Rubrica
La transizione difficile

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Gianni Cirino
Articoli pubblicati
per Proteo (1)

Consulente ITC e di Organizzazione

Argomenti correlati

Lavoro cognitivo

Nella stessa rubrica

Il lavoro ”cognitivo” nella fase dell’accumulazione flessibile: uno schema interpretativo del “fenomeno“ dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”
Gianni Cirino

L’evoluzione della comunicazione al cittadino; dai media tradizionali ai sistemi multimediali
Maria Rosaria Del Ciello

 

Tutti gli articoli della rubrica "La transizione difficile"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Il lavoro ”cognitivo” nella fase dell’accumulazione flessibile: uno schema interpretativo del “fenomeno“ dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”

Gianni Cirino

Formato per la stampa
Stampa

Questo spiega in parte la diminuzione quantitativa degli operai industriali nelle grande industria e l’aumento di figure lavorative come tecnici informatici, gli artigiani conto-terzisti, gli operai superspecializzati, gli agenti commerciali. Ma la classe operaia non è scomparsa ma è stata ricollocata in queste aree semiperiferiche, che sono divenute l’Europa dell’Est e il bacino del Mediterraneo a ridosso dei paesi ad alto sviluppo capitalista dell’Unione Europea ed è sempre più integrata con essi.

E’ un cambiamento in atto che sta sgretolando i “ceti medi”, sviluppatisi nell’epoca del ‘welfare state’, includendovi ampie quote di lavoratori dei servizi e del pubblico impiego, che acutizza comunque sempre più un fenomeno di polarizzazione di classe nella società.

Se l’operaio di linea (l’operaio-massa) è stato al centro del conflitto di classe nell’epoca del ‘fordismo’, l’epoca ‘dell’accumulazione flessibile’ mette in luce nuove figure della produzione e dei servizi strategici: una sorta di lavoratore ‘unico’ estremamente “flessibile”, estremamente scolarizzato, in grado di cambiare mansioni e svolgere funzioni assai diverse tra loro, privo di qualsiasi “conoscenza reale” del processo in cui viene coinvolto, ma privo anche di garanzie salariali, sindacali, previdenziali.

La nuova ‘Bibbia del Capitale’ - il rapporto della McKinsey sul lavoro del Duemila [1]- è piuttosto esplicita sulla inesorabilità di bassi salari e massima flessibilità come unico lavoro possibile nella prossima fase storica e così lo sono le prospettive indicate da tutti gli Istituti Internazionali del capitale finanziario (dall’OCSE, al FMI, dal G7-G8 alla Commissione Europea).

Finché è esistito il “Welfare State”, cioè il compromesso sociale tra il capitale nella fase tayloristica-fordiana e le classi dominate, queste ultime hanno almeno avuto delle briciole, ma oggi è cambiato il vento.

Il “neo-liberismo” prende il posto del keynesismo e si tratta di cambiamento strutturale - sia chiaro, solo attinente ai modi della distribuzione, non al modo sociale di produrre con i suoi meccanismi fondamentali di riproduzione dell’assetto socio-economico capitalistico, che è sempre esistito nel frattempo - cioè attinente ad una fase storica di non breve momento, non meramente congiunturale.

Tutte le forze politiche e sindacali sono entrate- ed è logico che sia così, ove si accettino ormai pienamente le compatibilità del capitalismo nella sua fase attuale di rifinanziarizzazione- nell’ordine di idee di “ridurre lo Stato Sociale” e di favorire la redistribuzione del reddito verso i settori dell’impresa privata; tutte propugnano l’aperta privatizzazione delle attività pubbliche produttive e di servizio, tutte accettano la necessità in questa fase della “flessibilizzazione” e “precarizzazione” del lavoro, necessarie alla redistribuzione del reddito ed alla lotta contro la disoccupazione ‘strutturale’.

Tuttavia ammettiamo pure che vi sia ‘qualche diversità’ tra le forze ‘socialdemocratiche-progressiste’ e le forze ‘liberali’ quanto a minore o, rispettivamente, maggiore riduzione dei servizi sociali (e naturalmente del sistema pensionistico), o quanto meno nelle modalità ‘più o meno’ ‘concertative’ e ‘consensuali’ per il raggiungimento dei suddetti obbiettivi.

Anche chi volesse ridurre meno le spese sociali, dovrebbe attuare un corrispondente aumento delle entrate statali, fondato essenzialmente sull’imposizione indiretta e sull’aumento delle tariffe dei servizi pubblici ed in via sussidiaria, proprio se non se ne può fare a meno, sull’aumento della imposizione diretta del reddito dichiarato (aumento della pressione fiscale).

In questo modo, si verifica- dal lato delle maggiori entrate invece che delle minori spese per i servizi sociali- la solita redistribuzione del reddito dai meno ai più abbienti, dal lavoro dipendente a quello autonomo; e questo per due vie, entrambe efficaci in tale direzione: innanzitutto aumenti eguali per tutti (come quelli dell’imposizione indiretta e delle tariffe pubbliche) sono aumenti proporzionalmente più alti per i redditi più bassi, inoltre tali aumenti di entrata per lo Stato si traducono in accrescimento di costi per l’impresa privata, che riesce generalmente a scaricarli sui prezzi, aumentando il processo inflattivo e riducendo il reddito’fisso’ del lavoro dipendente in termini reali.

In ogni caso, chi paga la maggiore o invece la minore riduzione dei servizi sociali, in condizioni di parità e di costanza del monte salari ‘sociale’ (ovvero retribuzioni lorde + costi delle imprese e dei lavoratori per i servizi sociali, compresi quelli differiti, quali pensioni e tfr), è il lavoro dipendente a reddito più basso.

Quest’ultimo, con le politiche messe in opera da tutte le forze politiche, deve in ogni caso pagarsi, in misura proporzionalmente superiore, i servizi sociali rimasti.

Questa è l’epoca post-keneysiana (con accentuati caratteri pre-keneysiani) in cui stiamo vivendo e ragionare, come se fossimo nell’epoca precedente, non ci salverà in nessun caso dall’oggettività dell’attuale fase di ‘rifinanziarizzazione del capitalismo policentrico‘, aspramente competitivo.

Bisogna poi avere il coraggio di dire che, ove si accetti l’oggettività dell’attuale fase capitalista, la politica economica di ‘destra’, ‘monetarista’ è più efficiente e coerente dell’altra.

Nell’epoca keynesiana, monocentrica, di relativo coordinamento o comunque di minore disorganicità tra i vari capitalismi, in cui l’aspetto della competitività è meno intenso, quando le politiche legate alla spesa pubblica hanno comportato un tasso inflattivo più alto, questo è stato, almeno entro limiti abbastanza ampi, ben tollerato. Intanto un certo livello di inflazione serviva a contrastare gli aumenti salariali nominali, con minore accrescimento dei costi da lavoro in termini reali per le imprese, pur senza comportare riduzione del potere d’acquisto delle masse lavoratrici. Inoltre i differenziali dei tassi di inflazione nei vari paesi del campo capitalistico avevano effetti non particolarmente gravi, dato che tale campo era coordinato da un centro e meno accentuata era la competitività al suo interno.

Nell’epoca policentrica attuale, invece, i tassi di inflazione, anche assai minori di prima, rendono più difficili i calcoli economici delle varie imprese in reciproco conflitto; piuttosto che ridurre i redditi fissi reali tramite inflazione, è meglio ottenere lo stesso effetto con misure più dirette: riduzione dei salari nominali, redistribuzione degli stessi tra occupati e disoccupati (cioè all’interno del medesimo settore sociale), diminuzione dei servizi sociali e delle pensioni, etc. Inoltre, a parità di ogni altra condizione, i differenziali (anche minimi) di inflazione tra i vari paesi possono influire sulla capacità concorrrenziale delle varie imprese e settori capitalistici. Si può lasciare svalutare la moneta per favorire la competitività del proprio capitalismo, ma questo può poi tradursi in aumento dei costi delle importazioni, con eventuale ulteriore inflazione ed accentuazione del circolo vizioso in oggetto; senza poi considerare che, se ad un certo punto, ogni paese o settore o impresa capitalistica, senza più un minimo di concertazione generale, si mettesse a promuovere politiche atte a migliorare la posizione nel mercato mondiale a detrimento degli altri, ne potrebbe derivare uno stato di instabilità del sistema globale con danno per tutti.

Da qualche tempo per tali motivi siamo entrati nei paesi ad economia capitalista ad alto sviluppo, come l’Italia, in una nuova epoca di decentramento produttivo delle grandi imprese, di espansione della piccola impresa (ma soprattutto di quella del cosiddetto indotto), di “flessibilizzazione” della produzione, connessa alla diversificazione dei prodotti, e della produzione per piccoli lotti, che oggi, grazie anche alle nuove tecnologie, specie quelle connesse alla micro-elettronica, all’informatica, alle comunicazioni ed alle bio-tecnologie, può spesso essere effettuata in accordo con le economie di scala.

In questa situazione, persino le imprese di maggiori dimensioni hanno trovato convenienza procedere ad esternalizzare una serie di produzioni e di servizi, che prima venivano svolti al loro interno. Su questa base si è verificata la grande espansione delle piccole imprese dell’indotto e l’altrettanto considerevole accrescimento di aziende o di non grandi studi professionali e di consulenza direzionale, che forniscono vari servizi, di tipo legale, commerciale, di progettazione industriale, di informatizzazione, di costruzione di reti di comunicazione, di formazione del management, ecc. Gli stessi avvocati o ingegneri, ecc. non sono più semplicemente l’”avvocato di provincia” (quello che va soprattutto in Pretura), l’ingegnere che disegna progetti per case di singoli committenti, oppure il commercialista, che da gestore di “contabilità e paghe”, si sta “riconvertendo” a revisore di bilanci aziendali e/o consulente fiscale.

Ci sono oggi una miriade incredibile di nuove professioni, in particolare per servizi alle imprese che hanno deciso di affidarli all’esterno, perché ciò - quand’anche siano grandi imprese - è diventato conveniente. Questi caratteri dell’epoca non vanno considerati come eterni; può benissimo essere che, in un futuro nemmeno troppo lontano, le imprese dei paesi capitalisti ad alto sviluppo trovino nuove convenienze a riprendersi “in casa” certe produzioni di beni e servizi. Per adesso però sembra ancora prevalente l’esternalizzazione di certe produzioni e di certi servizi. Questa non è una caratteristica solo italiana, ma dell’attuale fase capitalistica nei paesi più industrializzati nell’epoca della “globalizzazione”.

Scrive a questo proposito Sergio Bologna in ‘Orari di lavoro e postfordismo (da “ Il giusto lavoro per un mondo giusto - Dalle 35 ore alla qualità del tempo di vita- Atti del convegno internazionale Milano 8-9 Luglio 1995”):

“Proviamo ad analizzare una grande impresa, sia essa manifatturiera o di servizi, e proviamo a seguire lo schema organizzativo proprio del toyotismo. Esso si articola su un concetto di “sistema a rete” o, per meglio mettere in risalto la centralità che ancora riveste nel toyotismo “l’impresa-madre”, su sistemi a cerchi concentrici il cui centro (core) è costituito dall’impresa-madre ed i vari cerchi attorno ad esso corrispondono ai gruppi di fornitori e sub contractors ai quali è affidata, secondo rapporti di partnership molto impegnativi, l’esecuzione di determinate lavorazioni, la fabbricazione di determinati componenti del prodotto finale, la fornitura di determinati servizi ecc.. Man mano che dal centro ci si allontana e si giunge ai cerchi per così dire più “esterni”, il grado di regolamentazione dei rapporti di lavoro diventa sempre più debole ed in genere gli orari di lavoro giornalieri tendono ad aumentare. Quando vogliamo ragionare sul tempo di lavoro della fabbrica toyotista non dobbiamo prendere in considerazione soltanto la giornata dei lavoratori del centro, del cosiddetto “core-manpower”, ma dobbiamo tenere conto dell’insieme delle giornate lavorative di quegli operatori che dall’estrema periferia al centro concorrono alla formazione del prodotto finale. La giornata lavorativa sociale è dunque rappresentata dalla somma dei regimi di orario vigenti in tutto il sistema e non solo nel “nocciolo”, cioè nell’impresa-madre. Se nella fabbrica integrata fordista - pensiamo ad una fabbrica di automobili - la forza-lavoro aveva un regime di orario unico, nel sistema decentrato toyotista abbiamo tanti regimi di orario quanto sono i nodi della rete o, se si vuole, i cerchi concentrici.

Ora, se si pensa che nel 2000/2010 il 70% del prodotto finito nell’industria dell’automobile sarà fabbricato ed in parte pre-montato all’esterno della “impresa-madre”, noi possiamo ipotizzare un sistema nel quale il nocciolo, il core, diventa sempre più piccolo e la serie di cerchi concentrici sempre più grande. Il sindacato riesce in genere a regolamentare (a ridurre) l’orario di lavoro soltanto nel’ “impresa-madre” e nel cerchio concentrico più vicino al nocciolo, diciamo nella prima fascia dei fornitori; sempre meno riesce a regolamentare il lavoro nelle fasce più esterne e quindi in genere ad una riduzione di orario del core manpower corrisponde un aumento di funzioni nei cerchi concentrici attorno ad esso, con una dislocazione di funzioni nelle fasce dove gli orari di lavoro sono più lunghi... E veniamo al’ aspetto del post-fordismo, quello a mio avviso più caratteristico, la miniaturizzazione dell’impresa ovvero l’espansione del lavoro autonomo. Come voi sapete è questo un fenomeno che interessa particolarmente l’Italia dove, al 31 dicembre 1993, secondo i dati CERVED, erano attive 2.378.000 imprese individuali. Secondo i dati Aspo della Camera di commercio di Milano - che rappresenta oggi il più aggiornato archivio italiano delle imprese e dell’occupazione - alla fine del 1992 erano attive in Lombardia 367.500 imprese individuali, che occupavano 729.500 addetti, stando a significare così che ogni ditta individuale comprende almeno un collaboratore. Si tratta di dati, come ho sottolineato nelle mie ricerche sul lavoro autonomo in Italia pubblicate sulla rivista “Altre ragioni”, che si riferiscono solo alle imprese registrate presso le Camere di commercio. Se a queste cifre sommiamo quelle delle attività di lavoro autonomo con semplice partita IVA, senza obbligo di registrazione presso le Camere di commercio, più quelle di lavoro autonomo associato, di tipo cooperativistico e non, possiamo stimare in circa dieci milioni il numero di persone che gravita attorno alla galassia del lavoro autonomo in Italia......C’è chi sostiene, come il prof. Martini, docente di statistica alla Statale di Milano, che questo fenomeno, verificatosi in particolare nel settore classificato come “servizi alle imprese”, non sia che il riflesso di una esternalizzazione di mansioni da parte della grande e media impresa; il che spiegherebbe anche come il lavoro autonomo sia “esploso” nelle regioni “forti”, dove la presenza nel tessuto economico di imprese di maggiori dimensioni è stata storicamente più significativa. Io concordo con questa tesi e in tale contesto mi sembra importante sottolineare che il lavoro autonomo propriamente post-fordista si distingue da quello tradizionale, concentrato soprattutto nel commercio al dettaglio e nei servizi di ristorazione e alberghieri, per l’alta dose di professionalità, da esso richiesta. Le imprese cioè avrebbero esternalizzato quelle funzioni che richiedono maggiori investimenti in “capitale umano”, scaricando sul singolo individuo i costi, molto elevati, dell’aggiornamento professionale (e tecnologico)...”.

Ancora S. Bologna nel libro “ Il lavoro autonomo di seconda generazione” (1998) scrive: “ Ho individuato dieci parametri (contenuto, percezione dello spazio, percezione del tempo, identità professionale, forma della retribuzione, risorse necessarie al mantenimento, mercato, organizzazione e rappresentanza degli interessi, cittadinanza) sui quali costruire le basi di uno statuto del lavoro autonomo. Esse possono considerarsi anche come dieci variabili fondamentali per costruire l’economia politica del lavoro autonomo....”

Chi scrive ritiene ed in questo articolo lo argomenterà ampiamente, che la posizione, precedentemente citata, pur sottolineando correttamente le caratteristiche e le differenze del lavoro “autonomo” rispetto al lavoro dipendente tradizionale, in un contesto di economia capitalista post-fordista, [2] dia troppa enfasi alle problematiche ed alla condizione “specifica” del lavoratore “autonomo” ed ai lavori cosiddetti “atipici”.

In tal modo si rischia di trascurare o comunque mettere in secondo ordine il fatto fondamentale strutturale che comunque si tratta di lavori e soprattutto di lavoratori che sono soggetti (sempre di più anche se con modalità spesso differenti da quelle dell’operaio-massa o comunque del lavoratore dipendente “tradizionale” dei servizi) ai rapporti capitale-lavoro e spesso di informazione-lavoro, dove l’informazione diventa capitale “cognitivo” ed esso stesso strumento di produzione e di gerarchia e dominio sociale ed economico.

Chi scrive pensa che questa visione, così come altre visioni non altrettanto “progressiste” di altri autori (es. Naisbit, Toefler, Fredkin, Negroponte, Porter, De Masi, ecc) [3], che considerano il post-moderno ed il post-fordismo come la conclusione della modernità e come passaggio ad una società postindustriale, detta anche “Società dell’Informazione”, in cui si “ritiene” in maniera definitiva ormai verificata la fine delle classi sociali, la fine del lavoro manuale a favore del lavoro intellettuale, non siano assolutamente condivisibili, se si analizzano i reali mutamenti del modo di produzione capitalista nell’era dell’accumulazione flessibile.

A questo proposito è interessante invece presentare un diverso paradigma di analisi dei processi economico-sociali,, che si stanno verificando nelle società a sviluppo capitalistico avanzato, che viene sinteticamente espresso con il termine “fabbrica sociale generalizzata”; scrivono [i] R.Martufi e L.Vasapollo nel recentissimo loro volumeProfit State, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo pag. 48 (1999): “E’ possibile identificare le informazioni necessarie a pilotare le risorse verso obiettivi dell’azienda, facendo riferimento ai processi e non alle strutture, perché è dall’integrazione delle risorse, attraverso i processi aziendali connessi, che si determina il funzionamento complessivo del sistema azienda, e, nell’ottica della fabbrica sociale generalizzata, del sistema sociale complessivo. Di conseguenza la struttura organizzativa si modifica accorpando funzioni omogenee in relazione agli obiettivi da raggiungere che sono e rimangono quelli ormai prioritari del capitalismo globalizzato. Si creano così dei sottosistemi aziendali a carattere autonomo con propri specifici obiettivi che confluiscono unitariamente nelle finalità complessive aziendali proiettati al sociale attraverso le scelte derivanti dai modelli decisionali adottati. La fabbrica sociale generalizzata, per poter meglio coordinare e controllare i suoi sottoinsiemi, investe l’intera realtà sociale di modelli decisionali derivanti da processi elaborativi interni che devono tenere conto dei vincoli ambientali. L’insieme delle proprietà che caratterizzano i diversi flussi informativi hanno lo scopo di individuare i rapporti comunicazionali che i vari settori operativi aziendali intrattengono con i molteplici attori interagenti con il sistema azienda. Si viene così a costituire un vero e proprio sistema informativo, come sviluppo di processi decisionali d’azienda scaturiti dalla risorsa informazione, che individua globalmente il territorio. E’ così che l’impresa post-fordista divenuta impresa diffusa socialmente nel territorio, una fabbrica sociale generalizzata, che scompone le mansioni, crea nuovi lavori atipici, rompendo l’unità di classe dei lavoratori e basando i suoi processi di accumulazione flessibile sull’informazione, sulla comunicazione, sull’immagine, sulle risorse del capitale intangibile, irrompendo nel sociale attraverso il ruolo assunto dal Profit State”.

Nel mondo della competizione globale vincono i più forti. I più forti sono tali soprattutto in virtù della “risorsa conoscenza” e della capacità di organizzarla in base alle competenze necessarie e comunque sempre necessariamente rinnovabili e flessibili.

I “lavoratori della conoscenza potrebbero essere la maggioranza dei lavoratori occupati (almeno è quello che vorrebbero gli apologeti del “nuovo ordine capitalista”), nei paesi a più alto sviluppo capitalistico, in tempi certamente non brevi, ma neppure epocali; la conoscenza infatti costituisce il fattore di successo per la competitività delle imprese e dei Sistemi-Paese. L’aumento delle componenti immateriali è ormai in grado di spiegare la maggiore parte dell’incremento del PIL in tutti i paesi industrializzati.

La creazione di valore economico, in sostanza, avviene attraverso la produzione, l’elaborazione, la trasmissione, la vendita di prodotti intellettuali che restano fondati su un alto tasso di impiego di conoscenza anche quando assumono una dimensione fisica.

Ora se è vero che l’aspetto “cognitivo” diviene sempre più importante nei processi economici, chi scrive, ritiene che una “critica dell’economia politica”, che si ispiri ed utilizzi i paradigmi di analisi marxiana, debba “imboccare” un approccio che la porti a definire una teoria “cognitiva” del capitalismo.

Questo approccio dovrebbe permettere di costruire un corpo teorico che, nel rispetto dell’eredità dell’analisi marxiana, contenente comunque il suo nucleo teorico centrale, riesca ad incorporare nell’analisi economica gli aspetti caratteristici della fase attuale dell’organizzazione capitalista, caratterizzata dalla “accumulazione flessibile”.

E’ necessario comprendere le caratteristiche dei rapporti sociali di produzione, connaturati con questa fase della forma capitalistica di produzione ove, tramite la produzione di merci informatizzata ed ai modelli di organizzazione del lavoro, il controllo del lavoro è realizzato sotto forma di manipolazione simbolica ed informativa ed in cui si fa strada la necessità del capitale, per competere in un contesto globale, di una partecipazione “creativa” della forza-lavoro, orientata globalmente agli obiettivi delle imprese, da cui promanano mutamenti radicali della fenomenologia delle forme del potere manageriale e capitalistico sul lavoro.

Nel prossimo paragrafo di quest’articolo verrà presentato “un approccio teorico di analisi”, che, per chi scrive, costituisce una proposta per un paradigma di analisi teorica, atto a fare comprendere “in nuce”, in continuità con l’eredità del nucleo teorico e metodologico della “critica dell’economia-politica marxiana”, le attuali specifiche caratteristiche del lavoro e dell’organizzazione capitalistica nell’era dell’informatizzazione e della telematica.

 


[1] Vedi anche il volume del “guru “ giapponese della globalizzazione Kenichi Ohmae “La fine dello Stato-Nazione - L’emergere delle economie regionali”, 1995.

[2] Si preferisce invece parlare di fase della economia capitalista, caratterizzata da una “accumulazione flessibile”.

[3] Vedi i riferimenti bibliografici.

[i] Essi sono poi gli autori di tanti pregevoli articoli ed analisi-inchiesta in questa rivista.