato della cosiddetta “Strategia di Lotta contro il Terrorismo” e della cosiddetta “Guerra Preventiva”, da cui scaturirono le invasioni congiunte dell’Afghanistan e dell’Iraq. All’interno di quest’ultima Amministrazione ha cominciato a manifestarsi la tendenza ad escludere dai bilanci il denaro richiesto per la guerra in corso, oltre alla pratica aggiuntiva di imporre procedure di approvazione rapida delle voci di spesa richieste al Congresso per la cosiddetta Guerra al Terrorismo. Nella tabella n. 1 allegata si può osservare chiaramente, per quanto riguarda il periodo 2005-2011, la tendenza crescente delle spese militari del governo. Spese che, escludendo le spese aggiuntive per le guerre in Afghanistan e Iraq, crescono dai 400.000 milioni di dollari annuali nel 2005 fino ai 502.000 milioni di dollari per l’anno fiscale 2011. Pratiche che hanno determinato la sparizione definitiva del surplus di bilancio federale lasciato da Clinton e aumentato il già astronomico incremento del deficit di bilancio. Nella tabella n. 2 allegata si può osservare la continua crescita della spesa per tutti i dipartimenti armati della Segreteria della Difesa. Questo processo di militarizzazione dell’economia e anche della politica svolge diverse funzioni fondamentali all’interno del capitalismo attuale, ovvero:
  contribuire all’incremento del profitto dei monopoli in generale e di un gruppo speciale di monopoli industriali-militari in particolare.
  Servire da potente lobby monopolista-statale nel processo di riproduzione sociale.
  Servire da strumento di egemonia economica e politica a livello mondiale. Non è un segreto che l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti non ha altro obiettivo se non il controllo del petrolio del Medio Oriente. Questo fenomeno della militarizzazione trova oggi la sua massima espressione nell’economia nordamericana11. L’economia militare degli Stati Uniti è evidentemente superiore rispetto alle altre potenze che integrano il sistema. Ciò è dovuto all’egemonia assoluta raggiunta sul piano militare dagli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale, posizione di dominio che da allora non hanno più perso, dal momento che, avvalendosi di essa, gli Stati Uniti utilizzano la loro macchina da guerra come un’arma diretta della sua politica egemonica globale, obbligando le altre potenze imperialiste a dividere i costi di sicurezza del sistema, al punto che tale situazione ha prodotto uno sviluppo senza precedenti del dominio industrial-militare e del militarismo all’interno del sistema capitalista in generale. La Guerra Fredda, oggi sostituita e rafforzata da una politica di spesa militare crescente legata alla cosiddetta guerra al terrorismo, influisce in maniera enorme nell’indirizzare l’attività di molte compagnie verso la produzione militare, ed ha un impatto notevole su molti istituti accademici e di ricerca, in tutti i campi della scienza e dell’intellettualità che cercano soluzioni alle loro crisi finanziarie lavorando nell’ambito del cosiddetto bilancio della difesa. In tal maniera, soprattutto a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, sorse un nuovo modello di impresa industriale e di servizi tecnici che, mantenendosi come proprietà privata, mista o statale, si assicura garanzie di vita con alti profitti come risultato del potente appoggio che riceve dallo Stato. Queste imprese sono nella condizione di poter lavorare per una domanda stabile, la quale permette loro di pianificare l’offerta, i prezzi di vendita e realizzare ricerche senza grosse preoccupazioni in termini di costi e di rendita12. All’ interno di tale fenomeno si è andata altresì formando un’ampia rete di subappaltatori, dato che l’influenza che esercita la garanzia di lavorare per produzioni militari non condiziona solamente chi produce armamenti o chi riceve in forma diretta i sussidi statali, ma anche un’ampia rete di subappaltatori che finiscono con il lavorare per soddisfare la domanda statale generata dal bilancio militare. In modo che, come parte della base industriale e dei servizi dell’economia, ci troviamo di fronte i seguenti tipi d’impresa:
  gruppi industriali che producono armamenti o componenti e parti degli stessi;
  gruppi che producono merci di scambio di possibile utilizzo diretto nella vita civile, ma che sono destinate al consumo militare. Questo determina che le produzioni a ciò destinate si differenziano da quelle destinate ai supermercati solo per ciò che riguarda la forma dell’imballaggio, la conservazione e i canali di circolazione;
  gruppi industriali che producono prodotti di scambio a doppio uso, civile e militare. All’interno di questo apparato militar-industriale esistono due tipi di corporazioni che svolgono un ruolo fondamentale: l’industria Elettronica e la Petrolifera. Essendo la prima la punta di lancia dell’attuale rivoluzione tecnico-scientifica e responsabile diretta del livello di sofisticazione oggi acquisito dal sistema degli armamenti, e la seconda ancora vitale per i processi di trasporto, e svolgendo entrambe un ruolo fondamentale all’interno della cosiddetta sicurezza nazionale. Tutto questo apparato industrial-militare e di servizi è al suo interno interconnesso, se visto nel contesto generale dell’economia e la base fondamentale di questa interrelazione è il fatto di lavorare per il cosiddetto Bilancio di difesa. Il quale inoltre genera alcune relazioni molto complesse tra la tecnologia militare e civile, che a volte svaniscono, sia sul piano della produzione che in quello della commercializzazione, rendendo estremamente complesso il fenomeno della proliferazione degli armamenti. Lentamente ma inesorabilmente, l’industria dell’alta tecnologia immette prodotti sul mercato, che possono essere acquistati liberamente per servire obiettivi di tipo militare. Il che alimenta il fenomeno del terrorismo, il paramilitarismo e fornisce la delinquenza internazionale dei mezzi d’azione più sofisticati. Non è difficile intuire che siamo in presenza di quella che potremmo chiamare una “regione speciale” all’interno dell’economia nazionale. Non separata da quest’ultima, ma comunque delimitata dalle condizioni che sono il portato della sua connessione diretta o indiretta, ma sempre privilegiata, con il bilancio dello Stato. Vediamo alcuni dei fattori che distinguono dal resto dell’economia nazionale questa economia che si costituisce di fatto in un sottoinsieme di rapporti biunivoci privilegiati all’interno dell’insieme dell’economia nazionale: 1. Il suo carattere ciclico non scompare: però, a differenza del resto dell’economia, il ciclo dell’economia militare si svolge sotto la protezione del Sistema di Commesse del bilancio di difesa, con tutto ciò che questo implica per l’assorbimento della miglior tecnologia, la manodopera più qualificata e le migliori e più vantaggiose condizioni produttive e di contrattazione in generale; 2. la competizione si limita in pratica al periodo di assegnazione dei contratti del bilancio. Una volta ricevuto il contratto, il gruppo gode di tutti i vantaggi che ciò comporta. È limitato l’ambito della competizione, la quale tuttavia risulta particolarmente feroce; 3. la produzione militare gode di vantaggi speciali per assorbire la miglior tecnologia e le migliori materie prime per la produzione, così come la manodopera maggiormente qualificata. Si tratta di un’industria che produce con grande intensità tecnologica e di capitale, dove gli aumenti di costo possono essere trasferiti al cliente (lo Stato). Tutto ciò si basa su un alto grado di monopolizzazione e sul ruolo che lo Stato esercita in tale ambito. Di conseguenza gli incrementi di costo finiscono con il trasferirsi ad altri settori dell’economia nazionale. Il suo livello di socializzazione contiene forti elementi di previsione, pianificazione e pronosticazione; 4. la domanda statale e i contratti di vendita a governi stranieri operano dentro l’universo dei contratti d’acquisto e accordi militari, attuati, questi ultimi, con meccanismi di protezione della vendita di armamenti ed altri equipaggiamenti, così come nello scambio di brevetti e tecnologia; 5. Lavorando nell’ambito di un’offerta preventivamente nota, con prezzi prestabiliti, gli alti margini di profitto sono garantiti, senza troppe preoccupazioni per i costi. In generale e in non poche occasioni, i prezzi di vendita possono essere gonfiati, così come i costi e i margini di profitto. Dando luogo all’esistenza di forti elementi di corruzione; 6. Una torbida rete di vincoli personali e corporativi garantisce pratiche di favoritismo nei confronti di una “tecnoburocrazia” statale e un corrispondente scambio di commesse e favoritismi con la burocrazia militare a tutti i livelli13; 7. le vendite all’estero da parte di questa economia militare sono in generale garantite dalla diplomazia governativa14; 8. visto il peso che riveste la proprietà statale all’interno dell’economia militare, la parte dell’economia politica che la regola ha su di essa un impatto più diretto, producendo un alto livello di pianificazione e di utilizzo previsto del denaro statale; 9. a differenza delle altre voci di bilancio, la distribuzione del denaro federale per spese militari adotta il carattere di un bilancio a se stante, generando attorno a sé un sottosistema di rapporti e traffico di influenze, delle quali si beneficia un ingombrante gruppo di burocrati legati all’attività militare e di sicurezza nazionale, in tutti i Dipartimenti e le Agenzie del Governo; 10. I temi relativi alla sicurezza nazionale e nell’ambito di essa alla difesa, concedono alla cosiddetta economia militare un grado di priorità di cui non gode nessun altro tema nell’ambito della politica interna o estera; 11. l’economia militare diventa un fattore di perenne contraddizione con quella parte del bilancio che può essere destinata a incrementare la spesa sociale per ciò che concerne la sanità, l’istruzione, gli alimenti a basso costo, lo stato sociale, ecc. Per tale motivo, all’interno della dinamica del bilancio federale, la parte dedicata al cosiddetto bilancio di difesa, appare sempre in una relazione di opposizione con la cosiddetta “Economia del welfare”. Con lo sviluppo dell’economia militare, si produce una tendenza permanente a lavorare per un bilancio militare crescente, e, assieme ad esso, per una ineludibile dipendenza del ciclo economico generale, e dell’economia nordamericana, dalla produzione bellica, e per la guerra in generale. Di modo che il funzionamento dell’economia non può essere concepito al margine della produzione per scopi militari. Pertanto, la cosiddetta produzione per la difesa diventa una necessità nella dinamica del ciclo di riproduzione di tutta l’economia. Dinamica che dimostra come nessuna produzione come la cosiddetta ‘per la difesa’ soddisfi così pienamente l’obiettivo della produzione capitalista: il continuo incremento del profitto. Pertanto, come prima approssimazione a una definizione del complesso Militare-industriale possiamo dire che quest’ultimo è derivato dalle conseguenze della politica di Guerra Fredda posteriore alla Seconda Guerra Mondiale, con l’accrescimento e l’accelerazione del processo di formazione di un’alleanza profonda tra i monopoli industriali-militari, i circoli bellicisti e l’apparato burocratico governativo, vincolato alla sicurezza nazionale, generando così una fusione e assemblaggio di forze conosciuto come il Complesso Militar-Industriale15. Ciò che fa dei gruppi industriali-militari parte integrante del complesso militar-industriale, non è il suo livello di attività, e neppure il produrre armamenti, ma proprio il sostenere un sottoinsieme speciale di relazioni e vincoli con l’apparato statale, soprattutto con il bilancio federale, e in particolare con le istituzioni e le personalità del governo che si muovono nell’ambito dei problemi militari e presunti ‘di sicurezza nazionale’16. Per tale ragione di fatto le corporazioni industriali-militari, il cosiddetto Bilancio di Difesa e il Consiglio di Sicurezza Nazionale sono diventati la pietra angolare del potere politico interno degli Stati Uniti. Questo è un tratto distintivo dell’imperialismo contemporaneo e dell’imperialismo nordamericano in particolare, dove questa triade assume una forza quasi incontrollabile. Già V.I. Lenin aveva scritto che gli interessi dell’Oligarchia Finanziaria (Vertice della Borghesia Monopolista), sono opposti a quelli di tutta la società. Tuttavia questa Triade di Potere va oltre questa definizione, dal momento che si tratta di un settore all’interno della stessa Oligarchia, che è capace di mettere in campo un potere che qualitativamente è determinato da un processo di monopolizzazione del potere politico ed economico, del quale finora non aveva usufruito nessun settore o classe sociale, e che è un fenomeno generato proprio dallo sviluppo dello stesso imperialismo. Pertanto non è casuale che quando molti si riferiscono a questo argomento, lo vedano come un fenomeno simile a quello che si verificò nella Germania nazista durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale17. I principali settori o istituzioni del mondo politico che negli Stati Uniti in particolare sostengono quello che abbiamo definito un sottosistema di relazioni del Complesso Militar-Industriale sono i seguenti: 1. multinazionali produttrici di armamenti o componenti militari e le istituzioni finanziarie, bancarie e non bancarie ad esse associate; 2. i principali subappaltatori delle multinazionali; 3. organismi governativi come: il Consiglio di Sicurezza Nazionale, il Pentagono, la NASA, l’FBI, la CIA, il Dipartimento di Sicurezza Interna, la Commissione Regolatrice Nucleare e altre agenzie governative o non, vincolate alle questioni relative alla sicurezza nazionale; 4. Membri del Congresso vincolati a monopoli bellici o la cui base elettorale è ubicata in Stati dell’Unione con forte influenza nell’industria militare; 5. Commissioni del Congresso, tanto alla Camera come al Senato, che decidono di questioni militari e di sicurezza nazionale; 6. istituzioni accademiche, Think thanks e Università che lavorano per la difesa; 7. settori della stampa, riviste specializzate e altri gruppi legati all’attività militare; 8. lobbies e Comitati d’Azione Politica delle multinazionali industriali militari. 3. Complesso militar-industriale e consiglio di sicurezza nazionale Tra tutte le strutture politiche sulle quali si appoggia l’esistenza del Complesso Militar-Industriale, il cosiddetto NSC (National Security Council) o Consiglio di Sicurezza Nazionale, è quello che oggi accumula maggiore potere. Il Consiglio di Sicurezza Nazionale nacque nel 1947 come un meccanismo di coordinamento, per garantire che arrivassero al presidente le opinioni dei principali membri della sua equipe di sicurezza nazionale. In principio, in realtà, il CSN aveva scarsa influenza, tuttavia quest’ultima crebbe nei primi 20 anni della sua esistenza, arrivando negli anni 70 a trasformare il CSN in un centro di potere straordinario, sotto la direzione dei consiglieri di sicurezza nazionale che lo convertirono in una istituzione moderna: Henry Kissinger, Zbigniew Brzezinski e Brent Scowcroft. Questa struttura è diventata così potente che è arrivata a offuscare l’influenza dei dipartimenti di Stato e di Difesa. All’interno del gabinetto esecutivo del presidente, attualmente, il Consiglio di Sicurezza Nazionale agisce con una libertà straordinaria, confrontata a quella di quasi tutti gli altri organismi. Né il Consiglio di Sicurezza Nazionale, né gli altri membri del suo gruppo si sottomettono alla ratifica del senato. Come entità il CSN non è soggetto al controllo del Congresso, nonostante molte delle sue competenze attuali invadano molti campi riservati in passato al Dipartimento di Stato. Divenendo il rifugio per quelle attività che il governo vuole svolgere al di fuori dello scrutinio del Congresso. Un esempio di ciò furono le azioni di Oliver North in Centro America, durante l’amministrazione di Ronald Reagan18. Attualmente (2005) partecipano alle riunioni di questa potente struttura: il Presidente, il Vicepresidente, i Segretari di Stato, Tesoro e Difesa, il Consigliere del Presidente per gli Affari di Sicurezza Nazionale. In riunioni specifiche ad essi si aggiungono uomini delle istituzioni quali: il Capo della Giunta dello Stato Maggiore, in funzione di consigliere su tematiche militari, il Direttore della CIA per tematiche di intelligence. Possono partecipare anche il Capo di Gabinetto della Casa Bianca, il Consigliere del Presidente e il Consigliere per la Politica economica, così come il Procuratore Generale e il Direttore dell’Ufficio di Bilancio, quando le riunioni si interessano di temi di loro competenza, così come direttori di altri dipartimenti e agenzie, a seconda che il Presidente lo ritenga o meno necessario. Attualmente questa struttura ha assunto il controllo assoluto della politica del governo ed è di fatto lo Stato Maggiore di George Bush. Tutto ciò ha generato un complesso meccanismo decisionale, dove si trovano strettamente vincolati i problemi relativi al bilancio militare e l’uso della forza in quanto tale. Perciò è raro che una decisione del Consiglio di Sicurezza Nazionale non abbia nulla a che vedere con la mobilitazione o il dispiego delle forze militari nordamericane e dei suoi apparati di intelligence. Tutta l’annosa polemica, all’interno del sistema politico nordamericano, rispetto alle prerogative del Congresso e del Governo, si è al momento arenata per lasciar spazio al potere assoluto del Presidente di fronte al Consiglio di Sicurezza Nazionale19. Nonostante ciò, con questa alleanza di forze non si arriva al “supermonopolio”, perciò questo legame non è un potere al di fuori del potere dei gruppi finanziari, né si può comprendere questa alleanza senza considerare quanto segue: 1. nemmeno i maggiori appaltatori della difesa mantengono tutta la loro attività economica legata esclusivamente al bilancio militare. Una parte importante della produzione di alta tecnologia è destinata al commercio civile; 2. i grandi monopoli delle armi sono immersi anche dentro la più complessa struttura di potere costituita dai gruppi finanziari; 3. un numero consistente di multinazionali monopoliste non dipendono dal bilancio militare; 4. i gruppi finanziari, dei quali fanno parte queste multinazionali, hanno interessi che vanno oltre quelli rappresentati da un bilancio della spesa militare perennemente in crescita; 5. sul piano politico, si possono presentare contraddizioni all’interno di queste stesse strutture, così come si stanno manifestando recentemente per quanto riguarda la cosiddetta ‘guerra al terrorismo’. Perciò, il complesso militar-industriale è quello che ricopre costantemente il ruolo di catalizzatore dei processi e delle campagne militari. Sono suoi obiettivi, tra gli altri, incrementare le commesse per spese militari, la creazione di un’economia tipica del tempo di guerra, e il sostentamento delle condizioni commerciali anch’esse caratteristiche dei periodi di guerra. Tale fenomeno ha assunto un carattere internazionale, formando una complessa rete di vincoli e relazioni tra le principali potenze capitaliste, che mantiene allo stesso tempo i restanti paesi del sistema, i sottosviluppati, come mercato per la vendita di armi e come riserva per la politica degli armamenti20. Questa internazionalizzazione della base materiale del complesso militar-industriale non è stato un fenomeno isolato, ma è avanzato assieme ai processi di internazionalizzazione del capitale e della produzione, assieme alla crescita delle imprese multinazionali e dell’esportazione di capitali. A partire da quei monopoli che, essendo allo stesso tempo i più importanti produttori e venditori di prodotti, sono anche i più importanti appaltatori dei loro rispettivi governi per la produzione di armamenti. Questi monopoli hanno disseminato le loro filiali in tutte le altre potenze capitaliste e in tutti i membri del sistema, formando un torbido tessuto di interrelazioni che è servito da base per convertire il complesso militar-industriale in qualcosa di più di un fenomeno localizzato negli Stati Uniti. Ovverossia, il Complesso Militar-Industriale nasce negli Stati Uniti negli anni tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50, ma l’influenza di tale struttura comincia già da allora a strutturarsi all’interno della dinamica economico-politica delle principali potenze imperialiste, spinta dalle stesse cause che la generarono in Nord America, anche se con un evidente supremazia, economica, politica e tecnologica da parte degli Stati Uniti. 4. Il carattere transnazionale del complesso Fattori di transnazionalizzazione dell’economia militare

Esiste un insieme di fattori che alimentano attualmente il carattere transnazionale del Complesso Militar- Industriale. Tra questi i più importanti sono: 1. l’ampio spettro di interessi economici e politico-militari delle potenze imperialiste nel mondo, in particolar modo degli Stati Uniti, che hanno rafforzato la loro egemonia militare alla fine del XX secolo; 2. l’esistenza di un’ampia rete di basi militari fuori dal territorio nordamericano; 3. l’esistenza di un’ampia rete di alleanze e patti militari, ora rafforzatisi dall’ampliamento della NATO, con l’entrata dei membri del dimesso Patto di Varsavia21; 4. il clamoroso e insolito incremento di spesa militare degli Stati Uniti, alimentato dalla cosiddetta strategia della “lotta contro il terrorismo”; 5. la smisurata crescita del potere distruttivo, militare convenzionale degli Stati Uniti, che, in particolare, tende a cambiare le regole della guerra in modo che per difendersi è possibile solamente ricorrere alle tattiche nefaste del terrorismo o alle armi nucleari22; 6. la tendenza a sviluppare una forza nucleare-tattica diretta a “dissuadere” la capacità di contestazione dei paesi del terzo mondo, nella lotta contro l’imperialismo; 7. Gli Stati Uniti hanno inaugurato il secolo con una politica estera di natura estremamente aggressiva, che non rispetta le regole né alcun tipo di istituzionalità internazionale, facendo leva su una visione del mondo che è stata elaborata dai settori più reazionari della politica e dell’intellettualità nordamericana23. Come già detto, l’economia militare non è divisa dal resto dell’economia da linee divisorie assolute, avvalendosi degli stessi meccanismi e strumenti che caratterizzano oggi il sistema di relazioni economiche capitaliste a livello mondiale, e costituendo di fatto un sottoinsieme di tale sistema. Tra questi: 1. il commercio mondiale di prodotti, in questo caso di armamenti e componenti; 2. la formazione e lo sviluppo di una capacità industriale e tecnologica per la produzione di armamenti, principalmente in Europa e Asia, diretta a diminuire la dipendenza dall’industria militare nordamericana; 3. assieme al commercio di armi, la commercializzazione di licenze e brevetti per la produzione degli stessi in altri paesi capitalisti, con le logiche limitazioni imposte dalla competizione nel campo militare; 4. l’esportazione di capitali, sotto forma di prestiti bancari e aiuti per l’acquisto di armamenti e materiali bellici in generale; 5. la formazione di un’ampia rete di vincoli tecnico-economici tra le potenze capitaliste sviluppate, per la produzione congiunta di armamenti; 6. lo scambio di consulenza militare tra i paesi membri delle differenti alleanze, in particolare tra i membri della NATO; 7. l’esportazione di tecnologia militare convenzionale, a basso contenuto tecnologico, verso i paesi sottosviluppati, per sostenere alcuni sottotipi di industria militare, orientati ad appoggiare le oligarchie subalterne esistenti in questi paesi; 8. l’esportazione di consulenza tecnico-militare per la creazione di scuole di addestramento militare, per lo sviluppo dei corpi di repressione e per la formazione di quadri in generale; 9. la tendenza a mettere in campo una politica selettiva di non-proliferazione nucleare. Gli Stati Uniti attaccano in questo campo la Corea del Nord e l’Iran ma si dimostrano permissivi nei confronti di Pakistan e Israele. Si tratta di una transnazionalizzazione guidata dagli Stati Uniti, volta ad incrementare la sua capacità militare nucleare e convenzionale, a rafforzare il loro ruolo nel commercio mondiale delle armi e della tecnologia necessaria per la loro produzione, rafforzare il potere di deterrenza e di aggressione appannaggio di stati che, come Israele, rivestono un ruolo importante nella loro strategia all’interno di una regione in cui hanno molti interessi, così come anche ad incrementare la loro capacità di mobilitarsi militarmente nel mondo senza dover dipendere da alleanze.

5. L’industria militare e la globalizzazione economica Come in qualsiasi altro settore dell’economia, le decisioni prese all’interno dell’industria militare sono fortemente influenzate dall’ottenimento del massimo profitto. Questi calcoli sono determinanti rispetto alla concezione dello sviluppo e della fabbricazione di qualsiasi sistema d’armamento. La produzione militare, al tempo stesso, non può essere vista al margine dei suoi straordinari vincoli con i temi di ordine politico-strategico. Il punto è che la produzione militare serve da supporto materiale alla costruzione di strategie politico-militari e di quelli che potremmo chiamare gli scenari di sicurezza. Venendo a creare così, in maniera indissolubile, situazioni di difesa e possibili minacce. E a tutto ciò si aggiunge il fatto che la sicurezza di cui si parla e le strategie politico-militari sono intimamente legate al fatto che viviamo in un mondo disuguale e egemonizzato da un gruppo di potenze imperialiste, che utilizzano la forza militare come strumento a servizio della propria egemonia. In tal maniera, i cambi che si sono verificati nella produzione militare, a partire dalla cosiddetta fine della guerra fredda, sono il riflesso dei cambiamenti che si sono prodotti nello scenario strategico e nel sistema economico internazionale, così come anche nelle tecnologie. Da ciò possiamo discernere che negli ultimi anni del ventesimo secolo e nei primi del ventunesimo si stanno verificando dei cambiamenti radicali all’interno dell’industria militare. Tali cambiamenti sono visibili nei processi di innovazione tecnologica in atto, laddove la rivoluzione tecnica da la spinta ad un continuo miglioramento degli arsenali militari in termini di capacità deterrente, ampiezza, precisione e capacità distruttiva. Ciò è particolarmente evidente nei grandi sistemi, ma anche in arsenali più semplici (Si veda: Revista Española de Defensa - 2000, p.9.). I rapidi miglioramenti hanno conservato valore strategico nella versione meno avanzata dei sistemi, dal momento che il loro rendimento era inferiore. Come conseguenza, gli eserciti hanno mantenuto una pressione costante sull’industria per ottenere arsenali moderni competitivi, in modo tale che le imprese si sono viste obbligate a sostenere una pesante agenda di ricerca e sviluppo permanente (Si veda: Revista Española de Defensa - 2000, p.9). Tutto ciò ha portato alla conseguenza che la correlazione tra tecnologia civile e militare si è fatta di volta in volta più complessa e stretta, così molti dei progressi che sono stati realizzati nella microelettronica o nelle telecomunicazioni nel settore commerciale, sono stati poi applicati nell’industria militare, anche se in modo indiretto e tutt’altro che facile. Europa e Stati Uniti hanno mantenuto livelli scientifici simili, anche se Washington ha raggiunto, in generale, un’applicazione tecnologica militare più efficiente (Si veda: Revista Española de Defensa - 2000 p. 9). Quanto detto poc’anzi rappresenta la realtà: ovvero l’esistenza di una stretta e crescente relazione tra la tecnologia militare e quella civile. A causa di tale relazione l’industria della difesa, a prescindere dai suoi vantaggi già prima citati, non può essere concepita senza riferirsi all’industria civile e tanto meno senza riferirsi allo scenario economico creato dallo sviluppo tecnologico dell’industria in generale all’interno dei paesi a capitalismo avanzato. Ragioni per cui la produzione militare non può essere isolata dalla produzione industriale in generale. Intrecciandosi, in termini materiali, tecnologici e di obiettivi di razionalizzazione capitalista (ovvero di ottenimento del massimo profitto), in modo che nessuna delle due può esistere senza l’altra. “Il tasso di investimento produttivo può variare con i cambiamenti che si producono nel campo del settore civile e del settore militare. Soprattutto se questi cambiamenti sono diretti fondamentalmente all’ampliamento della produzione industriale militare in base al bilancio”24. Questo legame tra tecnologia militare e civile approfondisce estremamente l’impatto del Complesso Militar-Industriale sull’economia, dato che si presentano con forza devastante i molteplici propositi della produzione industriale, arrivando fino a manifestare, in alcuni casi, gli obiettivi finali di determinate produzioni. Per esempio è difficile distinguere tra la Ricerca-sviluppo di vettori speciali per uso commerciale e scientifico, e quello dei missili balistici; qualcosa di simile succede con i satelliti di comunicazione e di riconoscimento. Se si scende nell’ambito dei componenti di base, come i nuovi materiali o i circuiti microelettronici, la discriminazione è ancora più complessa (Si veda: Revista Española de Defensa - 2000, p. 9). La situazione sopra descritta racchiude grandi pericoli, dal momento che diventa molto difficile controllare la proliferazione di determinati tipi di armi, e poiché sta diventando sempre più facile acquisire nel mercato civile arsenali che potrebbero avere un potenziale utilizzo militare. Ciò rende molto meno controllabile il commercio clandestino di armi, il contrabbando di componenti per la produzione nucleare e l’acquisto di armi per attività terroristiche. Pertanto, questo continuo attraversamento di frontiere tra la tecnologia militare e la tecnologia civile limita i tentativi di ridurre la proliferazione. Con un notevole impatto sul mercato. Generando un crescente sgretolamento delle barriere tra acquirenti e venditori nel mercato mondiale di armamenti. I governi che acquisiscono sistemi di armamenti cercano di potenziare la propria industria di difesa e facilitare la manutenzione e la riparazione degli arsenali. Allo stesso tempo, la produzione locale potenzia l’economia locale, convertendo il bilancio di difesa in un investimento industriale (Si veda: Revista Española de Defensa - 2000, p.13). Nell’ambito della dinamica tecnologica e delle intenzioni dei governi per potenziare la loro industria militare, la presenza degli armamenti non solo non scompare, ma si fa più complessa, caso mai esistesse la volontà politica di diminuirla. Di modo che la spesa militare diventa sempre più una parte indivisibile dalla spesa pubblica e dallo sviluppo delle industrie nazionali. Quella che prima poteva essere considerata come una spesa inutile dal punto di vista del soddisfacimento delle necessità dell’essere umano, ha iniziato ad essere visto come qualcosa di consustanziale al processo di investimenti necessari allo sviluppo industriale. Un altro fattore determinante nell’evoluzione del settore della difesa è stato la globalizzazione economica. La necessità da parte dei governi di mantenere gli equilibri macroeconomici per proporsi come un ambiente propizio agli investimenti esteri funziona come una morsa nei confronti della spesa pubblica generale, e per la difesa in particolare. Ciò si intreccia con l’incremento dei costi dei sistemi di armamenti, di modo che questi ultimi sono divenuti sempre più sofisticati, generando la necessità di maggiori investimenti (Si veda: Revista Española de Defensa - 2000). Allo stesso tempo, verso gli inizi del 2000 ciò si manifestava soprattutto in Europa Occidentale e nell’ex-Unione Sovietica, con riduzioni significative delle forze Armate e la conseguente diminuzione delle necessità di armamenti, ottenendo come risultato una sostanziale contrazione della quantità e varietà della domanda dell’industria militare25. La guerra del Kossovo, quella successiva in Afghanistan e poco dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti sono venute in soccorso delle industrie militari che sono rimaste coinvolte in queste campagne belliche, soprattutto quelle che hanno collaborato con gli Stati Uniti, integrando la coalizione che si era andata formando contro l’Iraq. I conflitti citati non fanno altro che confermare ciò che asserirono molti analisti politici, quando descrivendo la Guerra del Golfo (1991), dissero che lì si manifestava il modello di guerra contro i paesi del terzo mondo. In effetti non fu l’Afghanistan che inaugurò questa nuova epoca, ma l’operazione “Tempesta nel Deserto”, sviluppata dagli Stati Uniti contro l’Iraq, che servì come opportunità per mostrare la potenza militare che era stata messa in piedi per intervenire in qualsiasi paese del terzo mondo26. Il punto è che ormai da tempo che si sta producendo una trasformazione sostanziale nella natura del conflitto bellico. Il che ha determinato nuovi tipi di missioni militari e allo stesso tempo, nuove esigenze rispetto alle tipologie degli armamenti. Cosicché emerge con forza la necessità di dotare le armi convenzionali di un maggior potere distruttivo e di una maggiore efficacia. Però più di questo, stanno lentamente scomparendo i confini che permettono di differenziare le armi convenzionali dalle non-convenzionali o nucleari. Dotando le prime di un potere distruttivo, e di una sofisticatezza, mobilità ed efficacia che finiscono con il convertire la cosiddetta guerra convenzionale in qualcosa di molto lontano dai parametri che si erano stabiliti negli anni del secondo dopoguerra. Durante gli ultimi anni si sono moltiplicati gli scontri civili, i conflitti locali in piccoli spazi, gli attacchi chirurgici e le invasioni “umanitarie” in nome della democrazia e dei diritti umani, o presumibilmente contro il terrorismo. Questi conflitti richiedono un arsenale leggero, di media o bassa tecnologia, come quelli utilizzati in Yugoslavia. Queste esigenze sono state soddisfatte a partire da certe riserve che non sempre erano state modernizzate. Al centro dell’attuale situazione internazionale, caratterizzata innanzitutto dalla politica estremamente aggressiva degli Stati Uniti, in seguito agli attacchi terroristici dell’11 settembre, si è prodotto un incremento della domanda di armamenti, provocato dall’interesse di alcuni Stati che hanno voluto dotarsi di mezzi militari moderni per guadagnare status internazionale, assicurarsi una certa influenza regionale, proteggersi da possibili minacce di paesi vicini, o semplicemente per dare una risposta ai paesi della ‘coalizione dei volenterosi’ assoldati dagli Stati Uniti, al fine di dare una risposta ai conflitti che la stessa politica nordamericana ha creato o contribuito a creare. Tali situazioni hanno prodotto un importante rivitalizzazione delle acquisizioni di tecnologia medio-alta e alta nell’Asia Occidentale, in Medio Oriente e in certe zone dell’Africa e dell’America Latina. Inoltre, nella situazione attuale sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea, assieme ad altre potenze occidentali, si trovano ad affrontare la necessità di rapportarsi con una crescente capacità di intervento nei conflitti che hanno creato fuori dalle loro frontiere, per proteggere i loro interessi esteri e promuovere i valori che sostengono le loro società. Al centro di tali dinamiche, la produzione militare in tutto il mondo ha assunto forme diverse, a seconda delle condizioni regionali e degli obiettivi perseguiti dai governi. La proliferazione di armamenti è continuata, grazie all’estensione delle licenze per la fabbricazione di materiale bellico leggero, favorendo la comparsa di microproduttori. Stati così diversi fra loro come l’Algeria, la Colombia o la Birmania dispongono di fabbriche per la produzione di armi leggere, e per la riparazione e modifica dei veicoli blindati. Si tratta di un’industria nata per garantire una certa autonomia per quanto riguarda le necessità più immediate mantenute politicamente senza rinunciare ad una certa affidabilità finanziaria. L’importanza strategica di questi piccoli produttori non è da disprezzare, essendo per sua natura difficile un controllo internazionale della circolazione delle armi (Si veda: Revista Española de Defensa-2000, p.17). Un altro gruppo di industrie, chiamate Autoctone, è formato da un discreto numero di paesi diversificati, che con minore o maggiore successo stanno sviluppando settori nazionali di difesa diversificati. Tra questi ci sono paesi che hanno optato per mantenere un’industria autoctona, in sostanza destinata alle proprie necessità e poco presente nel mercato di esportazione. Questi stati hanno investito enormi risorse pubbliche per raggiungere la capacità produttiva di un’ampia gamma di arsenali di una certa entità, con uno sforzo che risponde a condizioni strategiche molto differenti: rafforzare una politica da superpotenza (India), essere immuni di fronte a un embargo internazionale (Iran), disporre della capacità di difesa di fronte ad un vicino potente (Pakistan), o sostenere un regime di autarchia politica (Corea del Nord) (Si veda: Revista Española de Defensa - 2000, p. 17). Davanti a tale proliferazione di armamenti, gli Stati Uniti adottano un atteggiamento che non ha niente a che vedere con l’etica della non-proliferazione, ma che sostiene gli interessi della sua politica strategica basata sulla forza. Chiari esempi di tale atteggiamento sono le posizioni assunte nei confronti del Pakistan, che è persino arrivato a detenere armi nucleari, ma è suo alleato nel conflitto afghano; l’atteggiamento tenuto nei confronti della Corea del Nord, continuamente sotto tiro per aver acquisito capacità nucleare. Situazione che si ripropone nel caso della Colombia e del Venezuela. All’interno di tutto ciò, permettendo a Israele di disporre di armi nucleari in quanto potenza alleata in un’area di conflitto che rientra pienamente nei loro interessi. Un altro gruppo di paesi con una rilevante industria di difesa sono i paesi emergenti, antichi esportatori fin dagli anni 80: Brasile, Sudafrica, Israele e, leggermente distanziati, Argentina e Cile (Si veda: Revista Española de Defensa - 2000, p.20). Un terzo gruppo è costituito da paesi dell’Est e da alcune ex-repubbliche sovietiche. Ad eccezione della Federazione Russa, nei rimanenti casi le loro industrie hanno seguito un percorso simile. Tradizionalmente, le industrie militari situate in Bielorussia, Ucraina, Slovacchia e Romania erano orientate a soddisfare necessità di tipo domestico. Godendo di una produzione preminente nella struttura economica e nell’ambito di ricerca e sviluppo nazionale. Ma con la fine del sistema sovietico, questi vantaggi sono scomparsi, così come le disgraziate finanze e la riduzione degli apparati militari hanno provocato una drastica riduzione della domanda interna. Un quarto gruppo significativo è costituito da una serie di produttori emergenti che hanno creato settori autoctoni di armamenti, parallelamente ad un rapido sviluppo tecnologico civile. I casi più significativi si sono verificati in Asia, dove questa tendenza è stata alimentata da forti minacce esterne, ma soprattutto dalla posizione di leadership in tecnologie-chiave facilmente convertibili ad uso militare (Si veda: Revista Española de Defensa-2000, pp.21-30). In ogni caso, molto al di sopra di tutti i gruppi industriali militari fin qui citati, dotati di significative industrie autoctone, si trova il gruppo dei grandi produttori esportatori: Federazione Russa, Cina, Stati Uniti, Unione Europea. In modo particolare Stati Uniti e Russia sono i leader mondiali nella distribuzione di armi. Anche se i primi hanno potuto rafforzare la loro posizione dominante nel mercato mondiale di armi arrivando a detenere una quota pari al 40-50% del mercato. Quota che si mantiene e tende ad aumentare soprattutto a seguito dei più recenti eventi bellici nel mondo. Vediamo come è strutturato questo commercio.

6. Il commercio mondiale delle armi cosiddette convenzionali Nelle tabelle allegate 4 e 5 si può osservare molto chiaramente il commercio di armi convenzionali nel periodo 2000-2004 dei 10 maggiori fornitori e dei 38 maggiori acquirenti. Come si vede la Russia e gli Stati Uniti sono i principali fornitori, mentre Asia Europa e Medio Oriente sono i principali ricettori di questo commercio. Salta subito all’occhio che, pur essendo l’Africa il continente più povero, ha acquistato 5130 milioni di dollari di armamenti, solo tra gli anni che vanno dal 2000 al 2004. Quindi, quando si pensa ad un possibile trasferimento, anche se solo una piccola parte delle spese per gli armamenti è trasferita allo sviluppo, non c’è niente di strano che si pensi alla stessa Africa. Per tutte le regioni, il commercio di armamenti è stato di 84.491 milioni di dollari, dei quali Russia e Stati Uniti forniscono insieme 52.855 milioni di dollari, 26.925 la Russia, maggior fornitore, e 25.930 gli Stati Uniti. Il che significa il 62,26% di tutto il commercio mondiale di armi. Tali vendite da parte della Russia e degli Stati Uniti superano di molto quelle degli otto fornitori rimanenti, che distribuiscono solo il 37,34% per una media del 4,19% per ciascun fornitore. Nella tabella n. 5 allegata in particolare è possibile osservare come nel periodo 2000-2004 Russia e Stati Uniti si siano spartiti alternativamente la leadership mondiale del commercio di armamenti. A parte questi leader citati, si sono mantenuti tra i principali fornitori di armi Francia, Germania, Gran Bretagna, Ucraina, Canada, Cina, Israele, Italia, Olanda, Bielorussia, Uzbekistan e Spagna, per una quota di vendite di armi da parte di tutti i paesi citati che oscilla tra i 26.925 e i 25.930 per Russia e Stati Uniti rispettivamente e tra i 6.358 milioni e i 479 milioni, cifra riferita alla Spagna che appare come il fornitore minore. È evidente che Russia e Stati Uniti sono i principali responsabili della vendita di armi a livello mondiale, durante i primi anni del secolo appena iniziato. Nonostante dispongano di quantità simili, per una differenza tra le due potenze di solo 995 milioni a favore della Russia, si può osservare che la vendita da parte degli Stati Uniti è più concentrata in Asia, Europa e Medio Oriente, mentre le forniture della Russia sono maggiormente disperse su tutto il pianeta. Il che rende palese la serrata competizione esistente tra le due potenze. Non è difficile intuire perchè i cosiddetti “Sette Grandi” abbiano relegato la Russia alla posizione di “n.8”. La Russia è stata e continua ad essere una potenza militare ed una grande esportatrice di armi, il che è molto importante all’interno della strategia della forza portata avanti in particolare dagli Stati Uniti, nella sua cosiddetta “Guerra al Terrorismo”. La transnazionalizzazione dell’economia militarista nei confronti dei paesi sottosviluppati

Le compagnie multinazionali sono uno degli indicatori imprescindibili dell’imperialismo nordamericano. L’opinione condivisa dalla maggior parte degli economisti è che queste multinazionali costituiscano il centro dei flussi internazionali di investimenti, transazioni finanziarie e commercio mondiale. Secondo la UNTACD, nel 2003 esistevano circa 65.000 compagnie, con una stima di 860.000 filiali. Tra le 500 più importanti del mondo, il 48% sono nordamericane; seguono Europa con il 28%, Giappone con il 9% e il resto del mondo con il 4%. Ma la concentrazione di potere negli Stati Uniti è ancor più evidente quando si osserva che delle 50 più grandi multinazionali, il 60% sono nordamericane, e che delle 20 ancora più grandi, il 70% sono ancora una volta nordamericane. Nelle tabelle n. 6, 7, 8 e 9 si pone in evidenza chiaramente la forza delle multinazionali degli armamenti, in particolare quelle nordamericane. Analizzando il commercio di armi convenzionali nelle tabelle allegate 4 e 5 si vede con chiarezza in che maniera i paesi sottosviluppati siano clienti di questa economia militare transnazionale. Però esistono altri dati, che evidenziano la forza di cui dispongono gli Stati Uniti nel mondo, tra i quali:
  gli Stati Uniti dispongono di basi militari in 120 paesi.
  Non esiste una relazione consequenziale tra espansione economica e espansione o azione militare, anche se esiste di fatto una vasta rete di vincoli.
  Alcune volte sono gli interessi economici che impongono l’esistenza di basi militari, altre volte sono gli stessi interessi militari.
  Non esiste una simmetria perfetta tra le spese militari, la partecipazione militare imperiale e la costruzione economica dell’impero.
  Gli Stati Uniti dispongono di Stati clienti che svolgono mansioni militari per loro. La politica aggressiva dell’imperialismo, il cui principale strumento è il Complesso Militar-Indusriale, necessita di un continuo incremento delle spese militari dei paesi sottosviluppati, per dare risposta alla strategia di militarizzazione dell’economia e alla politica militarista a livello mondiale, che persegue, in sostanza, i seguenti obiettivi: 1. sostenere e sviluppare il sistema transnazionale di ottenimenti di alti profitti da parte delle compagnie multinazionali di armi; 2. appoggiare l’accesso alle fonti di risorse energetiche e di materie prime dovunque esse si trovino; 3. approfittare delle fonti di manodopera qualificata a basso costo, specialmente nei paesi sottosviluppati clienti del commercio di armi; 4. rafforzare la capacità offensiva di una rete di stati che appoggiano la politica imperialista. Dotandoli di tutte le possibilità per reprimere qualsiasi movimento di contestazione o di resistenza allo sfruttamento capitalista; 5. sostenere la posizione interna delle oligarchie, chiamate autoctone, o subalterne, che facilitano o danno copertura alla politica di controllo e saccheggio delle risorse; 6. ampliare lo spazio all’interno della competizione interimperialista nel redditizio mercato del commercio di armamenti. La strategia imperialista di militarizzazione transnazionalizzata verso i paesi sottosviluppati si esprime in fenomeni quali: 1. il boom delle vendite di armamenti ai paesi sottosviluppati; 2. la creazione e lo sviluppo dell’industria bellica in differenti regioni sottosviluppate, con l’obiettivo di elevare la capacità logistica delle forze armate delle principali potenze imperialiste; 3. la creazione e lo sviluppo di luogotenenti regionali, che si materializza in un gruppo di Stati sottosviluppati che aumentano in maniera crescente la loro capacità militare: 4. la spinta all’incremento delle spese militari da parte di un gruppo di paesi sottosviluppati progressisti i quali, minacciati da conflitti regionali, si vedono forzati a deviare importanti risorse nel campo della difesa: 5. la creazione di tensioni regionali relative a problemi come il narcotraffico, l’immigrazione, le dispute territoriali, l’ambiente, ecc. I fenomeni segnalati in precedenza descrivono la maniera in cui i paesi sottosviluppati si vedono spinti a partecipare alla corsa agli armamenti, nonostante le ingenti e sempre più gravi difficoltà di ordine economico e sociale che essi devono fronteggiare. Il neocolonialismo, sviluppato dalle potenze imperialiste, con vigore particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha portato con sé nuovi fenomeni e meccanismi di dominio sul piano militare. Il processo di transnazionalizzazione dell’economia militarista subì un’accelerazione, sotto la spinta del Complesso Militar-industriale, e grazie al suo appoggio sorsero meccanismi quali i seguenti:
  programmi di Aiuto Militare aperti e coperti.
  Sistemi di Scuole Militari e di addestramento con l’obiettivo di preparare quadri per appoggiare le oligarchie dominanti nei paesi sottosviluppati.
  Commercio clandestino di armi.
  Basi Militari.
  Sistema di Interscambio con membri della NATO. I meccanismi neocoloniali-militari, strumenti del complesso Militar-Industriale nei paesi sottosviluppati, hanno un appoggio fondamentale nei cosiddetti Programmi di Aiuto Militare, tra i quali possiamo citare i seguenti:
  Programma di Assistenza Economica per la Sicurezza.
  Legge pubblica 480 - Alimenti per la Pace.
  Programma di Articoli Eccedenti della Difesa.
  Programmi dell’AIS (Agenzia Internazionale dello Sviluppo).
  Programmi di Addestramento del Sistema di Scuole Militari.
  Programmi di Borse di studio delle Accademie Militari. Una chiara espressione di questa transnazionalizzazione militarista la incontriamo oggi in America Latina sotto il nome di “Plan Colombia”, come lo è quella che viene ora chiamata l’Iniziativa Andina, elaborata in inglese con il titolo di “Plan for Peace, Prosperity and the Strenghtening of the State”. Corea (1950-1953), Indocina (1965-1974), l’epoca di Reagan (1981-1989) e ora l’Iraq, sono occasioni nelle quali la partecipazione militare domina l’agenda economica. L’Asia meridionale nell’attualità è una dimostrazione della rapida crescita dell’impero militare nordamericano e della creazione di nuove opportunità di espansione dell’impero economico delle multinazionali. Quindi i fenomeni che generano la necessità della crescita militare industriale e del complesso, come struttura all’interno della quale funziona questa crescita, non vengono in prima analisi dal funzionamento dell’economia per garantire il profitto. Questo sarebbe un obiettivo molto limitato. Vengono dal massimo obiettivo strategico imperiale, ovvero quello di mantenere il proprio potere egemonico a livello mondiale. In particolare gli Stati Uniti, essendo la prima potenza militare, utilizza questo potere unilaterale per garantire i suoi interessi non solo politici, ma anche economici. E in ciò ha successo perché fa pagare ai suoi alleati buona parte della spesa relativa alla cosiddetta difesa del “mondo libero”. Pertanto, per concludere, potremmo definire il Complesso Militar-Industriale come un sottosistema di relazioni economico-politico-militariste che avendo la propria base nella stretto rapporto creatosi tra le multinazionali industriali militari e lo Stato, producono per conto del cosiddetto bilancio di difesa, generando i più alti profitti, sulla base del sistema di privilegi statali dei quali godono, e sotto la copertura della sicurezza nazionale. Questo sottosistema ha generato inoltre un proprio apparato ideologico, che riproduce le idee del militarismo. Avendo come proprio centro gli Stati Uniti, il complesso militare-industriale si dispiega nel mondo come un sottosistema transnazionale di commercio clandestino di armi, brevetti e investimenti per la produzione congiunta di armamenti, principalmente con paesi sviluppati, che si appoggia sui contratti militari e sul sistema di basi, programmi di addestramento e collaborazione militare. Ciò prendendo anche come riserva del proprio sviluppo armamentario i paesi sottosviluppati, ovvero paesi che si vedono quindi obbligati al continuo incremento delle proprie spese militari, facendole funzionare come oligarchie subalterne, che appoggiano a livello regionale gli obiettivi della politica imperialista.

Questo sottosistema di relazioni economico-politico-militariste è diventato una necessità del processo di riproduzione economica, politica e ideologica dell’imperialismo nell’ambito mondiale. Vedendosi rafforzato, all’alba del secolo dalla posizione di egemonia assoluta sul piano militare, strategico e regionale raggiunta dagli Stati Uniti. Ciò determina un pericolo enorme per la pace mondiale che oggi supera ogni tipo di pericolo presente nel periodo della cosiddetta Guerra Fredda. (Traduzione di Raphael d’Abdon)

note * Prof. Universidad de La Habana e del CESEU (Centro Studi sugli Stati Uniti).

1 Si veda: Discurso de despedida a la Nación en: Stephen E. Ambrose. “ Hacia el Poder Global “, Grupo Editor Latinoamericano, New York, USA, 1991, pp.147-148.

2 Per un’analisi più approfondita si veda: “El mito de la guerra buena: los Estados Unidos en la Segunda Guerra Mundial”, Jacques R. Pauwels. Editorial Ciencias Sociales, La Habana, pp.1-43. Per tutta la durata della Guerra, con enfasi particolare tra il 1941 e il 1945, Churchill e Roosevelt diedero vita ad una politica di alleanza con l’URSS, che si svolgeva all’interno della contraddizione dell’ “alleato nemico”. Harry Truman, alla fine decise di considerare l’URSS un “nemico conveniente” (Nota dell’Autore).

3 Si veda: Jacques R. Pauwels, “ El Mito de la Guerra Buena: los Estados Unidos en la Segunda Guerra Mundial”, Editorial Ciencias Sociales, La Habana, p. 114.

4 Già nel NSC (National Security Case), No. 68, conosciuto come il NSC-68, si teorizzava una ricostruzione immediata su grande scala della forza militare nordamericana e in generale degli alleati, con l’intenzione di spostare gli equilibri di potere e con la speranza che l’utilizzo di altri mezzi non rendesse necessario quelli della guerra totale. Ver Ob., S. Ambrose, p. 99.

5 Più avanti vedremo che si tratta di un fenomeno transnazionale che, visto all’interno del contesto della globalizzazione, dell’egemonia degli Stati Uniti e della cosiddetta guerra al terrorismo, ha raggiunto proporzioni spropositate, che minaccia come mai in passato la pace a livello mondiale (Nota dell’Autore).

6 Questa burocrazia político-militare genera il bisogno di ricerca, propaganda, formazione di quadri e di lavoro ideologico in generale, che dà lavoro a una vasta elite intellettuale e tecnica, che sussiste come voce di spesa nel bilancio di difesa. (Nota dell’Autore).

7 Un settore industriale che gode dei privilegi statali di cui gode l’industria bellica, non fa altro che convertire l’economia militare in una “regione speciale” all’interno dell’economia, che finisce con lo svincolarsi dalle stesse regole che valgono per tutta l’economia nazionale (Nota dell’Autore).

8 Questa ampia rete di vincoli tra l’industria militare e le strutture politiche e governative si esprime anche a livello personale sotto le spoglie di un continuo scambio bilaterale di Incarichi Dirigenziali tra i consigli d’amministrazione dei gruppi industrial-militari più importanti e l’apparato di governo. Un esempio è l’attuale vicepresidente degli USA,Richard Cheney (Nota dell’Autore).

9 La razionalità del processo capitalista è a tal punto contraria alla soddisfazione delle necessità umane, che è capace di generare prodotti che si fabbricano per la distruzione, attraverso i quali si realizza nella maniera più efficace l’obiettivo supremo della razionalità capitalista: ottenere il massimo profitto. Irrazionalità sociale che si acutizza quando si tratta di armi di distruzione di massa o nucleari (Nota dell’Autore).

10 Per un’analisi più approfondita si veda la tabella n.3 allegata (Nota dell’Autore).

11 Si veda: Presupuestos de Defensa de Estados Unidos. Federal Budget of the U.S.Washington, fiscal years 2005-2011 DC, 2005, tabelle n. 1-2 allegate. Non tutte le spese militari appaiono in bilancio: tale è il caso dei milioni di dollari richiesti per le spese di guerra in Iraq e Afghanistan. (Nota dell’Autore)

12 I dieci maggiori contractors del Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti nel 2002 furono, in migliaia di milioni: Lockeed Martín Corporation (17.0), Boeing Company,Inc (16.6), Northrop Grumman (8.7), Raytheon Company (7.0), General Dinamic (7.0), United Technologies (3.6), Science Applications (2.1), TRW Inc (2.0), Helath Net, Inc (1.7), L-3 Communications Holding (1.7). Queste compagnie occupano continuamente le principali posizioni (Nota dell’ Autore).

13 Chiamiamo “tecnoburocrazia”, quel settore della burocrazia statale-governativa che non cambia a seconda delle amministrazioni, dal momento che chi vi appartiene occupa posizioni che per motivi tecnici non possono essere facilmente sostituiti. Questa burocrazia, in particolare, stabilisce vincoli di mutuo beneficio con i monopoli industriali militari e con gli Istituti di ricerca, dando indicazioni al governo nella realizzazione di programmi e nella contrattazione di armamenti (Nota dell’Autore).

14 In tale ambito gioca un ruolo speciale il paragrafo del Bilancio Federale rivolto al finanziamento dell’Attività Internazionale. Si tratta di un fondo di bilancio che viene utilizzato discrezionalmente per appoggiare attività regionali di governi subalterni (Nota dell’Autore).

15 Quando parliamo di ‘fusione e assemblaggio’ ci stiamo riferendo a questo tessuto industriale, corporativo e finanziario, strettamente connesso allo Stato, che forma un meccanismo unico di potere economico e politico, il quale seppur costituendo parte integrante del sistema politico, gode di uno spazio privilegiato all’interno del medesimo, concesso dal fatto di essere al centro dei problemi della cosiddetta sicurezza nazionale e della difesa in particolare. Questo meccanismo si è situato, con l’Amministrazione di George Bush (figlio), al centro del potere egemonico all’interno della società nordamericana (Nota dell’Autore).

16 La storia delle guerre ci permette di comprendere l’importanza che sempre hanno avuto le relazioni tra il governo e i produttori di armi, così come il ruolo del denaro statale nella preparazione della guerra. Tuttavia ciò non diede luogo a vincoli permanenti che da principio facessero sorgere una struttura di potere quale il Complesso Militar-Industriale (Nota dell’Autore).

17 Non si tratta indubbiamente di un fenomeno irreversibile, ma certamente di estremo pericolo, che può, prima di affievolirsi, portare il mondo e gli stessi Stati Uniti in un tunnel senza uscita (Nota dell’Autore).

18 Per un approfondimento si veda: “El Comité que Dirige el Mundo”, Foreign Policy edizione spagnola, aprile_maggio 2005, pp. 50-56. Tutti ricordano l’Iran-Contras, azioni studiate per la realizzazione di atti di narcotraffico, rifornimento di armi contro il Nicaragua e altri misfatti perpetrati sotto il comando diretto del Colonnello Oliver North (Nota dell’Autore).

19 Se il congresso non approva alcune designazioni il Presidente si appella ai diritti speciali concessigli dalla sospensione delle attività del Congresso, per designare in piena autonomia e a suo rischio, come fu il caso di Otto Reich e più recentemente di John Bolton, il rappresentante degli Stati Uniti all’ONU.(Nota dell’Autore).

20 In seguito introdurremo una riflessione sul carattere transnazionale del CMI e sul suo impatto nei paesi sottosviluppati all’interno del sistema capitalista (Nota dell’Autore).

21 Nel 1999 sono entrati la Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Polonia. A tal proposito vedi: Congressional Digest, NATO, 50 Anniversary, Washington DC, USA, 1999, pp.97-101.

22 Per un’analisi più approfondita sull’argomento si veda: Luis M. García Cuñarro, Revista Temas, Nos. 33-34, aprile-settembre 2003, La Habana, pp. 64-65.

23 La tragedia dell’11 settembre è stata accolta dalle forze di estrema destra negli Stati Uniti come l’opportunità che tutti attendevano per poter rilanciare un’America imperiale, disposta a intervenire in qualsiasi parte del mondo e con qualsiasi giustificazione, o anche senza alcuna giustificazione, come dimostra in particolare il caso dell’Iraq. Le Nazioni Unite, da parte loro, sono poco meno che paralizzate davanti all’avanzata degli Stati Uniti. (NdA)

24 Si veda: Esteban Morales. “Estados Unidos en el 2004: Economía y Elecciones Presidenciales”, El economista, No.1 del 2004, La Habana, Cuba, p.13.

25 Quella che oggi viene chiamata Guerra al Terrorismo, tende a far fronte a questo fenomeno, vista la crescita di utilizzo degli armamenti (Nota dell’Autore).

26 In realtà Saddam Hussein risultò un obiettivo ideale per gli Stati Uniti, offrendo loro tale opportunità proprio nell’anno del collasso dell’URSS (Nota dell’Autore).