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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO

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James Petras
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Professore emerito, State University, New York

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Crisi del capitalismo statunitense o crisi salariale per i lavoratori dipendenti?
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Crisi del capitalismo statunitense o crisi salariale per i lavoratori dipendenti?

James Petras

Crisi del capitalismo o crisi del lavoro?

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1. Introduzione

Gli esperti di Wall Street, i progressisti, di sinistra, i radicali, per anni hanno parlato di un prossimo collasso, del declino e addirittura fine del capitalismo statunitense. Nessun aumento dei miliardari, dei milionari e dei multimilionari, nessun record negli utili della borsa né la crescita a due cifre dei profitti delle più importanti multinazionali riescono a convincerli a ripensare la loro profezia. Niente ha screditato la sinistra USA più delle sue apocalittiche visioni del Grande Crollo, nonostante si trovino di fronte ad una robusta crescita. Parlando di “lungo termine” o di un imprecisato periodo e dispiegando una litania rituale sulla profonda debolezza strutturale, le loro predizioni sono digerite e rigurgitate dai media progressisti, dai siti web e dai blog da dove vengono fornite ad un pubblico dubbioso. Mentre la Sinistra proclama “la crisi e la fine” del capitalismo statunitense, la maggior parte dei lavoratori si lamenta dei crescenti guadagni dei loro capi, dello sfruttamento sempre maggiore destinato alla crescita della produttività, dell’aumento delle ore lavorative giornaliere, della diminuzione dei giorni di ferie e delle festività, delle limitazioni ai permessi per malattia. Da troppi anni, per la Sinistra, l’unica possibilità di “risveglio” e di una svolta a sinistra dei lavoratori e della classe media è il “Collasso del Capitalismo” (COC1). In realtà questa ipotesi ha ignorato molti argomenti cruciali che voglio trattare. Il COC non è avvenuto perché il mondo degli affari, le banche e il governo hanno spostato sulle spalle dei lavoratori l’intero fardello di adeguare il capitalismo USA alle richieste del mercato. Quella che viene chiamata “Crisi del Capitalismo” in realtà è la “Crisi del Lavoro”, con questa espressione voglio intendere diverse cose: 1) il declino relativo e assoluto degli standard di vita -evidente dall’eliminazione di a) piani pensionistici aziendali e conseguente aumento di piani pensionistici pagati direttamente dal lavoratore; b) eliminazione o riduzione dell’assistenza sanitaria e aumento delle trattenute salariali per il pagamento della sanità, o anche perdita totale di ogni copertura sanitaria; c) raddoppio del costo dell’energia, della sanità, dell’istruzione e delle medicine, costi che non vengono calcolati nell’indice dei prezzi al consumo usato per stimare salario, assicurazione sociale e pagamenti delle pensioni e d) l’aumento di “restituzioni” da parte della sclerotica e strapagata (salari a sei cifre) classe dirigente sindacale che fa diminuire lo standard di vita e aumentare i profitti delle multinazionali. La deregolamentazione delle agenzie che dovrebbero occuparsi di ambiente di lavoro e della protezione dei consumatori, ha portato a problemi sui luoghi di lavoro e a perdite di entrate per i lavoratori, ma ha anche portato grandi profitti per gli azionisti delle multinazionali.

La tesi centrale di questo intervento è che il punto corretto da tener presente, per sperare in una rinascita del movimento radicale, è l’intensificazione e l’estensione dello sfruttamento del lavoro, dell’ambiente e dei consumatori da parte del capitale, che consente all’economia multinazionale statunitense di continuare a crescere e superare ogni flessione economica. Le predizioni di un collasso del capitale USA sono costruite su set di argomentazioni speciose, facilmente confutabili, ma che deviano la nostra attenzione da ciò che è veramente importante: l’unione della lotta nei posti di lavoro, sull’ambiente e tra i consumatori.

2. Miti sulla fine del “Capitalismo USA”

Per più di dieci anni sono circolati diversi argomenti a favore della tesi di un probabile collasso del capitalismo USA. Citiamone alcuni: 1. Deficit budgetario USA - annuale e cumulato 2. Deficit della bilancia commerciale USA 3. Natura speculativa dell’economia statunitense 4. Debolezza del dollaro USA 5. Crisi energetica - alto costo delle risorse energetiche (“Big Oil”) 6. “Insostenibilità” del modello statunitense 7. “Esportazione” all’estero di lavori specializzati

I sostenitori di un prossimo collasso hanno citato, insieme o separatamente, uno o più di questi argomenti che non sono così seri come ritengono i loro sostenitori. Mentre i profeti del COC continuavano a sostenere che la “crescita del deficit di budget” avrebbe portato ad una implosione dell’economia, i dati del 2006 indicano una diminuzione del deficit che è passato dal 3,2% del GDP previsto a febbraio al 2,3% di luglio di quest’anno, secondo l’ Office of Management and Budget degli Stati Uniti. Il motivo è che si prevede una crescita delle entrate da tassazione fino all’11% nell’arco dell’anno - grazie soprattutto ai possessori di capitale i cui profitti, salari, rendite e pagamenti di royalty da lavoro sono arrivati a livelli record. In altre parole, il deficit di budget sta diminuendo perché lo sfruttamento del lavoro si sta intensificando - si crea maggior ricchezza per i ricchi e, nonostante l’alto livello di tassazione, si è arrivati ad un incremento delle entrate da tassazione fino al 19% (Financial Times 12 luglio 2006 p.4). Le entrate da tassazione individuale sono aumentate del 15% grazie soprattutto ai profitti dei proprietari di piccole imprese che sono tassati con un codice individuale. Benché il deficit potrebbe aumentare dopo il 2006, il punto è che l’argomento chiave non è un collasso auto-indotto, ma l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro da parte della finanza. Nel frattempo, sono la concentrazione e la centralizzazione del capitale e non le robuste imposte sugli investimenti bancari a procedere sulla loro allegra strada: fusioni e acquisizioni hanno raggiunto, nella prima metà del 2006, 1.930 miliardi di dollari, una cifra record di affari miliardari. La forza trainante è la capacità dei capitalisti di tagliare i costi del lavoro, di ricollocarsi in zone a basso salario, l’alta liquidità e i bassi tassi di interesse. Le fusioni e le acquisizioni avvengono per mancanza di resistenza da parte dei sindacati nei confronti delle chiusure e delle richieste previste dalla dirigenza e tese all’aumento della produttività ed a maggiori profitti. E’ molto più difficile che si giunga ad acquisizioni lì dove i lavoratori hanno un ruolo nelle decisione dell’azienda e sono in grado di resistere ad accelerazioni nei ritmi di lavoro e tagli sui salari e le indennità. Senza dubbio tra un anno o due ci sarà un netto aumento di bancarotte dovute all’eccessivo indebitamento delle aziende coinvolte in acquisizioni speculative il cui ritorno economico non è tale da permettere di pagare il debito aziendale contratto nelle acquisizioni. Tutto questo sembra ricondurci alla litania dell’imminente “Collasso del Capitalismo” quando in realtà questa situazione serve solo ad arricchire i miliardari bancarottieri che guardano a questo processo come ad un’opportunità di investire in attività sottovalutate. Tradizionalmente i deficit di budget sono stati un argomento usato dai conservatori, soprattutto dai banchieri e dal FMI, per via della loro presunta tendenza a stimolare l’inflazione e svalutare la moneta, il risultato è la restituzione dei debiti con valuta svalutata. I keynesiani e la sinistra, d’altra parte, non si sono opposti ai deficit, soprattutto se finanziano l’occupazione ed aumentano i consumi di massa. L’unione di Sinistra e conservatori nell’indicare il deficit come un evento catastrofico, questo è anomalo e non in linea con la preoccupazione della Sinistra che chiede side economics. Il vero problema non è il deficit, ma il modo in cui il deficit è strutturato - basato su tagli alle tasse per i ricchi e spese per i lavori meno remunerati e i programmi militari ad alta tecnologia. L’uso del deficit spending per stimolare la crescita ha i suoi limiti, come è stato dimostrato alla fine degli anni ’30 (1936-1940 o prima del deficit spending del tempo di guerra). Comunque, pensare che la riduzione di un deficit che ha sostenuto la crescita USA beneficerà la Sinistra o eviterà una economia di flessione (recessione/depressione) non è altro che Voodoo Economics. La questione del deficit è per prima cosa una questione politica -quali classi finanzieranno il budget e quali beneficeranno degli investimenti statali e più in generale quale configurazione sociale eserciterà il controllo sul processo budgetario, sulle tasse e sugli investimenti. Insomma, finché le classi salariate accetteranno di sopportare tagli allo stato sociale, accetteranno la privatizzazione delle pensioni e della sanità, accetteranno gli investimenti (extra gettito) di energia e tempo per incrementare la produttività, il profitto e la crescita capitalista, il deficit sarà gestibile. Il deficit diventerà un problema quando la lotta di classe invertirà dal basso la distribuzione delle tasse e la distribuzione degli investimenti e abbasserà il tasso di sfruttamento (“produttività”). Un’altra scoperta della Sinistra - preceduta dai sapientoni monetaristi dell’estrema destra - è il deficit della bilancia commerciale. Per più di dieci anni gli Stati Uniti hanno avuto un deficit della “bilancia commerciale” senza che questo portasse ad alcun effetto negativo visibile, nonostante annuali predizioni apocalittiche da parte della sinistra. Molte sono le ragioni del fallimento di queste profezie. Per prima cosa il dollaro statunitense continua ad essere la principale valuta di riserve, malgrado i frequenti allarmi di abbandono. Fin tanto che gli USA saranno e continueranno ad essere considerati, da governi ed investitori stranieri, come il bastione più sicuro e più stabile del capitalismo, il dollaro e i Bond del Tesoro USA rimarranno l’ultima spiaggia della valuta. In secondo luogo, i paesi asiatici verso i quali gli Stati Uniti hanno il maggiore deficit commerciale, dipendono in modo particolare dalle vendite sul mercato USA e dimostrano da più di 15 anni la volontà di comprare e possedere dollari al fine di continuare il loro modello di crescita dinamica basato sulle esportazioni. Nonostante il declino del valore relativo del dollaro USA nei confronti dell’euro, nessun paese asiatico, tanto meno la Cina, ha rinunciato ai propri dollari. Al contrario, hanno aumentato le loro riserve di più di 300 miliardi di dollari USA negli ultimi 3 anni (2004-2006). Il fondamento logico di questo comportamento può essere compreso se guardiamo alle dinamiche di classe del modello di crescita cinese (CGM2). Il CGM si basa su un controllo altamente diseguale dei principali settori di esportazione. E’ proprio tra i miliardari cinesi, le multinazionali orientali e giapponesi, le aziende cinesi che le industrie esportatrici concentrano i maggiori capitali e i maggiori profitti, risultato del più selvaggio sfruttamento e delle più estreme disuguaglianze del mondo moderno. Il risultato è che la crescita della Cina e la perpetuazione e l’espansione delle classi dominanti dipende in primo luogo dalla salvaguardia dei mercati di esportazione, visto che il potere d’acquisto interno di 800 milioni di contadini, lavoratori e disoccupati cinesi è disperatamente basso. Il cambiamento del CGM richiederebbe una rivoluzione sociale fondata su ampi cambiamenti nel potere politico e sociale, necessari per riscuotere una tassazione progressiva dagli evasori miliardari e milionari, l’arresto di gran parte dei corrotti dirigenti pubblici e privati colpevoli di estorsioni e appropriazione indebita per arrivare ad una ridistribuzione della ricchezza, degli investimenti e della proprietà. L’elite cinese naturalmente preferisce continuare con il modello legato all’esportazione, restandosene comodamente seduta su una pila sempre crescente di dollari statunitensi. L’economia USA ovviamente ha un forte settore speculativo in continua crescita che ha prodotto beni sostanziali e un mercato azionario che potrebbe avere ed ha avuto un effetto negativo -ma non catastrofico- sui lavoratori statunitensi, sui piccoli investitori e sui futuri pensionati. La speculazione ha prodotto un’intera classe di cleptocrati aziendali dalla World Com e dalla ENRON in poi. Tuttavia ci sono molti problemi che riguardano i teorici delle “strade speculative verso il giorno del giudizio”. Prima di tutto l’economia USA non è speculativa. Gli Stati Uniti sono ancora i maggiori produttori ed esportatori di prodotti ad alta tecnologia. Negli ultimi 6 anni sono sempre stati in cima ai profitti produttivi tra i paesi a capitalismo avanzato. Guidano ancora le innovazioni misurate in numero di brevetti. Inoltre non c’è una forte e rapida distinzione tra capitale speculativo e capitale produttivo - sono intrecciati, il capitale si sposta da un settore all’altro a seconda del rischio minore e del profitto maggiore. La vera “crisi” non riguarda il capitale “speculativo” in sé, ma piuttosto come i movimenti di capitale colpiscono la classe lavoratrice o più precisamente il potere sociale dei lavoratori e la loro capacità di influenzare o controllare gli investimenti in modo da ridurre lo sfruttamento ed assicurare sicurezza e stabilità del lavoro. L’attività speculativa ha portato più volte a temporanee “crisi” negli ultimi 20 anni, senza che questo causasse il “collasso del capitalismo”; anzi in genere pregiudicando i fondi pensione dei lavoratori, causando problemi ai piccoli investitori e innescando bancarotte e interruzioni del lavoro. Ma il lavoro non ha giocato alcun ruolo, mentre il ricco sindacato CEO (quasi tutti i maggiori dirigenti sindacali ricevono salari che superano i 200.000 dollari oltre a gratifiche ed altri “benefits”) ha tenuto un bassissimo profilo nel cercare di attutire gli effetti sui lavoratori. Un’altra variante delle teorie del COC sulla “debolezza del dollaro” di solito vede l’aggiunta del “deficit della bilancia commerciale”. Il dollaro, negli ultimi 20 anni, si è andato indebolendo o rafforzando a seconda del salire e scendete dei tassi di interesse USA, degli eventi politici e della forza o debolezza dell’economia statunitense. Il dollaro debole ha tradizionalmente favorito gli esportatori USA ed ha prodotto surplus commerciali. Volere un dollaro più forte mentre si critica il deficit commerciale è assurdo. Il dollaro debole permettere agli USA di penetrare in mercati esportatori senza colpire la capacità di importazione di beni a basso prezzo (vestiti, scarpe e elettronica) da paesi in cui le multinazionali statunitensi più sfruttano il lavoro locale. Il “dollaro debole” è il risultato di tassi di interesse molto al di sotto dei livelli storici, il che permette ai consumatori USA di comprare a credito case, mobili e altri beni, sia essenziali sia superflui, cosa che con tassi diversi non potrebbero fare. Il “dollaro debole” obbliga i turisti statunitensi all’estero a spendere di più, fa aumentare i costi delle importazioni ma rende anche più competitive le merci made in USA all’interno del mercato nazionale, soprattutto per quanto riguarda le industrie che non dipendono da materie prime importate. Il vero problema del “dollaro debole” sta nel fatto che i capitalisti locali non investono su vasta scala, né a lungo termine e non aggiornano gli stabilimenti locali per aumentare la quota statunitense del mercato mondiale: hanno trasferito i proventi investendo in stabilimenti poco costosi all’estero, realizzando così maggiori profitti mentre in patria abbassano i costi del lavoro. In altre parole, la questione non è il “dollaro debole” in sé, ma il fatto che i vantaggi di un dollaro debole non vengano colti dalla classe capitalista, il problema è l’assenza di qualsiasi strategia di sinistra o progressista che potrebbe elaborare un’alternativa. La “crisi energetica” di solito viene vista in termini parziali: gli alti prezzi praticati da ‘Big Oil’, la mancanza di investimenti del governo nei trasporti pubblici e in carburanti alternativi non fossili, l’influenza dell’industria automobilistica, l’avidità degli sceicchi arabi e così via. Il deficit della bilancia commerciale viene in parte attribuito alle importazioni energetiche quando il dito non è puntato sullo sfruttamento del lavoro in Asia. Ovviamente i prezzi dell’energia hanno influito negativamente sui budget ed è probabile l’esaurimento delle riserve di combustibile fossile nei prossimi decenni. Ma parlare di “collasso del capitalismo” a causa dell’aumento dei costi energetici è un vero eccesso di menti ottuse. Per prima cosa, più della metà delle entrate provenienti dalla vendita di petrolio del Medio Oriente, Africa e molta parte di quello dell’America Latina, entrano nelle banche di Stati Uniti ed Europa, il che porta ad una enorme liquidità e ad enormi profitti. In secondo luogo, la maggior parte delle riserve straniere per scambi legati al petrolio e al gas, sono tenute in dollari USA o in euro in banche statunitensi o europee. La maggior parte delle vendite al dettaglio (che sono le più redditizie del ramo) avvengono attraverso aziende europee o statunitensi. In altre parole, il “deficit della bilancia commerciale” è bilanciato dalle bilance positive (o afflussi) dei profitti che passano negli Stati Uniti e nell’Unione Europea. Il problema vero è un problema di classe: come vengono determinati i prezzi e come vengono distribuiti i profitti della produzione di petrolio? Domanda e offerta sono solo un aspetto, come lo è il potenziale dei prezzi basati sulle priorità del governo, le politiche di investimento delle compagnie petrolifere e la configurazione degli Stati produttori. In Venezuela, i prezzi del petrolio sono parte dei prezzi del mercato mondiale; i profitti delle vendite all’estero vengono reinvestiti in programmi sociali per i poveri e i prezzi delle vendite estere sono stabiliti dal paese compratore e dai bisogni dei poveri. In Iran, il governo sta investendo in fonti energetiche alternative (nucleare). In altre parole se vediamo la crisi petrolifera come un fattore politico e di classe invece dell’inizio del “collasso del capitalismo”, possiamo iniziare a mettere in atto strategie che facciano abbassare i costi dell’energia per i consumatori e che portino ad investire in fonti energetiche alternative. La “insostenibilità del capitalismo USA” riunisce tutti gli argomenti citati in favore delle teorie del “collasso”. Oltre a sottovalutare le potenzialità delle nuove tecnologie e la possibilità di un’azione socio-politica, sostenendo il capitalismo a breve e medio termine, viene totalmente ignorato il fattore chiave: quello politico. Tutti i fattori citati come indebolimento della “sostenibilità” sono premesse al fattore più importante - che l’attuale configurazione del potere socio-politico sarà sempre sostenibile. In altre parole l’attuale classe capitalista dominante può sostenere e/o espandere le ingiustizie dell’attuale bilancio, il capitale statunitense può contare favorevolmente sulle elite esportatrici asiatiche (che riciclano dollari USA) per governare senza impedimenti da supersfruttamento, I rentiers del Medio Oriente non saranno colpiti dalla resistenza popolare delle guerre dell’occidente e dall’etnocidio israeliano. In altre parole i profeti del “collasso del capitalismo” assumono la “autodistruzione”del capitalismo sovrastimando la debolezza economica del sistema e sottostimando il grado in cui il sistema dipende dalla subordinazione e dallo sfruttamento USA (e europeo) delle classi lavoratrici e di milioni di contadini e lavoratori super sfruttati in Asia, in America Latina ed in Africa.

3. Capitalismo USA in crisi? Il capitalismo, soprattutto il capitalismo USA, non crollerà perché causa danni agli maggioranza degli statunitensi - in realtà i valori azionari crescono con i licenziamenti, le riduzioni dei salari e dei benefit. Né il capitalismo declinerà per una teoria generale; né secondo il volere degli storici che si rifanno ai passati “imperi”. Il capitalismo o qualunque altro modo di produzione può sopravvivere a molte “crisi” a meno che una nuova classe sia in grado di abbatterlo e sostituirlo con un altro sistema, magari il sistema socialista. Nel frattempo, oggi i meccanismi interni del capitalismo non sono bloccati né devono sostenere lavoratori, consumatori, cittadini che pagano le tasse che mostrino alcun segno di ribellione, tanto meno di organizzazione.

4. I fatti che si oppongono alla teoria del COC “Attualmente (luglio 2006) le aziende statunitensi continuano a vivere il periodo più lungo di crescita dei profitti” si legge sul Financial Times (5 luglio 2007). Per 12 quadrimestri consecutivi i profitti delle aziende USA sono cresciuti di almeno il 10%. La proiezione prevede che questa crescita continuerà per tutto il 2007. I profitti sostengono, non fanno crollare, il capitalismo. Profitti che raddoppiano per molti anni non sono indicatori del declino del capitalismo. Ciò che suggeriscono con forza è che le politiche corporative verso i salari dei lavoratori portano a profitti record. Significa che i burocrati sindacali impotenti ed inetti, facilitando ‘i passi indietro’ hanno permesso un modello di sfruttamento che consolida il capitalismo. Ben lontana da un mondo con il capitalismo al collasso, la storia recente ha registrato un forte aumento di miliardari e milionari, soprattutto nelle aree di boom commerciale, e alti guadagni. Tra il 2004 e il 2005, i milionari (e miliardari) in Africa sono aumentati di circa il 12%, in Medio Oriente e in America Latina del 10% e nell’area asiatica del Pacifico del 7% (FT, 21 giugno 2006). Nel sistema capitalista ci sono 8,7 milioni di milionari, un aumento del 6,5% dal 2004. I molto ricchi sono diventati ancora più ricchi, i loro capitali sono aumentati dell’8,5% nel 2005 raggiungendo i 33 trilioni di dollari (FT, 21 giugno 2006). Più dell’80% di questi milionari-miliardari sono in Nord America, Europa e Asia. La loro crescente ricchezza è il risultato della crescita del capitalismo - basata sul crescente sfruttamento del lavoro, delle materie prime e dell’ambiente. Le disuguaglianze delle entrate tra la classe dirigente capitalista USA e i lavoratori sono aumentate di 4 volte tra il 1990 e il 2004. Nel 1990 la paga media CEO in 367 grandi multinazionali, era 100 volte più alta di quella dei lavoratori; nel 2004 il rapporto è di circa 430 volte. E’ assolutamente chiaro che il problema fondamentale del capitalismo è nell’aumento delle disuguaglianze, dovute all’alto sfruttamento - il problema non è certo un “imminente collasso” o “declino”. Se la speculazione sta portando ad un eventuale collasso dell’economia USA, è difficile capire l’enorme numero di transazioni record, relative soprattutto a banche di investimento statunitensi (BI). Tra maggio 2005 e maggio 2006, tutti i cinque principali advisers finanziari coinvolti in fusioni e acquisizioni erano statunitensi (Goldman Sachs, JP Morgan, Citigoup, Morgan Stanley e Merill Lynch), lo stesso vale per la IB che ha predominato nel 2004-2005. Un simile modello di aumento del dominio finanziario statunitense è evidente esaminando le prime dieci banche di investimento in relazione ai global debt capital markets e ai global equity markets. Mentre alcuni si riferiscono a questo tipo di attività economica come “casino capitalism”, dimenticando che il banco non perde quasi mai, sono i giocatori, e non le banche a perdere. Questo significa che il banchiere del mondo, il capitale finanziario USA è nella posizione di ottenere gli affari più lucrosi in giro per il mondo, in un certo senso in modo parassitico, ma che certo non sta ad indicare un prossimo collasso. Il punto che deve essere sottolineato è che l’espansione dinamica del settore finanziario statunitense non è un segno di declino, ma di forte sfruttamento diretto e indiretto. Per esempio, le multinazionali consultano frequentemente le banche sulle strategie di acquisizioni, fusioni e vendite. Le banche consigliano tagli del costo del lavoro per rendere più vantaggiosa l’azienda e far crescere il valore delle azioni; poi le banche concedono prestiti per finanziare la transazione, l’indebitamento porterà a tagli dei salari. Le banche rastrellano centinaia di milioni di dollari in onorari per i loro consigli e “deal making” - premendo sulle aziende affinché siano i lavoratori a pagare. Il punto chiave non è se il capitale finanziario sia “vitale” o “sostenibile”, ma quali sono le relazioni tra capitale e lavoro o meglio, l’aumento dello sfruttamento che permette alla transazione di avvenire. Le industrie di beni di lusso sono in espansione, perché i profitti delle classi dominanti sono in espansione nei cinque continenti. Solo negli Stati Uniti, le vendite di beni di lusso hanno una crescita annuale del 12% (FT, 5 giugno 2006, p.3). Al contrario, il numero di lavoratori che godono di piani sanitari e pensionistici a carico delle aziende diminuiscono nella stessa percentuale ogni anno. La disuguaglianza è la grande forza motrice dell’accumulazione capitalista - una chiara conseguenza della crescita dei profitti basata sullo sfruttamento. La crescita dei profitti è un chiaro segno che il capitalismo è in espansione e non in declino, e che la realtà che si va delineando è quella del consolidamento e non del collasso. La stampa conservatrice lo ha ben capito - non gli apocalittici della sinistra. “Continua crescita dei profitti delle aziende statunitensi” scrive l’editoriale del FT del 10 giugno 2006. Il capitalismo statunitense sta vivendo un “livello di profitti senza precedenti come parte del prodotto interno lordo USA ... dal 7% del PIL ... a metà del 2001 al 12,2% all’inizio dell’anno (gennaio 2006) (FT 10 giugno 2006). In diretto contrasto e causa diretta dei crescenti profitti “le entrate medie per le famiglie USA sono diminuite del 3% dal 2000 al 2006, secondo il census bureau degli Stati Uniti” (ibid.) I profitti sono cresciuti del 123% negli ultimi 5 anni, saltando da 714,5 miliardi di dollari a 1,6 trilioni ... Inoltre i dati ufficiali mostrano che i profitti hanno superato il resto dell’economia. Nonostante i costi crescenti delle materie prime - petrolio, rame, zinco, nichel e ferro - i profitti crescono perché il costo del lavoro, che rappresenta il 70% delle spese aziendali, diminuisce a causa del sempre maggior sfruttamento di lavoratrici e lavoratori, di immigrati legali e illegali, diminuisce per tutti il salario. Wall Street riporta che Goldman, Sachs ha raddoppiato le entrate nel secondo quadrimestre del 2006 e le previsioni del 2006 dicono che le entrate per le banche di Wall Street arriveranno a 25 miliardi di dollari - il doppio del 2002 (FT, 5 giugno 2006, pag. 17). E’ ora di finirla di aspettare il “collasso (o il declino) del capitalismo”. Il punto vero è che l’abbassamento degli standard di vita e dei salari, il collasso dello stato sociale, il prolungamento della vita lavorativa e delle ore lavorate, l’accelerazione dei ritmi di lavoro, i frequenti licenziamenti e assunzioni di lavoratori, la tensione e l’insicurezza delle famiglie dei lavoratori accompagnano la forte crescita delle rendite.

5. Conclusioni Mentre il 91% dei lavoratori del settore privato USA non sono organizzati e sono totalmente soggetti agli ordini dei loro datori di lavoro, mentre il 9% dei lavoratori del settore privato USA organizzati nei sindacati sono guidati da burocrati con stipendi a sei cifre, specializzati nel cedere ai datori di lavoro i diritti dei lavoratori, schiavi del Partito Democratico filo affaristico, non c’è motivo di attendere nessun serio cambiamento dello status quo. Se dovesse accadere, come è possibile nel ciclo degli affari, che l’economia rallenti o vada in recessione e diminuiscano i margini di profitto, il capitalismo si limiterà ad una stretta ancora più forte sulla classe lavoratrice e sui salari, farà ricadere sui lavoratori la maggior parte dei costi, premerà su Democratici e Repubblicani per sovvenzioni Federali, riduzione delle tasse ecc. Soltanto se nuovi movimenti sociali e politici, dirigenti e attivisti smetteranno di chiacchierare di predizioni di un prossimo “collasso del capitalismo” e di un futuro “declino del sistema” ed inizieranno una seria ed approfondita analisi dello “Sporco Segreto” (Marx) e della fonte del “Benessere di tutte le nazioni” (Adam Smith), contro lo sfruttamento del lavoro e per la lotta di classe ci si potrà impadronire delle conoscenze dei fondamenti del capitalismo che porteranno al suo collasso e alla sua sostituzione.

Prof. alla State University, New York e alla Saint Mary di Halifax (Canada)

Dall’inglese Collapse of Capitalism

Dall’inglese Chinese growth model