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Un Trattato accademico per un’altra Accademia

ADALGISO AMENDOLA

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1. Senza sguardi “da nessun luogo” Può accadere che, nonostante l’attuale parcellizzazione imposta ai corsi universitari dall’importazione del famigerato sistema dei “crediti” e il clima generale di ultraspecializzazione dei saperi che si respira in Accademia, qualcuno decida di scrivere un ampio Trattato destinato, come sua prima funzione, all’uso degli studenti. Già solo per questo motivo, l’impresa di Luciano Vasapollo, con il suo Trattato di economia applicata. Analisi critica della mondializzazione capitalista va salutata con gli onori dovuti ad un gesto che, nelle presenti circostanze, suona decisamente “inattuale”. Vasapollo dichiara immediatamente la sua fiducia in un metodo di analisi del presente che, prendendo come bussola ideale e scientifica la critica dell’economia politica di Marx, indaghi il processo di mondializzazione capitalista facendo ricorso a tutte le risorse dell’interdisciplinarietà e della multidisciplinarietà, sfidando la tentazione della teoria economica mainstream a rinchiudersi in “una visione economica appiattita sull’univocità mercatocentrica”: l’apertura interdisciplinare deve essere anzi assunta coma “principio della nostra funzione docente”. E il Trattato è senza dubbio, in prima battuta, un’opera a destinazione accademica, ma di un accademico che conosce la necessità di opporsi, non a parole ma nel corpo vivente della propria produzione scientifica, alla sterile concezione rigida delle partizioni disciplinari, del resto essa stessa mai neutra, ma perfettamente corrispondente all’ideologismo tecnocratico imperante e all’esigenza di controllare e “addestrare” gli studenti alle esigenze delle strategie dominanti. Questa ben motivata fiducia nelle potenzialità della cultura di base rende il lavoro di Vasapollo una lettura assai proficua, anche per chi nella vita si occupa di altro. La sua analisi della mondializzazione mi sembra, per esempio, un contributo rilevante anche per chi, come me, è abituato ad affrontare il tema della globalizzazione dal punto di vista del giurista: anche se, come dirò in conclusione, la diversa formazione scientifica e l’attitudine a privilegiare un punto di osservazione differente possono produrre letture divergenti di certi aspetti fondamentali delle trasformazioni contemporanee o dubbi sull’uso di alcuni concetti fondamentali. La sensibilità interdisciplinare, comunque, si riafferma, anche grazie a sforzi come questo di Vasapollo, come una chiave imprescindibile per affrontare le trasformazioni globali, che mettono a dura prova la resistenza dei lessici e delle categorie fondamentali delle singole discipline scientifiche. Il secondo grande merito di questo Trattato, se letto come opera a destinazione accademica, è l’idea di rigore scientifico di cui è portatore. Il rigore, qui, sta nel dichiarare apertamente la propria scelta di campo, la propria appartenenza ad una tradizione di ricerca e a un preciso mondo politico e culturale: senza che però questo significhi confondere l’impresa scientifica con la produzione di manifesti ideologici ad uso immediato della lotta politica contingente. Questa potrà trovare nel discorso scientifico le sue migliori armi: ma solo a patto che quest’ultimo non rinunci al proprio dovere di chiarezza e di serietà metodologica. Vasapollo non crede, evidentemente, ad un’asettica avalutatività della scienza economica, dietro la quale si nasconde quasi sempre l’ideologismo al quadrato di chi cerca di presentarsi depurato da ogni valutazione ideologica, al solo fine di millantare come indiscutibilmente oggettivi i propri giudizi. Ma se l’avalutatività si è trasformata troppo spesso, per le scienze sociali, in una comoda scusa per la propria irresponsabilità sociale, per costruire un proprio status di superiore insindacabilità, questo non significa che non si possa essere, al tempo stesso, rigorosi scienziati sociali e critici del proprio presente: l’onestà del ricercatore consiste appunto nel dichiarare apertamente e chiaramente i propri presupposti di partenza, senza fingere di possedere un misterioso sguardo “da nessun luogo”. E il luogo, il punto di vista parziale apertamente assunto da Vasapollo, è quello della critica dell’economia politica. Questa netta scelta di campo, però, non toglie al Trattato la capacità di dialogare proficuamente con tutti coloro che, pur condividendo una generale attitudine critica verso la mondializzazione capitalista, muovono da riferimenti e impostazioni divergenti e, a volte, anche opposti: non a caso, il Trattato si propone anche di “dare una panoramica sintetica dei diversi punti di vista ‘contro’, cioè di quelle prospettive che non hanno la nostra visione marxista dei problemi economico-sociali, ma condividono l’analisi di controtendenza rispetto ai progetti del capitale” (p. XXIX). Si tratta di un’attitudine dialogante, pur senza essere banalmente ecumenica, che va accolta come una lezione non solo di eleganza, ma anche di intelligenza politica, nel momento in cui, tra i cosiddetti “critici” della globalizzazione, rischia spesso di prevalere la tentazione di ricadere nel settarismo teorico e nella sterile autorappresentazione di se stessi. Vasapollo, pur fedele alla sua lettura della critica dell’economia politica, non trascura il confronto con i punti di vista “critici” altri dal suo, e così facendo, offre un esempio di attitudine “ricompositiva” che non dovrebbe essere lasciato cadere.

2. Un gesto classico e profondamente umanista Sono due gli aggettivi che mi vengono in mente per definire il modo in cui Vasapollo presenta le possibilità di attualizzare la critica dell’economia politica marxiana, sino a farne la guida non solo per l’analisi economica ad alto livello di generalizzazione, ma anche per l’economia applicata: si tratta di un gesto teorico classico e profondamente umanista. In primo luogo, il Trattato sembra quasi una risposta all’appello che un economista liberale intelligente e profondo come Sylos Labini ebbe a lanciare poco tempo prima della sua morte: Torniamo ai classici!. La critica dell’economia politica marxiana è assunta appunto come metodo logico-storico, che cresce sulle spalle dei classici, accogliendo l’equazione valore-lavoro scoperta da Smith e Ricardo, ma, al contempo, rivelandone il carattere feticistico (p. 37), cosa che l’economia politica classica si era ben guardata dal fare. Contro il confuso - ma ideologicamente funzionale al mantenimento delle attuali relazioni di potere - mainstream economico caratterizzato dalla sintesi “neoclassica-keynesiano-marginalista”, autentico obiettivo polemico dell’intero Trattato, il “ritorno ai classici” è accettato da Vasapollo come un opportuno invito all’eterodossia (p. 25): ma al contempo, la critica dell’economia politica di Marx non può essere astrattamente separata, come pretenderebbe Sylos Labini, dal “progetto rivoluzionario”. La portata rivoluzionaria del marxismo non va scoperta, però, in un Marx “altro” dal critico dell’economia politica: lo stretto nesso che si istituisce tra teoria e prassi abita, infatti, il centro della sua critica. Ed è costituito precisamente dalla profonda portata umanistica del suo pensiero: ma non un Marx umanista opposto all’economista, come in certe abitudini del marxismo “idealistico” e storicistico italiano, quanto piuttosto una riscoperta dell’umanesimo insito nello stesso metodo logico-storico della critica dell’economia politica. La critica dell’economia politica è critica dell’errore, limite cruciale dell’economia politica classica, di ridurre l’economia politica alla produzione senza i rapporti di produzione (p.XXVIII): da cui, le fondamenali mistificazioni dell’economia classica. La prima, appunto, è quella insita nella scelta dell’oggetto: l’indagine della produzione si separa dallo studio dei rapporti degli uomini nella produzione, sicché la teoria economica finisce per disincarnarsi completamente, per astrarsi dalle concrete vicende, dai conflitti e dalle lotte che si generano intorno all’appropriazione del lavoro umano e dei suoi prodotti ; la seconda è quella che pretende di presentare una precisa formazione economico-sociale, storicamente determinata (il capitalismo), come l’economia e la società tout court. Assumere la critica dell’economia politica come metodo logico-storico significa demistificare la pretesa dell’economia classica di presentare come dati naturali, invarianti iscritte nel destino della specie quelle che sono istituzioni storicamente determinate, e perciò stesso storicamente trasformabili. In questo senso, la critica dell’economia politica è, come dicevamo, profondo umanismo. Riaffermare, come fa Vasapollo, la teoria del valore come asse portante del discorso critico, significa, al di là dei risultati scientifici cui può portare nell’impostazione delle questioni di economia applicata, trovare un punto sul quale far leva per criticare questo processo di naturalizzazione della scienza economica. Non a caso, le teorie neoclassiche fondano sulla rinuncia alla teoria del valore la loro trasformazione - feticistica - del mercato concorrenziale perfetto in misura (destoricizzata e delocalizzata) dell’azione umana in generale: “La rinuncia da parte del pensiero neoclassico alla teoria del valore costituisce un importante arretramento. Fino a quando l’economia fu concepita come ambito di riproduzione della vita umana, la teoria del valore apparve adeguata per tale analisi, ma quando l’economia come scienza borghese divenne amministrazione della scarsità questo elemento sparì” (p. 5). Difendere la teoria valore-lavoro significa, allora, in ultima analisi, ribadire che la teoria economica è e non può non essere “figlia della ragione riproduttiva in funzione della vita umana” (p. 6), e che più in generale, la razionalità economica non può che continuamente radicarsi nella razionalità sociale. Ribadire la capacità della teoria del valore nel fornire un quadro interpretativo per l’analisi del presente significa, per Vasapollo, rimettere al centro l’economia come riproduzione della vita contro la forza ideologica della rappresentazioni astratte dell’equilibrio economico, finalizzate a nascondere la centralità della vita umana nei processi economici, e a rappresentare questi ultimi come rapporti non più tra uomini ma tra merci, dimenticando le lotte e i conflitti che la produzione di queste ultime comporta: “l’individualità dell’uomo non è funzionale alla dottrina capitalista, che è da sempre portata a considerare le cose semplicemente in base al loro valore di scambio come forza-lavoro” (p. 4)

3. Il postfordismo: la conoscenza oggettivata nella macchina? Così, armato della ribadita centralità della teoria del valore, Vasapollo può procedere all’interpretazione delle vicende principali dell’economia globalizzata. In conclusione mi soffermerò sul quadro generale della sua interpretazione della globalizzazione, ma prima va ricordato come il Trattato contenga pagine importanti, e meritevoli di essere criticamente discusse, come quelle, per esempio, in cui si interpreta la trasformazione postfordista e il passaggio dall’accumulazione materiale all’accumulazione sul capitale immateriale come un passaggio ad una fabbrica sociale generalizzata, il cui funzionamento però non smentirebbe né la le tesi marxiane sulla costante proletarizzazione in seno alla società capitalista, né, ovviamente, la capacità esplicativa della teoria del valore-lavoro. Pagine che fanno riflettere sulla frettolosa liquidazione del lavoro negli slogan neoliberali sulla fine del lavoro, così come su una forse troppo euforica fiducia che, anche in settori non neoliberali, si è nutrita sulle capacità liberatorie del capitalismo della conoscenza e sulle potenzialità della trasformazione postfordista di condurre, quasi per una sua logica interna, allo scardinamento del sistema capitalistico. Vasapollo ribadisce che anche il capitalismo cognitivo e l’economia della conoscenza conoscono i meccanismi di sfruttamento propri del sistema capitalistico, e che anche i lavoratori “cognitivi” si trovano a dover vendere forza lavoro ai capitalisti: il che produce una precarizzazione generale del vivere sociale, che avvicina obiettivamente figure diverse di lavoratori (i flessibili, i precari, i finti “autonomi”, gli atipici), accomunandole in uno stesso ambito di generica subalternità. Questo punto di vista “continuista”, per cui il postfordismo, pur comportando notevoli trasformazioni nelle modalità di produzione, confermerebbe l’utilità delle categorie fondamentali della critica dell’economia politica, non può essere facilmente liquidato come “ortodossia marxista”, incapace di cogliere il nuovo della trasformazione: mostrare come i meccanismi di sfruttamento funzionino anche in piena epoca postfordista è un avvertimento indispensabile, specie in tempi in cui la proletarizzazione dei ceti medi, o, comunque, la divaricazione di questi ultimi in una piccola aristocrazia di privilegiati della conoscenza e in un sempre più largo numero di “proletarizzati intellettuali”, ha posto fine ad ogni euforia sui destini radiosi delle nuove classi “creative”. Forse, un effettivo “eccesso di continuismo” andrebbe discusso lì dove Vasapollo non si limita a ribadire il funzionamento, anche nel postfordismo, dei concetti marxiani di valorizzazione e di accumulazione, ma sembra trascurare alcuni elementi di slittamento interni al funzionamento di quelle stesse categorie. Per esempio: il nuovo paradigma dell’accumulazione flessibile è spiegato, in sostanza, attraverso la capacità del capitale di “oggettivare la conoscenza nel capitale fisso”. Il capitale valorizza, insomma, la nuova centralità delle risorse immateriali, trasformandole in “macchina”, e così consentendosi maggiori ambiti di profitto (p.389). Forse qui, un più diretto confronto con le tesi di ascendenza post-operaista sullo sviluppo del general intellect avrebbe potuto individuare qualche problema in più in questa lineare interpretazione della crescita della conoscenza immateriale come sviluppo del capitale fisso. Nel postfordismo, più che alla trasformazione della conoscenza in “macchina”, si assiste probabilmente allo sfumare della differenza stessa tra macchina e lavoro, o, più esattamente, tra lavoro morto, incorporato nelle macchine, e lavoro vivo, incorporato nella forza lavoro. La stessa distinzione fra capitale fisso e capitale variabile andrebbe quindi superata, giacché essi finiscono per confondersi ed insediarsi ambedue nel corpo vivo della forza lavoro (cfr., di recente, l’approccio di A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Carocci, Roma 2007, e le precedenti considerazioni di Christian Marazzi, per esempio in Capitalismo digitale e modello antropogenetico del lavoro. L’ammortamento del corpo macchina, in J.L. Laville, C. Marazzi. M. La Rosa. F. Chicchi, Reinventare il lavoro, Sapere 2000, Roma 2005.) Con la conseguenza che le funzioni di controllo non sarebbero tanto “progressivamente incorporate nelle macchine”, come scrive Vasapollo (p. 390), ma piuttosto diffuse sull’intero corpo vivente della popolazione, attraverso processi di soggettivazione complessi, in cui diventano assolutamente centrali i momenti della formazione, dell’apprendimento, del controllo sociale “biopolitico” generalizzato, rispetto ai classici luoghi del controllo di fabbrica o aziendale.

4. La globalizzazione: nuova tappa del capitalismo o salto di paradigma? Dal mio punto di vista particolare di giurista, però, è particolarmente interessante interrogare l’interpretazione generale che Vasapollo presenta della mondializzazione capitalista. Anche questa può essere definita un’interpretazione continuista, nel senso che la globalizzazione è riportata a un processo di internazionalizzazione del capitale, esso stesso letto, a sua volta, come un portato essenziale del capitalismo. Il processo di globalizzazione viene così inscritto nella storia dello sviluppo capitalistico: “la globalizzazione, in un primo avvicinamento alla sua interpretazione, non è più che lo svolgimento di una tappa qualitativamente nuova e superiore nello sviluppo dell’internazionalizzazione del capitale, che, sebbene non presupponga la manifestazione di una nuova fase di sviluppo del modo di produzione capitalista, va valutata come una nuova tappa nel processo di espansione internazionale, in particolare del capitale finanziario” (p. 367). Considerata come processo, la globalizzazione è, quindi, “il culmine della dinamica storica di espansione del capitalismo” e conferma le leggi di espansione di quest’ultimo: la centralizzazione, l’accumulazione esterna, la concentrazione del capitale, l’accumulazione interna (p. 378). La globalizzazione è, in definitiva, uno stadio, secondo un’interpretazione che riafferma in toto la validità della categoria di “imperialismo”, di quell’attitudine appropriativa (e, per dirla più onestamente, predatoria) che ha caratterizzato il capitalismo occidentale sin dalle sue origini. Ora, questo continuismo (la globalizzazione come esito di un processo già insito nel sorgere del capitale, e non come un effettivo “cambio” di paradigma), osservato dal punto di vista del giurista, presenta diversi problemi. Se, infatti, concentriamo l’attenzione sugli aspetti giuridico-politici della globalizzazione (che non credo che Vasapollo derubricherebbe a mere sovrastrutture), è innegabile che un certo “salto” nella concezione dell’ordine sociale, che una certa discontinuità nell’esperienza poltica moderna, si produce proprio in seguito ai processi di globalizzazione. Certo la globalizzazione non abolisce l’elemento del potere e della coercizione, e neppure semplicemente lo riduce, come pretenderebbero i suoi apologeti liberisti: ma le condizioni e le modalità dell’esercizio del comando mutano radicalmente. La crisi di un concetto-chiave nell’organizzazione politica moderna, come è stato quello di “sovranità”, non può essere trascurata. È ben vero che, nel processo di globalizzazione, gli stati continuano a svolgere un ruolo, e spesso è, come a più riprese avverte Vasapollo, un ruolo collaborativo proprio nella costruzione delle concentrazioni monopolistiche che caratterizzano il costituirsi dello spazio globale: ma non va sottovalutato il fatto che la struttura politico-giuridica dello stato, nel frattempo, è costretta a mutare completamente. L’idea dell’esercizio di un comando politico centralizzato, unitario e verticalmente “trascendente” rispetto alle forze sociali, idea che appunto si incarnava nella concezione sovranista del potere, è sostituita da un regime di controllo che si rende effettivo attraverso una rete complessa e ramificata, immanente ai rapporti sociali che essa stessa regola: la sovranità classica tramonta in un modello di governance, dai contorni necessariamente sfumati e incerti, e, quel che a noi più importa, probabilmente più permeabile, quantomeno rispetto all’antico potere sovrano, all’azione trasformativa dei movimenti sociali. Da questo punto di vista, la globalizzazione crea una rottura, un’effettiva discontinuità: se è vero che gli stati si sono mostrati, come lucidamente spiega Vasapollo, funzionali ai processi di concentrazione capitalista, è anche vero che il processo di globalizzazione ne mette in discussione in modo inedito la struttura interna, che sulla sovranità centralizzata si incentrava. Le condizioni di esercizio del comando politico, nell’età post-sovrana, effettivamente si trasformano in modo radicale, ed è allora tutto da vedere se la governance globale si mostrerà funzionale allo sviluppo del capitale, o se essa potrà magari costituire uno spazio, ben più agibile che nel passato, per le forze di trasformazione e di rottura che possono affermarsi dal basso. È, forse, una questione “disciplinare”: lì dove lo sguardo del critico dell’economia politica vede nella globalizzazione solo il nuovo stadio di una lunga storia, il giurista, forse perché il suo metodo è stato maggiormente segnato dall’esperienza storica specifica della statualità, e quindi è oggi più intensamente colpito dallo choc teorico comportato dalla fase post-sovrana, vi intravede un mutamento radicale di scenario. Penso però che sia teoricamente e politicamente produttivo tenere problematicamente insieme questi diversi sguardi, per tracciare un quadro della mondializzazione che non si limiti a leggerla come l’ultima tappa del capitalismo, ma ne sappia vedere gli aspetti quantomeno ambivalenti, compreso quel “nuovo” politicamente produttivo ed emancipatorio che essa può comportare, nella comune ricerca dei punti su cui far leva per uscire dalla storia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Docente di Filosofia e Sociologia del diritto - Università di Salerno