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Enrico Maria Mastroddi
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Cultore materia alla cattedra di Sociologia Politica, Fac. Sc. Statistiche, Univ.”La Sapienza”

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L’introvabile sinistra diessina in una originale analisi di Mauro Fotia

Enrico Maria Mastroddi

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<<Ricerca valori la sinistra “senz’anima”>> titola il Messaggero del 20 Novembre 1999 nella pagina politica il giorno di apertura dell’incontro di Firenze sul “Riformismo del XXI secolo” tra i leader della sinistra europea e delle forze democratiche americane. Indubbiamente il titolo del noto quotidiano coglie con estrema chiarezza e comunica con grande incisività una sensazione piuttosto diffusa. E tale incisività assume un significato oltremodo marcato e simbolico a distanza di appena due giorni dall’abbandono della politica da parte di Nilde Iotti, “donna al servizio della Repubblica” [1] che ha rappresentato una delle figure più importanti della storia della sinistra italiana.

Sicché si può dire che sia stato proprio il bisogno di sicurezza concettuale programmatica che ha portato all’incontro di Firenze [2]. Ma ciò che viene da domandarsi è come e su quali basi la sinistra italiana abbia affrontato il confronto con i suoi interlocutori. Giacché costituisce un dubbio legittimo quello di coloro, primo tra tutti lo studioso Mauro Fotia, autore di un recente saggio dal titolo “Debole come una quercia. Il neoliberismo di sinistra”, Dedalo, Bari, 1999, che si domandano se la sinistra italiana, comprensiva di tante e variegate forze politiche, sia stata o meno pronta a cogliere finalmente l’occasione dell’incontro di Firenze - occasione comunque tardiva - per aprire un vero e proprio dibattito, ancor prima che con gli interlocutori internazionali e comunitari, all’interno dei suoi apparati direttivi e soprattutto della sua base. E ciò allo scopo di gettare le basi per una politica diretta a realizzare le attese nuove aperture alle domande che, insistenti, salgono dalla società.

Nell’analisi di quelle che dovrebbero essere le direttrici di tale dibattito, non si può prescindere dalla individuazione chiara e definita di quella che oggi viene denominata genericamente sinistra italiana. E all’uopo ciò che si impone è l’esigenza di ripercorrere in maniera analitica e disinibita il percorso attraverso cui la “sinistra italiana” è giunta a coincidere con la formazione dei Democratici di sinistra.

A tale proposito Fotia nel citato saggio offre un quadro molto interessante e complesso. Ancora una volta il politologo meridionale non perde l’occasione per offrire un valido modello di approccio empirico allo studio delle dinamiche che caratterizzano la vita del nostro Paese.

Partendo dal presupposto che l’avvio della formazione del nuovo Partito Democratico della Sinistra, poi Democratici di Sinistra, non ha assolutamente soddisfatto l’esigenza, successiva alla scomparsa del Pci, di ridefinizione delle categorie concettuali, di idee-forza e di valori, oltre che di linee strutturali ed organizzative, egli - si direbbe quasi per una profonda esigenza interiore - apre una ricca riflessione sulle cause e gli eventi che hanno portato la sinistra italiana a giungere alle soglie del terzo millennio priva di una sua specifica identità.

In primo luogo, emerge quale causa principale di tale peculiare stato di cose - spiega Fotia - il fatto che il Pci già da epoca piuttosto remota si è rivelato distratto rispetto al bisogno di rinnovamento e di risposta alle esigenze di progresso e modernizzazione della società. Sicché, nel momento in cui, all’indomani del collasso delle economie e dei regimi dell’Est, definita da molti come caduta del Comunismo, i leader comunisti si sono trovati impreparati. La loro preoccupazione preminente è stata quella di contestare e demolire il proprio passato, e con esso la propria identità. Senza tenere conto del fatto - continua Fotia - che le teorizzazioni del Pci, da Gramsci a Berlinguer, si erano da tempo già distanziate e differenziate per la loro originalità dalle esperienze sovietiche, e che pertanto il collasso dei regimi comunisti non avrebbe dovuto costituire per il Pci un avvenimento del quale sentirsi corresponsabili e comunque di cui vergognarsi.

E così, nel momento in cui, all’indomani della caduta dei regimi dell’Est, i comunisti italiani si sono trovati sotto i riflettori delle altre forze politiche e dell’opinione pubblica, stante la trascuratezza ormai consumata nella ridefinizione delle loro linee strutturali, di valori e categorie concettuali, si sono trovati come unica via d’uscita - uscita questa che si potrebbe definire di emergenza - quella di formare un nuovo partito, il Pds. Un partito che non ha saputo trovare altra soluzione di sopravvivenza che quella di arrivare ad esprimere sempre più “un modello riformista debole di palese stampo neoliberista”.

Ciò non ha portato - rileva Fotia - a risultati soddisfacenti. In quanto, per dirla con le recenti parole di Edgar Morin, si è pensato “solo ad introdurre qualche correttivo al capitalismo, quando il problema è decisamente un altro” [3].

Tale atteggiamento nei confronti del capitalismo diviene prevedibile già quando, a seguito della trasformazione del Pci in Pds, Pietro Ingrao, capo della corrente di sinistra del neonato Partito Democratico della Sinistra, decide di uscire dal partito, lasciando le sorti della nuova formazione nelle mani delle correnti di destra e del centro, i cui maggiori esponenti sono rispettivamente Giorgio Napolitano da una parte e Achille Occhetto, Massimo D’Alema e Antonio Bassolino dall’altra. Il primo, infatti, con i suoi seguaci sottolinea “la necessità di un raccordo fra capitalismo e democrazia ed afferma che la posta in gioco storica di tutte le forze di sinistra dev’essere il controllo sociale del primo al fine di eliminarne i difetti”. I secondi “vedono la democrazia come una condizione storica nella quale gli interessi ed i conflitti economici e sociali si organizzano liberamente” [4].

E laddove dimenticare Berlinguer è divenuto un imperativo categorico, le pratiche trasformistiche hanno continuato a consolidarsi senza soluzione di continuità. Così da una parte il Pds/Ds ha sposato in pieno il pensiero neoliberista, dall’altra le pratiche trasformistiche hanno reso sempre più sfumato il discrimine tra gli schieramenti.

Sono queste le principali direttrici sulle quali si snoda l’analisi dello studioso dell’Ateneo romano “La Sapienza”. Indubbiamente il suo saggio ha il merito di segnare una tappa molto importante nella comprensione sia delle problematiche strettamente riguardanti i Democratici di sinistra, sia più in generale dell’attuale fase socio-politica che sta affrontando il nostro Paese. Gli stimoli e gli interrogativi che vengono suscitati dalla lettura del saggio sono molteplici, così come molteplici sono i problemi scaturiti dall’attuale stato delle cose. Sicché, al di là di ogni sorta di pregiudizio, gli spunti che si traggono dalla sua lettura abbracciano diversi aspetti di sicuro interesse. E ciò in quanto il metodo scientifico seguito dal politologo meridionale è attento a non trascurare nessuno dei fattori fondanti delle dinamiche che sono sottoposte all’esame.

Sulla base di queste premesse - è bene ribadire - i problemi e le perplessità che scaturiscono dalla analisi di Fotia non sono pochi. E non potrebbe essere altrimenti. Dopotutto, ogni volta che un intellettuale di un certo rilievo si assume finalmente, e soprattutto pubblicamente, la responsabilità di rompere il silenzio, non può non scontrarsi con una complessità di situazioni che a volte può risultare sconcertante.

In primo luogo, viene da domandarsi cosa distingua ormai maggioranza di centro-sinistra da opposizione di centro-destra.

La risposta a tale interrogativo si può considerare semplice e allo stesso tempo difficile. Basti pensare che a Firenze si sono incontrati i tanti socialismi europei con gli esponenti di sinistra americani. Vale a dire si sono collocati, almeno negli intenti, sotto un’unica stella le sinistre dell’Europa continentale, la sinistra laburista di Tony Blair e la cosiddetta sinistra di Bill Clinton. E tale circostanza appare prima facie piuttosto normale.

Ma il fatto singolare è che forse sarebbe stato più congeniale al leader americano, per lo meno a giudicare dalle dichiarazioni rese nel corso dell’incontro di cui parliamo, incontrare Silvio Berlusconi, capo di un movimento il cui bagaglio ideologico dichiaratamente di destra è sembrato assai più vicino a quello del Presidente degli Stati Uniti di quanto non avrebbe dovuto apparire quello degli esponenti dei Ds. Eppure Clinton si è incontrato con i rappresentanti delle sinistre dell’Europa continentale, per cercare con loro un’improbabile <<terza Via>>.

E’ certo che le differenze sia di presupposti che di linee programmatiche sono emerse, e senza dubbio nessuno ha cercato di nasconderle. Però è anche certo che il forte modello neoliberista statunitense viene percepito dai molti presenti all’incontro di Firenze, soprattutto nella quotidianità delle politiche nazionali, come un punto cui approdare, seppure progressivamente.

Davvero, quindi, non è facile scegliere per l’elettore italiano. Ma il problema derivante dall’attuale stato di cose non coinvolge solamente il problema della scelta elettorale. Implica anche, ed anzi in primo luogo, un interrogativo sulle sorti della sinistra italiana, e più in generale del sistema partitico, nonché un interrogativo sulle sorti dell’intero Paese.

Quanto al futuro della sinistra italiana e più in particolare dei Ds, risulta imprescindibile per essi - e Fotia si rende primo potavoce di tale necessità - una profonda pratica introspettiva. Infatti, osserva il noto studioso, “pur dopo intense, estenuanti negoziazioni, il partito post-comunista italiano non sembra essere approdato a risultati convincenti o comunque in grado di sbloccare le sue tante ansie e incertezze. Alla ricerca di un nuovo polo liberal-socialista che fuoriesca dalla tradizione comunista, non riesce a trovarlo; e perciò, da una parte dà l’impressione d’aver concluso che esso semplicemente non esiste, che è un luogo geometrico astratto, un’escogitazione strumentale, e che quindi importante rimane solo l’impegno sui programmi concreti per la trasformazione della società italiana; dall’altra, sembra ancora cercarlo” [5].

Tale analisi introspettiva è necessaria in quanto ad oggi i Ds non hanno mostrato la capacità di prospettare, nell’ottica di un processo costituente di una nuova sinistra nel Paese e di un nuovo grande partito socialista di tipo europeo, una reale ristrutturazione della società e dello Stato per la riforma forte del capitalismo. Ed in più nel quadro di un’economia globalizzata che dimostra di livellare i livelli salariali sempre più verso il basso, portando a nuove emarginazioni sociali e diffondendo a dismisura la massa dei disoccupati [6].

L’analisi di Fotia ad un certo punto sembra auspicare l’apertura di una fase di maggiore coinvolgimento nella riflessione di altri intellettuali. Per questo risulta attenta a contestualizzare in ambito comunitario ed internazionale le problematiche che coinvolgono i Ds. E di conseguenza, a valutare le reali peculiarità delle sinistre d’oltre confine, ponendo quindi in evidenza anche le strumentali e variegate interpretazioni che di queste ultime danno gli esponenti dei Democratici di sinistra. Come se, per rafforzarsi, si debba arrivare a giustificare le proprie posizioni, mostrando che anche negli altri Paesi le posizioni vincenti siano analoghe alle proprie.

Esempio emblematico di tale atteggiamento sono le posizioni assunte da Veltroni e D’Alema nei confronti delle politiche e dei successi di Blair. Il primo infatti ha sostenuto che “la vittoria di Blair è l’ennesima conferma della validità dell’esperienza dell’Ulivo, al cui progetto politico il leader inglese si sarebbe ispirato”, il secondo invece “pensa che se Blair abbia vinto perché è riuscito a far capire all’elettorato inglese che una sinistra può cambiare radicalmente , aprendosi ai ceti moderati, senza perdere la sua identità” [7].

Senza entrare nel merito di tali valutazioni in ordine alle politiche e ai successi di Blair, ciò che viene spontaneo domandarsi è se l’attenzione mostrata nei confronti dei leader d’oltre confine, e soprattutto la contesa che continuamente si instaura in seno ai Ds per apparire il più possibile assimilabili agli altri leader vincenti, non sia già di per sé sintomo di debolezza ed insicurezza. Così come sintomo di insicurezza potrebbe rivelarsi la costante ricerca di analogie e somiglianze solo ed esclusivamente con quelli che appaiono i Paesi più “sviluppati”.

E’ certo che nell’ipotesi in cui si debba dare a tali interrogativi una risposta affermativa, le grandi occasioni come l’incontro di Firenze, non possono non apparire sedi in cui “cerca valori la sinistra senz’anima”. Vale a dire circostanze in cui la sinistra italiana, anziché andare a costruire spazi per la cooperazione con gli altri Paesi, va in avanscoperta alla ricerca della propria identità.

Dopo aver sentito D’Alema accomunare sotto l’area democratica di centrosinistra idee scaturenti da esperienze come la democratico-liberale, la cattolico-cristiana, l’ambientalista e la socialista [8], qualche dubbio è legittimo. Così come legittimo è il dubbio di coloro che non sono più sicuri delle accezioni da offrire alla formule “seconda Repubblica”, “riformismo” e “sistema maggioritario”, imposte più o meno di recente nel vocabolario della politica italiana con significati ambigui e sempre mutevoli.

E sulla parola “trasformismo” le idee sono più chiare? Indubbiamente sì! I Ds, secondo Fotia, hanno superato nel merito il giolittismo ed il doroteismo che ne fu la prosecuzione.

A parte ciò, comunque è interessante notare come la grande attenzione mostrata dagli esponenti dei Ds verso le altre socialdemocrazie europee non possa ritenersi molto proficua. Giacché, a giudizio di Fotia, in Europa la situazione non cambia.

Il suo lavoro infatti analizza i tre modelli di socialdemocrazia europea: l’inglese, il francese e il tedesco. E dalla sua analisi emerge come la crisi di identità che caratterizza i Ds sia comune alle altre formazioni socialdemocratiche presenti in Europa.

Sono questi, infatti, modelli che seppure provenienti da esperienze differenti e dotati ognuno di aspetti peculiari, risultano accomunati dall’essere portatori (con qualche eccezione forse per quello francese di Jospin) di un progetto riformista debole e di palese stampo neoliberista. E ciò perché il neoliberismo è stato eretto ormai a modello culturale che, travalicando i confini che sono propri della scienza economica, è entrato in poco tempo nei circuiti delle scienze giuridiche, della politologia, della sociologia ed infine della filosofia morale e politica, stravolgendo ogni fondamentale visione autenticamente ispirata ad un umanesimo sociale.

A questo proposito, è utile non poco richiamare l’attenzione su un altro saggio di Fotia dedicato a “Il Neoliberismo in Italia” [9]. Questo unitamente a “Debole come un quercia”, compone un quadro completo ed approfondito.

Partendo dal presupposto che gli attori principali sulla scena economica, politica e sociale, sono i singoli individui, la dottrina neoliberista individua nello scambio effettuato in condizioni di libertà - e quindi nel libero mercato - la chiave di volta per il raggiungimento dell’efficienza economica e della soddisfazione equanime degli interessi di tutti i componenti della collettività. La razionalità, che è propria sia dell’homo oeconomicus che dell’homo politicus, nonchè la propensione ostinata, ma non prevaricatoria verso l’utilità individuale, quali unici criteri di selezione degli scambi di tutti gli individui garantiscono, infatti, equilibrio al mercato, offrono cioè a tutti i soggetti l’opportunità di appagare i propri bisogni nel rispetto delle esigenze altrui e della collettività.

Ma su questi assiomi Fotia manifesta notevoli perplessità. Egli infatti sostiene che la funzione equilibratrice ed unificante del sistema esercitata dal mercato, alla quale aspirano i teorici neoliberisti, è destinata a fallire sia a livello micro che a livello macroeconomico. A livello microeconomico sia perché <<la ricerca individuale della propria utilità porta all’affermazione prevaricatoria dell’io>>, sia ancora perché <<molti degli scambi individuali non sono paritari ma sono dominati da uno scambista>>, sia infine perché rimane tutta da dimostrare la capacità dei singoli individui di agire razionalmente (la irrazionalità delle scelte individuali, rileva Fotia, è dovuta in primo luogo alla mancanza di informazioni chiare ed affidabili). A livello macroeconomico, poi, innanzitutto perché il libero mercato a tutto soggiace fuorché alla regola della concorrenza, ed in secondo luogo perché, come dimostrano i modelli del free rider e del dilemma del prigioniero, sono moltissimi i problemi riguardanti il rapporto tra il principio della razionalità e la capacità di coordinare le azioni degli individui all’interno della società [10].

Sicché, l’apporto della dottrina neoliberista non produce
 per Fotia - gli effetti sperati. E tanto sia a causa dei limiti intrinseci propri di tale dottrina, sia a causa dell’atteggiamento che nei confronti di essa assumono i post-comunisti.

Così, in contrapposizione al modello patrocinato dall’inglese Anthony Giddens, ispiratore di Tony Blair che guarda a quello statunitense come all’unico modello cui l’Europa può aspirare, si pone il modello proposto da Fotia, in particolare nelle dense pagine dedicate al progetto sociale e a quello politico nel quale dovrebbero impegnarsi i Ds. Naturalmente per approdare a quella che Fotia definisce “riforma forte del capitalismo”.

Torna quindi ad imporsi l’interrogativo: ”Riuscirà possibile ai Ds realizzare, oltre alla regolazione tecnica dei processi produttivi, l’effettivo dominio dei fenomeni sociali derivanti da tali processi, sì da determinare un minimo irrinunciabile di riforme capaci finalmente di condurre al riequilibrio delle due aree territoriali del Paese, ad una vera ridistribuzione dei redditi, al miglioramento sostanziale della qualità della vita?” [11].

A questo proposito non sono pochi coloro che rimangono smarriti proprio negli ambienti della sinistra. Per questo, afferma Fotia, ciò che si impone è innanzitutto una revisione radicale del bagaglio culturale della sinistra stessa.

E’ importante però a questo punto domandarsi se questo lavoro di revisione che dovrebbe portare i Ds a proporre qualcosa di più di una politica di riformismo debole subalterno alle teorie neoliberiste, ormai che il neoliberismo sembra eretto a modello culturale unico, sia ancora possibile.

E’ possibile ma è impresa ardua. Per questo Fotia, in un capitolo dedicato appunto al dilemma “Neo-riformismo o riforma forte del capitalismo?, auspica in primo luogo la presa di coscienza dei limiti che sono propri della dottrina neoliberista, ed in secondo luogo che venga effettivamente intrapreso un coraggioso cammino in controtendenza.

Certo, rileva il nostro studioso, su tale questione da parte dei Ds è palese una pesante caduta di impegno.

Fotia comunque è molto attento a non minimizzare i termini del problema relativo alle impostazioni del pensiero neoliberista, non escludendo a priori un assetto radicalmente nuovo dell’economia capitalistica, in qualche misura rispondente alle esigenze di giustizia sociale dell’uomo contemporaneo.

“Dal mercato - si legge in “Debole come una quercia” - vengono lezioni di efficienza che sarebbe sciocco sottovalutare. I suoi sostenitori hanno buone ragioni quando insistono nel sottolinearle (...). Ma esagerano quando presumono di poterle fornire a scatola chiusa: prendere o lasciare” [12].

In conclusione, l’analisi condotta dal nostro politologo mostra grande modernità di prospettive, uscendo fuori dai tradizionali schemi di analisi.


[1] Giorgio Frasca Pollara, “l’Unità” 19.11.1999.

[2] Gian Enrico Rusconi, “La Stampa” 19.11.1999.

[3] Intervista concessa a Roberto Zuccolini, “La Stampa”, 22.11.1999.

[4] Debole come una quercia, o.c., pp. 19-20.

[5] Debole come una quercia, o.c. p. 291.

[6] Debole come una quercia, o.c. p. 296.

[7] Debole come una quercia, o.c. p. 132.

[8] Intervista concessa a Luigi La Spina, “La Stampa” 18.11.1999

[9] Mauro Fotia e Antonio Pilieri, Il Neoliberismo in Italia, verso nuove forme della società e dello Stato, Città Nuova, Roma, III ed., 1998.

[10] Il neoliberismo, o.c. pp. 56 e segg.

[11] Debole come una quercia, o.c. p. 296.

[12] Debole come una quercia, o.c. p. 207.