Contro il Welfare dei miserabili
Luciano Vasapollo
9 ottobre 1999
Assemblea-dibattito in tema di flessibilità, nuovo mercato del lavoro e riforma del Welfare State
Relazione Introduttiva |
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Per quanto riguarda il problema disoccupazione l’Italia ha
scelto la strada, già dal 1991, di aumentare la contribuzione alle imprese
a CIG e solo in parte i sussidi di disoccupazione; ha operato delle restrizioni
all’utilizzo della cassa integrazione straordinaria, delle indennità di inabilità
e dei prepensionamenti.
Inoltre, in tale ottica orientata a favorire le politiche di
flessibilità e privatizzazione del Welfare è stato introdotto il lavoro interinale
ed è stato privatizzato il collocamento (dal 1997), si è operato per il decentramento
e privatizzazione dei servizi per l’impiego a livello regionale e provinciale
dal 1997; sono state proposte delle riforme dei LSU ma ancora tutte orientate
a forme di istituzionalizzazione del precariato e del lavoro nero, con incentivi
alle imprese e nessuna garanzia per i lavoratori. Si tratta di 140.000 lavoratori
dai 30 ai 50 anni, la stragrande maggioranza dei quali con pochi anni di contributi
versati, con basso livello di scolarizzazione, espulsi dal ciclo produttivo,
o giovani provenienti direttamente dalle liste di disoccupazione, che pur supplendo
da anni alle carenze d’organico della Pubblica Amministrazione, percependo neppure
800.000 lire al mese, non hanno neppure il riconoscimento del posto di lavoro.
E il Governo D’Alema invece di disdire questa vera e propria istituzionalizzazione
del lavoro nero assumendo a pieno salario e pieni diritti i LSU nel pubblico
impiego, d’accordo con Confindustria e sindacati confederali, prepara lo “svuotamento”
del bacino LSU, non dando loro alcuna collocazione stabile sul mercato del lavoro,
anzi regalando 18 milioni di incentivi alle imprese per ciascun LSU assunto
con contratto a tempo determinato, anche per pochi mesi, passando per le angherie
del moderno caporalato delle agenzie del lavoro interinale.
4. L’abbattimento dello Stato sociale in Italia: il Profit
State si impone attraverso il Welfare dei miserabili
L’esperienza di Stato sociale in Italia è stata opera di un
ceto politico dirigente di estrazione medio-borghese che ha determinato la forma
assistenzialistica e la degenerazione dei meccanismi dell’inclusione gestiti
attraverso il clientelismo per controllare il conflitto di classe. Mentre si
cerca di soffocare il conflitto fra lavoro e capitale consentendo attraverso
il Profit State una rappresentazione sociale dell’impresa, la pratica della
solidarietà, ispirata e diretta dallo Stato sociale fordista, si svuota progressivamente
di ogni significato a mano a mano che l’ideologia e l’attuazione della privatizzazione
generalizzata distrugge gli strumenti di potere economico e di legittimizzazione
morale che avevano consentito il compromesso sociale con la spesa pubblica.
La crisi odierna del Welfare State è legata ad una realtà in
cambiamento nel ruolo dello Stato, giacché la straordinaria fase di trasformazione
che sta vivendo l’economia da industriale a post-industriale reclama una maggiore
flessibilità del mercato del lavoro, rendendo inadeguata la forma-Stato legata
al ciclo fordista. Cambiando anche il ruolo e le figure tipiche del lavoratore
industriale di massa, per cui è prevista una intermittente permanenza nel mercato
del lavoro con scarsissime prospettive di mantenere il “posto a tempo indeterminato”,
si determinano e si aggiungono nuovi e gravi problemi a quelli che già caratterizzavano
il sistema di protezione sociale tradizionale. Nel caso italiano, non è più
compatibile neppure la torsione “clientelare-assistenziale” che era stata impressa
allo Stato sociale nazionale, a causa del suo particolarismo categoriale. La
crescita delle prestazioni era avvenuta in Italia attraverso una contrattazione
politica e corporativa che ha visto confrontarsi, da un lato, le singole categorie
preoccupate di migliorare la propria condizione senza riguardo per le altre,
dall’altro i partiti politici intenzionati ad incrementare il proprio consenso
sociale, dando luogo ad un sistema di assistenza di fatto corporativo, clientelare
e disegualitario.
L’accumulazione flessibile tende sempre più a manifestarsi
anche come fine progressiva e reale riduzione dei vantaggi assicurati dal Welfare,
ma soprattutto, come progressivo impoverimento dei ceti tradizionali protetti,
a partire dall’intera area del pubblico impiego, dei quadri intermedi del terziario,
degli artigiani e piccoli commercianti ovvero di quei ceti professionali la
cui identità e sicurezza veniva assicurata dalla presenza e da una determinata
gestione più o meno garantita dalla protezione sociale e dei servizi pubblici.
Lo Stato nella sua funzione di garante della sicurezza sociale
(nel campo della sanità, dell’istruzione, della previdenza e assistenza, nella
tutela delle fasce più deboli della popolazione) necessita oltre che di un equilibrato
sviluppo economico anche di alti livelli di occupazione e di un ponderato prelievo
fiscale. Con l’inizio degli anni ’90 si accentuano nel nostro Paese scelte verso
forme di capitalismo con connotati di vero e proprio darwinismo sociale. Tale
decisione, che impone il definitivo passaggio dal capitalismo italiano, fondato
su un modello di economia mista, a forme neoliberiste, da capitalismo selvaggio,
basate su ipotesi economiche monetariste, è dovuta ad una scelta europeista
acritica del potere politico, economico e finanziario del nostro Paese che accetta,
si sottomette ed anzi si fa promotore delle compatibilità monetariste dell’Europa
di Maastricht, l’Europa voluta e imposta dai grandi capitali finanziari.
I governi di matrice di centro-sinistra stanno definitivamente
smantellando ciò che rimaneva dello Stato sociale e delle conquiste prodotte
dalle lotte sindacali degli anni Sessanta e Settanta, le quali avevano garantito
migliori livelli di vita per tutti. Il perché della crisi strutturale del Welfare
State risiede nel fatto che gli schemi di protezione dai rischi sociali
(disoccupazione, vecchiaia, invalidità, ecc.) sono entrati in contraddizione
con lo sviluppo del bisogno di controllo sociale prodotto dalla sottomissione
completa alla cultura d’impresa del Profit State. L’impianto delle proposte
politico-economiche si incentra, allora, con sfumature diverse, su politiche
di tagli alla spesa pubblica, su incentivi e trasferimenti sempre più cospicui
alle grandi imprese, su riforme istituzionali e costituzionali di stampo presidenzialista
e sempre più autoritario, di soffocamento delle minoranze e delle diverse incompatibilità,
mettendo persino in discussione il diritto di sciopero, ostacolando addirittura
anche diritti democratici elementari come la legge sulle Rappresentanze Sindacali
Unitarie.
È evidente che la crisi dello Stato sociale e la determinazione
dei modi di presentarsi del conflitto sociale devono essere assunte come questioni
centrali per riflettere sulla crisi dell’idea di sviluppo e per elaborare una
prospettiva di cambiamento radicale del modello di sviluppo. Bisogna, infatti,
capire che la riforma del Welfare è semplicemente il modo di essere istituzionale
nell’assecondare i nuovi processi di accumulazione flessibile; è il Profit State
che cerca di confrontarsi con le nuove strategie di inclusione e di esclusione
espresse dalla globalizzazione del mondo di produzione capitalistico e del mercato.
L’affermazione delle culture e dei nuovi orizzonti finanziari, che hanno segnato
la metamorfosi dei sistemi economici e sociali del mondo capitalistico, ha prodotto
profonde trasformazioni nell’immaginario collettivo derivanti dall’imposizione
nella cultura sociale delle idee-forza nate sul terreno più propriamente economico
produttivo del nuovo ciclo post-fordista, istituendo l’immagine dominante del
mercato globale e della singolarità senza legami sociali, senza la solidarietà
di classe.
Nascono in realtà delle nuove “soluzioni compatibili”
con il nuovo ciclo post-fordista dell’accumulazione flessibile. Secondo tale
impostazione si lanciano messaggi sulla fine del lavoro per giustificare il
fatto che il nuovo modello di accumulazione flessibile vuole sviluppo accompagnato
da disoccupazione strutturale, e si sentono così assurdi discorsi contro modelli
basati sull’occupazione a tempo indeterminato, contro modelli di piena occupazione
ai quali si ipotizza che si possa spontaneamente ritornare grazie alla continua
diminuzione della popolazione attiva. Un bel modo per giustificare l’attuale
sottoccupazione e precarizzazione del lavoro. Gli stessi principi vengono utilizzati
per ridimensionare il Welfare, utilizzando a tal fine dei veri e propri “accrocchi
sui dati ufficiali” (ufficialmente chiamati livellamento delle cifre) per dimostrare
ad esempio la bassa crescita dell’inflazione, o per esempio per scoprire che
disoccupazione sta diminuendo (e questo solo perché con l’innalzamento dell’obbligo
scolastico a 15 anni, i quindicenni non saranno più considerati disoccupati,
oppure perché con una popolazione che invecchia diminuisce il peso dei giovani
che sono coloro che hanno il tasso di disoccupazione più alto), fino ad arrivare
ai “regali statistici” al Governo D’Alema relativi al calcolo sui 500.000 posti
di lavoro in più di cui lo stesso “Sole 24 ore” ci dice che oltre 200.000 sono
posti virtuali semplicemente dovuti alle modifiche delle modalità di calcolo.
I tanto decantati nuovi posti, i 500.000 incrementi occupazionali di D’Alema,
che imitando Berlusconi ce ne promette un milione per fine legislatura, sono
poco più di 300.000, quasi tutti lavori atipici, area del lavoro nero, a tempo
determinato, interinali, intermittenti, LSU, part-time; e non viene detto quanta
espulsione di lavoro a tempo pieno e indeterminato (il “posto fisso” tanto odiato
dal Governo) si sia nel contempo realizzato. E quel lievissimo decremento nel
tasso di disoccupazione non si dice che è evidenziato attraverso gli “aggiustamenti”
nelle modalità di rilevazione da parte dell’ISTAT, veri e propri “giochetti”
sui dati per favorire l’immagine della politica economica del Governo.
E’ in questo contesto di “soluzioni compatibili” che
si configurano gli attacchi allo Stato sociale anche nel nostro Paese, in una
rincorsa all’individualismo utilitarista anglosassone, a quel modello di capitalismo
selvaggio e alle politiche monetariste diventate ormai ideologia egemone. Si
vanno in questo modo disarticolando e travolgendo anche gli stessi principi
di civiltà come quelli di tolleranza e di solidarietà tra gruppi diversi e tra
generazioni diverse, principi guida in un Paese come il nostro in cui significativo
e fondamentale è stato, sul piano del condizionamento delle scelte di politica
economica e sul piano culturale, il contributo delle tradizioni e della forza
del movimento di opposizione di classe e operaio.
La politica economica neo-liberista portata avanti dai governi
di centro-sinistra ha realizzato nel nostro Paese un quadro macroeconomico che
evidenzia tendenze recessive, contrazione e precarizzazione dell’occupazione,
diminuzione dei salari reali, diminuzione dell’inflazione dovuta soprattutto
al forte calo della domanda, all’aumento delle fasce di povertà e dei tassi
di disoccupazione. La risposta alle tragiche conseguenze della globalizzazione
capitalistica non è indirizzata al mantenimento dei principi solidaristici e
all’attuazione di serie politiche indirizzate a delle congrue prestazioni sociali
ma alla creazione di un impianto incentrato su politiche di tagli del Welfare
che vanno a colpire sempre più gli strati più disagiati della popolazione. Per
raggiungere questo scopo si è impostata una politica di risparmi in settori
fondamentali quali la previdenza e la sanità, utilizzando come obiettivi prioritari
la mobilità, la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i tagli indiscriminati
alla spesa sociale, la stessa privatizzazione del Welfare.
Sono diversi i metodi con i quali è possibile attuare la cosiddetta
privatizzazione del Welfare; si pensi in primo luogo alla vendita di
beni di proprietà pubblica (le imprese e le abitazioni di edilizia popolare);
ed ancora la cessione ad organismi privati della fornitura dei servizi essenziali
anche attraverso la possibilità di rimpiazzare il servizio pubblico con quello
privato (ad esempio le pensioni sociali sostituite dalle forme assicurative
private). E’ prevista in pratica una riforma di tutti gli strumenti delle politiche
del lavoro (con l’introduzione di lavori atipici, interinali, flessibili e di
contratti di solidarietà, una riqualificazione della formazione professionale
e una riorganizzazione in chiave ancora più precarizzata dei lavori socialmente
utili, una riorganizzazione degli uffici di collocamento a livello locale);
si discute da tempo, inoltre, una ristrutturazione del settore assistenziale,
attraverso un sistema di protezione sociale tendente alla valorizzazione del
volontariato e del settore no profit e di soccorso ai soli “miserabili”. L’irrigidimento
dei criteri di ammissibilità ai servizi, significano ristretti margini di fruizione
per costringere il cittadino a trovare forme di sostegno nel settore privato.
Sindacati confederali, imprenditori e Governo propongono in
continuazione messaggi apocalittici sull’abbattimento della spesa sociale poiché
questa non è più finanziabile a causa della tendenza demografica ad un invecchiamento
della popolazione, e quindi della conseguente elevata incidenza della spesa
pensionistica e sanitaria.
Le proposte consociative di abbattimento dello Stato sociale
sono basate sulla personalizzazione, o meglio “familiarizzazione” e privatizzazione
del sistema di protezione sociale, in particolare sul passaggio al mercato della
sanità e della previdenza, perché è la centralità d’impresa e del mercato che
deve ormai contagiare l’intero tessuto sociale. In tal senso, ad esempio, fingendo
di introdurre sussidi alla disoccupazione, si è impostata una politica di risparmi
in settori fondamentali quali la previdenza e la sanità, utilizzando come obiettivi
prioritari la mobilità, la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i tagli
indiscriminati alla spesa sociale. In questo modo si riducono i sussidi dei
servizi sociali e sanitari attraverso un aumento dei ticket o comunque
attraverso l’attuazione di normative che propongono una sanità sempre meno pubblica
e più privata, con l’introduzione di forme di assicurazione sanitaria integrativa,
con nuove regole di accesso al mercato della distribuzione dei farmaci o ancora
con la gestione privata, inizialmente in via sperimentale, di alcuni ospedali
molto grandi e con la riduzione delle esenzioni. Le principali misure previste
nel settore della sanità sono chiaramente ispirate al criterio della privatizzazione;
si propone sostanzialmente una sanità sempre meno pubblica e più privata.
Anche per quanto riguarda il sistema pensionistico la
constatazione di una “forte prevalenza di anziani” nel nostro Paese porta alla
personalizzazione e privatizzazione del sistema di protezione sociale arrivando
ad optare per un passaggio al mercato della previdenza. Pertanto dal
coro consociativo si ascoltano messaggi univoci che parlano di una quota sproporzionata
della spesa previdenziale rispetto agli altri paesi europei, con lo scopo di
distruggere le pensioni di anzianità, allungando la vita di lavoro secondo i
principi di flessibilità e compatibilità d’impresa; senza però chiarire che
in Italia vengono conteggiati, nella quota destinata alla spesa per pensioni,
anche i trattamenti di fine rapporto che negli altri paesi non esistono; inoltre
si inserisce nel computo delle pensioni anche quella parte di costo di carattere
assistenziale come le integrazioni al minimo e quelle non coperte da contribuzione.
Non si dice, inoltre, che nel resto d’Europa oltre il 10% del salario è destinato
a fondi pensione a carattere integrativo che in Italia a tutt’oggi hanno uno
scarso peso. Tutto ciò porta ad invertire l’ordine del problema, cioè in
Italia la spesa per pensioni è largamente inferiore a quella della media europea.
Il dibattito sulle pensioni è quindi un dibattito falso che nasconde una vera
e propria lotta per l’egemonia nel mercato assicurativo e dei fondi pensione.
La strategia del Governo D’Alema e della CGIL è quella di realizzare
un sistema contributivo per tutti allargando enormemente la forbice tra
gli ultimi stipendi percepiti dal lavoratore e una pensione sempre più misera
che si andrà a percepire. Se si considera che si vuole un mercato del lavoro
sempre più flessibile, precario e intermittente, con quindi sempre più bassi
contributi versati, allora si deve dire la verità: adottando il sistema contributivo
si otterrà una pensione da miserabili dopo una vita di lavoro
con stipendi e redditi da miserabili. Il tutto è in effetti finalizzato
al ricorso ai fondi pensione integrativi, realizzando così un’altra verità:
per sperare di avere una pensione di vecchiaia più alta bisognerà ridurre i
già precari redditi durante la vita lavorativa per sottoscrivere un fondo pensione.
Comunque vadano le cose, il reddito calcolato sull’intero arco di vita risulterà
fortemente dimensionato.
Non contenti di ciò Governo, imprenditori e sindacati confederali
sferrano un duro attacco alle liquidazioni spostando parte del salario
differito (TFR) in busta paga con un forte appesantimento fiscale sulle tasche
dei lavoratori, tranne che questi ultimi non si dicano immediatamente disponibili
a trasferire obbligatoriamente, per non essere penalizzati fiscalmente, questa
parte del loro salario nella bolla speculativa finanziaria dei fondi pensione.
In tal modo ciò che il capitalismo perde in termini di prestiti forzati da parte
dei lavoratori, realizzati con l’accantonamento delle loro liquidazioni, lo
stesso capitalismo se lo riprende con gli interessi, avendo a disposizione enorme
liquidità, che è salario dei lavoratori, immediatamente disponibile per i processi
di finanziarizzazione dell’economia capaci di creare grandi e facili profitti.
Il rafforzamento, quindi, del mercato finanziario, dei facili
profitti senza investimenti produttivi, delle rendite finanziarie, avviene non
solo sull’attacco al salario diretto, al salario indiretto ma anche al salario
differito, sviluppando il grande bluff dei fondi pensione, controbilanciato
da un peggioramento delle condizioni di vita di tutti i lavoratori, occupati
e non.
Anche l’impostazione globale delle politiche del lavoro
è fortemente ispirata dalle logiche contributive ed assicurative che non fanno
altro che produrre diminuzione delle tutele, realizzando un lavoro e un salario
flessibile, senza norme, a basse garanzie complessive. Un ruolo fondamentale
è ormai svolto dalla precarizzazione, del lavoro e delle retribuzioni, e dalla
mobilità (sono ormai milioni gli occupati che hanno cambiato settore lavorativo
essendo costretti ad accettare spesso forme di flessibilizzazione del salario).
Ciò che domina ormai per la scena economica è l’abbattimento
di qualsiasi rigidità di costi e di normative, per favorire l’impresa. A
questo proposito l’iniziativa più innovativa che si sta sperimentando in Italia
recentemente è quella del reddito minimo di inserimento che ha preso
la sua ispirazione, almeno negli intenti, da altre forme di redditi minimi europei.
Negli ultimi mesi si sta discutendo dell’opportunità dell’allargamento e superamento
della fase sperimentale dell’istituto del minimo vitale, inteso come
strumento universalistico a sostegno dei redditi, e, in prospettiva, della completa
riorganizzazione del settore.
E’ in tale contesto di dibattito sulla riforma del Welfare
e sulla determinazione di misure contro la povertà che si inserisce il
Decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237. Il minimo vitale o reddito minimo
di inserimento è una misura che prevede un sussidio economico integrativo
per i non abbienti, ed è una prestazione legata al bisogno ed alla volontà di
reinserimento professionale.
Questa proposta si avvicina molto a quelle formulate da varie
correnti di pensiero sul reddito incondizionato e universale, visto come
“un nuovo diritto di libertà” su cui costruire il nuovo Welfare postfordista,
e, ancora molto vaga e da verificare, non può essere considerata come un tentativo
reale per rafforzare lo Stato sociale affidandogli un ruolo primario di riequilibrio
delle disuguaglianze e delle esclusioni create dal nuovo mercato del lavoro.
Ciò, oggi, può avvenire esclusivamente mediante misure di garanzia reali del
reddito. Infatti nella realtà, con il decreto legislativo n. 237 del giugno
1998 del Ministro Livia Turco, i propositi di soccorso al reddito per precari
e disoccupati sono quasi inesistenti. L’attuale normativa, di tipo ancora
sperimentale, si basa su un reddito minimo di inserimento destinato a persone
esposte al rischio di marginalità sociale, di importo pari a 500 mila
lire (per quelli che si trovano al di sotto della linea di povertà);
questo viene distribuito in alcune zone particolarmente disagiate, previo accertamenti
e verifiche da parte dei Comuni che potrebbero portare alla sospensione dell’erogazione,
e in cambio della disponibilità dei beneficiari a svolgere programmi di integrazione
sociale.
Tale proposta nelle intenzioni appare formulata con il tentativo
di attenuare la trappola della povertà e di risolvere la situazione italiana
in termini di spesa sociale, la quale pur avvicinandosi alla media europea,
si presenta passiva rispetto ai fenomeni di esclusione sociale. I microassegni,
che verranno distribuiti nelle poche zone disagiate del Sud, non potranno combattere
la corsa al ribasso nelle retribuzioni, alla flessibilità salariale e ridare
poteri agli occupati nelle trattative di lavoro, anzi faranno sì che diventi
accettabile qualsiasi offerta di lavoro. In questo senso tale proposta si inserisce
in una logica caritatevole e assistenziale, una carità minima garantita
che non solo non mette in discussione i meccanismi dell’accumulazione post-fordista
attraverso processi redistributivi ma, nei fatti, agevola e asseconda la ristrutturazione
del mercato del lavoro basato sempre più su flessibilità, precarizzazione e
marginalità ed esclusioni socio-economiche che si allargano sempre più.
Anche la riforma del collocamento è indirizzata a sempre più
intensi processi di privatizzazione con la nascita di agenzie specializzate
nel nuovo “caporalato” attraverso il lavoro interinale. Il nesso inscindibile
tra lavoro e formazione diventa la formazione che si modella sugli interessi
delle aziende. La ricerca, la formazione, la scuola, il rafforzamento della
conoscenza collettiva sono ormai orientati alla determinazione di un sistema
formativo subalterno agli interessi degli industriali, sempre più privatizzato;
si veda in tal senso il finanziamento pubblico alle scuole private, l’inserimento
nell’Università di corsi che con miseri cofinanziamenti di privati pretendono
una formazione ad hoc basata sulle compatibilità d’impresa, differenziando gli
accessi degli studenti al mercato del lavoro; tutto ciò ha unito le istituzioni,
i docenti, soprattutto quelli di sinistra, molti ex sessantottini, e quasi tutti
i partiti in un coro osannante di una superiore e omologata formazione privatistica.
Anche per l’assistenza le scelte sono finalizzate al
trasferimento della spesa per sanità e previdenza alla spesa più propriamente
di natura assistenziale. Nascono così proposte di un selezionato nuovo assistenzialismo
clientelare a carattere caritatevole indirizzato ai nuovi miserabili
alla parte più marginale della società. Si propongono forme di accesso ad alcuni
servizi sociali in base a processi individuali che favoriscono la connessione
e la ricomposizione istituzionale e compatibile delle forme di dissenso sociale.
E’ questo il vero significato di proposte che sollecitano lo sviluppo di un
sistema fondato sulla carità minima garantita agli esclusi.
Proposte finalizzate al controllo delle fasce più deboli della
società, rendendole ricattabili e condizionate dal potere, innescando senza
dubbio fattori che favoriscono la conflittualità orizzontale fra le varie
componenti sociali, ostacolando la ricomposizione di classe, favorendo invece
la nascita di veri e propri assistiti sociali, funzionali ad un regolamento
al ribasso del conflitto sociale e politico. Si realizza così anche un uso
strumentale del Terzo Settore finalizzato alle regole dell’efficienza capitalistica
con l’utilizzo dell’economia non profit, della cosiddetta economia sociale e
dell’autorganizzazione che si sostituisce al ruolo dello Stato sociale, comprimendo
e canalizzando i conflitti nell’ottica di uno Stato basato esclusivamente sulle
regole dell’economia del profitto affiancate da elargizioni caritatevoli compatibili
con il sistema.
A partire da tale impostazione ne deriva che bisogna prestare
particolare attenzione quando, seguendo alcune impostazioni di carattere economico-sociale,
e apparentemente solidaristico, il governo, i sindacati confederali, molte associazioni
del volontariato cattolico e non, propongono o accettano una diversa e “moderna”
visione del Welfare. In tale logica cade, purtroppo, anche chi a sinistra, molto
spesso in buona fede partendo da una rivendicazione al diritto alla autorganizzazione
sociale e alla flessibilità autoregolamentativa dei propri tempi di lavoro e
di vita, propone alcune forme di lavoro minimo garantito, di reddito
universale non legato al conflitto capitale-lavoro e ad intaccare i processi
di accumulazione capitalistica. Tali proposte di per sé eticamente comprensibili
poiché basate sui concetti di libertà civile di ogni individuo all’esistenza,
al diritto al lavoro e alla cittadinanza, non tengono però conto dell’attuale
nuovo carattere dell’accumulazione capitalistica, proprio in cerca di forme
“minime” di lavoro sempre più flessibile e a tempo determinato, non tengono
conto del carattere di per sé già sociale del salario, ed entrano così di fatto
nella logica dell’assistenzialismo, di carità garantita. Si tratta di proposte
incentrate su un’autonomia soggettiva che, lungi dal liberare dalla coercizione
delle logiche del mercato capitalistico del lavoro, cadono in rapporti subordinati
di scambio che svuotano, delegittimano e ostacolano la riproposizione del conflitto
di classe incentrato sulla battaglia per il superamento dell’organizzazione
capitalistica basata sullo sfruttamento del lavoro, sia esso lavoro diretto
nelle varie forme, sia esso lavoro anticipato che si trasforma in macchine ed
innovazione tecnologica che determina nuovo sfruttamento. E’ per questo che,
invece, il Reddito Sociale Minimo proposto dal CESTES, dall’Unione
Popolare, dall’Associazione Progetto Diritti e da tantissime altre sigle dell’associazionismo
di base, pone nella sua formulazione la centralità del conflitto capitale-lavoro,
la socializzazione degli incrementi di produttività, la tassazione dei capitali,
il tutto in modo da intaccare da subito i meccanismi di accumulazione capitalistica.
Anche la stessa ultima legge finanziaria del 2000 rispecchia
la consueta filosofia di attacco alle condizioni di vita dei lavoratori nonostante
sia stata presentata come “la finanziaria di sinistra per lo sviluppo e senza
lacrime”. Si tratta invece di una finanziaria che potenzia i percorsi di flessibilizzazione
del lavoro imponendo nuovi tagli sul Welfare per centrare l’impegno assunto
con l’Unione Europea di far scendere nel 2000 all’1,5% il rapporto fra deficit
e PIL e al 112,9% il rapporto fra debito e PIL.
Evidenziamo anche qui delle palesi falsità: a) l’abbassamento
dello scaglione IRPEF dal 27 al 26% comporterà circa 10.000 miliardi di tagli
delle tasse, ma a partire dal 2000 a metà tra lavoratori e sgravi alle imprese;
senza considerare che il primo scaglione IRPEF, cioè quello fino a 15 milioni
di reddito lordo risulta di fatto penalizzato ed inoltre i redditi da capitale
continuano a pagare le stesse aliquote IRPEF, cioè del 12,5% fino ad un massimo
del 19% e saranno beneficiati anche dal dimezzamento dell’IVA sulle costruzioni
edilizie, di altri sgravi sul settore edilizio, continuando la logica della
“rottamazione”, questa volta per favorire le imprese edili. Va inoltre
considerato che per le imprese ci sono a disposizione altri 1000 miliardi per
incrementare i fondi destinati alla superDit, continuando così a diminuire
il peso fiscale delle imprese; b) dei 15.000 miliardi della manovra, 4.000
verranno realizzati come proventi dalla vendita del patrimonio immobiliare dello
Stato, dismissioni che saranno gestite direttamente dal Ministero del Tesoro
e che potranno provocare gravi problemi a quegli affittuari a reddito basso
che non saranno in grado di riscattare l’immobile nel quale vivono; c) gran
parte dei 15.000 miliardi di tagli è concentrato sulla spesa corrente della
Pubblica Amministrazione, grandi risparmi sono previsti per gli acquisti di
beni e servizi, e diminuiscono ancora i trasferimenti agli enti locali territoriali,
il che significa minore quantità e qualità dei servizi pubblici per i cittadini.
Ma i tagli maggiori riguardano ancora una volta la riduzione del personale
della Pubblica Amministrazione, infatti nel 2000 questi dovranno essere
almeno l’1% in meno rispetto a quelli in servizio al 31 dicembre 1997; a questo
si aggiunga il blocco delle assunzioni e la mancanza di risorse sufficienti
per gli aumenti pattuiti nei contratti del pubblico impiego, con un vero e proprio
sostanziale blocco della contrattazione integrativa; e l’ultima ciliegina:
dopo l’istituzionalizzazione del precariato nella Pubblica Amministrazione attraverso
i LSU, con questa finanziaria si giunge a istituzionalizzare il lavoro interinale
nella Pubblica Amministrazione accompagnato da un massiccio ricorso ai contratti
a tempo parziale e a tipologie contrattuali flessibili; d) nella corsa al risanamento,
o meglio dire all’abbattimento del Welfare, c’è anche il capitolo che riguarda
le pensioni con la soppressione del fondo degli elettrici, il cui disavanzo
dovrà essere ripianato dalle stesse società elettriche, e le società telefoniche
si dovranno far carico del risanamento dei loro fondi pensione, così come sarà
soppresso anche il fondo dei ferrovieri; tutto ciò se significherà problemi
e decurtazioni sulle pensioni dei lavoratori allo stesso tempo però si tramuta
in riduzione dei contributi a carico delle imprese per assegni familiari e per
la maternità per controbilanciare l’impegno delle imprese elettriche e telefoniche;
anche in questo capitolo di spesa l’elemento di “sinistra” della manovra sarebbe
rappresentato dal cosiddetto “contributo di solidarietà” del 2% da far pesare
sulle pensioni d’oro, per l’eccedente di 142 milioni; si ricorda che la pensione
minima continua a essere intorno agli 11 milioni di lire l’anno e che invece
il contributo di solidarietà, della durata di solo tre anni, non colpisce i
vitalizi, come quelli dei parlamentari o quelli erogati dalle casse professionali
che non sono considerate pensioni; se si escludono tali vitalizi allora questo
2% di solidarietà da destinare all’incremento del fondo pensioni dei lavoratori
atipici peserà mediamente solo per qualche decina di migliaia lire al mese sui
“fortunati e nobili” interessati; e) e per i “ miserabili” che risorse del Welfare
rimangono? E’ previsto che l’assegno di maternità per chi non ha garanzie
previdenziali, cioè per chi vive in condizioni di vera e propria miseria,
salga da 1 a 3 milioni di lire ma nel contempo le imprese avranno un alleggerimento
del costo del lavoro del 2% proprio grazie alla fiscalizzazione di alcuni contributi
di maternità. Infine, per l’occupazione sono previsti stanziamenti per 5.800
miliardi nel triennio, di cui 200 miliardi per i senza lavoro di Napoli e Palermo
da destinarsi a forme caritatevoli di soccorso, appunto per miserabili,
senza dar loro alcuna prospettiva di continuità nel rapporto di lavoro; 800
miliardi sono stanziati su un fondo unico per l’occupazione, che significa incremento
dei contratti atipici e a tempo determinato volti a favorire la formazione
di impresa con forti sgravi contributivi; altri 800 miliardi saranno destinati
alla riforma degli ammortizzatori sociali che avverrà sempre in chiave di un’alimentazione
di quelle politiche attive funzionali alla flessibilità voluta dagli imprenditori;
gli altri 4.000 miliardi arriveranno in forma indiretta ancora una volta alle
imprese in quanto saranno destinati al cofinanziamento dei fondi comunitari
già determinati come premio alle imprese.
Altro che manovra di “sinistra”, si profila un orizzonte sempre
più “sinistro” per i lavoratori, per le classi meno abbienti che vedranno
sempre più tagliare il loro salario diretto e indiretto senza alcuna politica
seria per l’occupazione, senza alcuna redistribuzione dei redditi a carico
del capitale, con sempre più forti incentivi e sgravi alle imprese che si controbilanciano
con la mancanza o l’intermittenza di redditi per le tasche della maggior
parte dei cittadini, decurtati anche di quel salario indiretto spendibile attraverso
un Welfare che garantiva universalismo dei diritti e che invece si trasforma
in un sempre più meschino “Welfare dei miserabili”.
In ultima analisi siamo in presenza di parametri di efficienza
e di efficacia competitiva del mercato, tipici indicatori della gestione d’impresa,
che dovranno determinare le dinamiche evolutive dello Stato sociale. E’ la cultura
d’impresa, è la moralità del liberismo, è la logica del profitto
e del mercato che deve essere caricata sulle già deboli spalle degli ammalati,
degli anziani, dei disoccupati, dei sottoccupati, dei precari, di tutti gli
strati emarginati della società.
Si tratta cioè di un Profit State che assume in sé l’ “onere”
di un Welfare dei miserabili, abbandonando del tutto il dovere di protezione
sociale per tutti i cittadini, abbattendo ogni forma di universalismo dei diritti.