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Vladimiro Giacché
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“Beati gli ultimi, perché saranno subprime” Disuguaglianza e crisi finanziaria

Vladimiro Giacché

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1. Prologo. Il trionfo della disuguaglianza

La gravità della crisi finanziaria internazionale che ha avuto inizio l’estate scorsa con le difficoltà del settore dei mutui subprime negli Stati Uniti non è più messa in dubbio da nessuno. Le cronache economiche di questi mesi ci hanno abituato a periodiche revisioni al ribasso degli utili societari, a improvvise svalutazioni del valore degli assets detenuti da banche e società finanziarie, a repentini crolli dei titoli azionari. E questo nonostante robuste iniezioni di liquidità da parte delle principali banche centrali, nonostante una politica dei tassi molto accomodante da parte della Federal Reserve, e salvataggi pubblici di banche che soltanto un anno fa avrebbero fatto gridare allo scandalo e allo “statalismo stalinista”. Le analisi circa la crisi e la sua genesi ovviamente si sprecano. Mancano però indagini che mettano la crisi attuale in relazione alla crescita della disuguaglianza verificatasi negli ultimi decenni nei paesi capitalistici avanzati. Eppure si tratta di un aspetto fondamentale per capire cosa sta accadendo. Vediamo perché a partire da qualche dato. L’8 aprile scorso è comparso sul Financial Times un importante articolo, annunciato da questo richiamo in prima pagina: “Ritorno agli anni Venti. Il ritorno a un mondo disuguale”. L’articolo cominciava con queste parole: “La disuguaglianza tra i redditi negli Stati Uniti ha raggiunto il punto più alto dai tempi dell’anno del disastro: il 1929”. E proseguiva così: “la caratteristica più notevole dell’era della disuaglianza e del libero mercato che è iniziata negli anni Ottanta è rappresentata dal fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell’economia del mondo sviluppato”. In effetti i dati sono impressionanti. Tra il 1979 e il 2005 i redditi prima delle tasse delle famiglie americane più povere sono cresciute dell’1,3% annuo, quelli del ceto medio di meno dell’1% annuo, mentre quelli dell’1% più ricco della popolazione sono cresciuti del 200% annuo prima delle tasse e addirittura del 228% dopo le tasse. Risultato: nel 2005 il reddito dopo le tasse del quinto più povero della popolazione era di 15.300 dollari annui, quello del quinto mediano di 50.200 dollari, mentre quello dell’1% più ricco era superiore al milione di dollari. In definitiva, negli anni tra il 2002 e il 2006 all’1% più ricco della popolazione americana sono andati quasi i tre quarti della crescita del reddito complessiva. Nel 2005, secondo dati dell’US Census Bureau, l’indice della disuguaglianza tra i redditi ha raggiunto il massimo storico.1 Lo stesso vale per la Gran Bretagna, ove questo si è verificato dopo l’andata al potere dei laburisti di Blair nel 1997: anche qui, secondo gli stessi dati governativi, la forbice della disuguaglianza è la più alta di sempre.2 Ma, più in generale, la riduzione della quota del prodotto interno lordo che va ai salari, e per contro la crescita della quota destinata ai profitti, è una tendenza che investe tutti i paesi a capitalismo maturo, come ha evidenziato una ricerca della Banca dei Regolamenti Internazionali del 2007: in Italia, ad esempio, dal 1983 al 2005 i lavoratori hanno perso 8 punti percentuali, andati in maggiori profitti (che infatti sono saliti nel periodo dal 23% al 31% del totale). In termini assoluti, si tratta di cifre enormi: l’8% del Pil italiano è infatti pari a qualcosa come 120 miliardi di euro.3 Insomma: come è stato osservato, “nei Paesi occidentali il profitto è diventato, per parafrasare un’affermazione che andava per la maggiore negli anni ’70 con riferimento al salario, una variabile indipendente del sistema. Infatti, per la concorrenza che circa il 97% dei lavoratori dei paesi avanzati subisce da chi lavora nei paesi emergenti, l’aumento della produttività mondiale va ad esclusivo vantaggio dei profitti e non del monte salari”.4

2. La macchina drogata del consumo

Si tratta di cifre tali da giustificare lo stupore del Financial Times per l’assenza di reazioni (cioè di lotte) contro questa gigantesca redistribuzione della ricchezza verso l’alto. Le spiegazioni però non mancano. Al di là degli stessi rapporti di forza tra le classi (squilibrati dalla concorrenza esercitata da paesi con un costo della forza-lavoro molto basso), un peso non secondario hanno senz’altro giocato fattori legati all’egemonia culturale ed ideologica esercitata dal capitalismo, che, dopo la caduta del Muro di Berlino e l’implosione del socialismo reale nell’est europeo, ha potuto riaffermare il proprio orizzonte come l’orizzonte ultimo della storia umana. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, però, è in gioco anche un fattore di tipo diverso. In realtà, negli Stati Uniti (ma anche nel Regno Unito e in Australia) il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere sganciato dall’andamento del reddito. È proprio qui che entrano in gioco il settore immobiliare e i mutui subprime. La politica monetaria espansiva e di bassi tassi di interesse condotta dalla Federal Reserve ha infatti alimentato in questi anni la bolla immobiliare, consentendo al tempo stesso anche a famiglie a basso reddito di contrarre debiti relativamente a buon mercato. La crescita dei valori immobiliari ha creato un senso di ricchezza crescente, anche se il reddito in realtà non cresceva affatto (qualcosa di simile, anche se su scala meno larga, era successo alla fine degli anni Novanta con la bolla borsistica della “new economy”), e tra l’altro ha reso possibile rinegoziare i mutui e anche accendere ipoteche sulla casa a garanzia di prestiti finalizzati al consumo. Come ha scritto Stiglitz, “la bolla immobiliare ha alimentato i consumi, si tiravano fuori soldi dalla casa come da un bancomat a ritmo frenetico, mentre i tassi di risparmio delle famiglie precipitavano”.5 Nel frattempo, la fertile fantasia dei grandi istituti di credito americani aveva escogitato prodotti rivolti anche a chi non aveva né reddito, né lavoro, né poteva offrire garanzie patrimoniali: i cosiddetti “mutui Ninja” (“no income, no job, no asset”). Questi ed altri mutui ad alto rischio sono appunto i famigerati mutui subprime - che è poi un elegante eufemismo: invece di parlare di “mutui spazzatura” o di “mutui di infima categoria”, sia parla di “mutui sottoprimi”. Praticamente, il regno di Bengodi: anche gli “ultimi” ora potevano comprarsi una casa, anche loro potevano essere, se non primi (adesso non esageriamo...), almeno subprime. La banca concedeva questi mutui ad alto rischio, e poi li rivendeva - impacchettati assieme ad altri crediti di migliore qualità - inserendoli in veicoli appositi, le cui quote venivano offerte agli investitori come obbligazioni (perdipiù con rating elevato). Non solo: dal 2004 al 2006, l’ufficio governativo statunitense per la casa e lo sviluppo urbano spinse le due agenzie governative Freddie Mac e Fannie Mae ad acquistare obbligazioni di questo genere per 434 miliardi di dollari, con il risultato di incentivare le banche a continuare ad offrire mutui insostenibili come i subprime.6 Sì, perché questa costruzione era perfetta, salvo un piccolo particolare: che tutto questo castello di carta poteva stare in piedi soltanto se il valore degli immobili continuava a crescere (cosicché il valore della casa che uno aveva acquistato cresceva di valore e quindi poteva essere rivenduta guadagnandoci). Ma la cosa ovviamente non poteva andare avanti all’infinito. E infatti nel 2006 il mercato immobiliare Usa ha cominciato a scendere, e infine è crollato. Il resto è storia nota: scoppio del bubbone dei mutui subprime, fallimento per centinaia di migliaia di famiglie Usa, problemi nel debito al consumo, forti svalutazioni di bilancio per le banche coinvolte, difficoltà sul mercato interbancario (perché le banche cominciano a non fidarsi più della solvibilità delle loro controparti), crollo dei titoli azionari... Questa parte della storia è iniziata nell’estate del 2007, e ancora non è finita. Qualche lezione, però, è già possibile trarla. 3. Le lezioni di una crisi

La prima lezione consiste nel rovesciamento di uno degli assunti cardine dell’ideologia dominante. Questa ideologia ci ha raccontato per anni che la disuguaglianza - o, come si diceva un tempo, la “diversità delle fortune” - è il motore del sistema economico. Da un lato sarebbe infatti espressione delle differenze di merito e capacità degli individui in sana competizione tra loro, dall’altro costituirebbe uno stimolo essenziale a migliorarsi, ad essere sempre più efficienti e competitivi, al fine di accrescere le proprie fortune e di salire nella scala sociale. Gli eventi recenti ci dicono che è vero il contrario: la disuguaglianza evidenzia l’ingiustizia strutturale del sistema economico capitalistico, e oggi sembra addirittura in grado di metterlo in crisi, innescando reazioni a catena che hanno investito i gangli vitali della finanza statunitense e internazionale. Ovviamente, di tutto questo gli “ultimi” non hanno particolare motivo di rallegrarsi, come dimostrano le tendopoli di sfrattati che cominciano a sorgere alla periferia delle grandi città, a cominciare da Los Angeles. Gli homeless creati dalla crisi dei subprime sono già oltre 400.000 e continuano ad aumentare.7 La qual cosa non può stupire, se si pensa che nel solo 2007 sono state sfrattate 1.300.000 famiglie (il 79% in più dell’anno precedente). Molti disperati danno fuoco alla casa, per truffare l’assicurazione o semplicemente per sfregio.8 Ma chi sono questi “ultimi”? Spesso, nient’altro che la tanto mitizzata “classe media”, cardine - ci dicono - dei nostri sistemi democratici e oscuro oggetto del desiderio elettorale praticamente di tutti i partiti. Abbiamo visto che, proprio negli anni in cui nell’ideologia dominante le figure della “classe media” e del “consumatore sovrano” si sono sovrapposti tra loro sino ad identificarsi, divenendo l’idealtipo e il feticcio di una presunta nuova “classe universale”, proprio in quegli anni abbiamo visto il reddito della “classe media” (ossia dei lavoratori dipendenti a medio reddito) ridursi rispetto agli altri ceti sociali e scivolare sempre più in basso. Qui c’è la seconda lezione. In anni in cui - nei quotidiani come nei discorsi dei politici - sembra esistere soltanto la classe media, la “classe media” nella realtà entra in crisi, perde di consistenza in termini sociali, i suoi ranghi si assottigliano e sono attraversati dalla paura. Paura di cosa? Paura della proletarizzazione. Si tratta di una paura che sempre più spesso si fa delirio securitario: è quanto accade quando la paura di venire degradati socialmente viene trasfigurata (e mistificata) in rifiuto del “degrado” sociale derivante dall’immigrazione. La terza lezione riguarda uno dei grandi feticci ideologici degli ultimi anni: il mercato. La crisi attuale mette in luce una semplice verità: il fatto che il mercato non è autosufficiente. La situazione è abbastanza curiosa. Hanno appena finito di convincerci che il mercato è l’artefice di tutto quanto vi è di buono nel nostro mondo, mentre lo Stato può soltanto rovinarne l’opera, ed ecco che arriva la crisi dei subprime, e poi del credito. E avviene il miracolo: tutt’a un tratto la “mano visibile” dello Stato non solo ridiventa gradita, ma viene addirittura invocata da voci insospettabili. Fa un certo effetto notare che il Financial Times non ha nulla da ridire sulla nazionalizzazione della banca inglese Northern Rock sull’orlo del fallimento, o sul sostegno da 50 miliardi di sterline alle banche realizzato dalla Bank of England offrendo titoli di Stato in cambio di crediti immobiliari. Fa ancora più effetto osservare come lo stesso governatore della Federal Reserve Bernanke, dopo aver rifinanziato le banche d’affari in difficoltà (per la prima volta dopo gli anni Trenta), dopo aver accettato a garanzia del finanziamento da 200 miliardi di dollari titoli subprime, giustifichi il salvataggio della banca Bear Stearns (comprata sull’orlo del fallimento da JPMorgan grazie a un prestito di 30 miliardi di dollari da parte della stessa Fed) dicendo che si tratta in realtà di un “salvataggio dei mercati”. E pensare che ci avevano spiegato che ormai sarebbero stati i mercati (anzi: il Mercato) a salvare il mondo garantendo benessere e prosperità per tutti... Ma le sorprese non sono finite: dal liberista Zingales che sulla sua rubrica “libero mercato” intona inni alla regolazione al finanziere George Soros che si scaglia contro il “fondamentalismo di mercato”; dall’ex ministro Domenico Siniscalco (oggi a Morgan Stanley) che approva l’atteggiamento “pragmatico” ed anti-ideologico di chi ha finalmente abbandonato “il dogma che il mercato possa risolvere ogni problema”, al vecchio Paul Samuelson che afferma addirittura: “urge un po’ di statalismo”. Insomma: i “convertiti allo Stato interventista” - come li ha definiti il sociologo tedesco Ulrich Beck - non si contano veramente più.9 Ovviamente si tratta di conversioni interessate: infatti il problema oggi è quello di socializzare le perdite, mentre prima si privatizzavano i profitti. La cosa è stata espressa proprio in questi termini dall’economista Roubini: “Nazionalizzare le perdite dei mutui subprime americani in sofferenza per salvare l’economia” (cioè per potere poi ricominciare a privatizzare i profitti). Al punto a cui si è arrivati non è affatto detto che le misure invocate siano sufficienti. Una cosa invece è certa: è entrato in crisi il modello di deregulation dei mercati finanziari (e non solo) che era stato avviato da Reagan a partire dagli anni Ottanta. La gravità della crisi di questo modello è testimoniata in modo piuttosto eloquente dalla recente esternazione del presidente della Repubblica federale tedesca, Horst Köhler (fra l’altro in passato direttore generale del Fondo Monetario Internazionale): “siamo stati vicini al collasso dei mercati finanziari mondiali; ... i mercati finanziari si sono sviluppati a tal punto da diventare dei mostri che ora devono essere domati”. Ma anche l’ultima fatica letteraria di Tremonti, tutta basata sulla riscoperta del ruolo dello Stato contro il “mercatismo” (quando sino a pochi anni fa lo stesso autore scriveva tomi contro lo Stato “rapinatore” - e più concretamente scardinava la fiscalità dello Stato italiano), rappresenta un altro evidente sintomo della gravità della crisi.10 Mentre è quantomeno paradossale che esponenti del centrosinistra come i Bersani e i Letta (non Gianni: il nipote Enrico), per non dire dei Nicola Rossi e dei Franco Debenedetti, lascino campo libero a queste disquisizioni (del resto fumose e demagogiche), continuando per parte loro a ripetere il mantra dei mercati “da liberare”, dei servizi da “liberalizzare”, delle privatizzazioni da “portare a termine”. Quasi che oggi il compito dello Stato dovesse ridursi a fare il vigile urbano nei traffici del mercato, magari con l’aiuto di qualche Authority a fare da semaforo. Cosicché oggi nel Parlamento italiano, tra le furbate pseudostataliste dei campioni del marketing politico e il fondamentalismo liberista fuori tempo massimo del partito democratico, non vi è nessuno, ma proprio nessuno, che intenda rilanciare in positivo il ruolo dei poteri pubblici e dello Stato.

4. Tra due crisi

Nessuno sa come e quando si uscirà dall’attuale situazione di incertezza dei mercati finanziari e di crisi economica. Questo per un motivo molto semplice: perché gli eventi degli ultimi mesi sono il prodotto di due distinte crisi, che interagiscono tra loro rendendo molto più difficili i tentativi di risposta. Da una parte abbiamo la crisi di un processo di deregulation e di globalizzazione finanziaria che durava ormai da circa due decenni. È un processo che in questi ultimi anni ha provocato diverse crisi (dal 1997 in qua abbiamo avuto la crisi dell’Asia, quella della Russia, quella dell’Argentina e del Brasile, quella della Turchia), ma che questa volta non tocca più le periferie. Oggi nell’occhio del ciclone ci sono le capitali finanziarie del Primo Mondo: da New York a Tokyo, da Londra a Francoforte. La prima specificità della crisi finanziaria attuale è tutta qui: essa ha il suo epicentro non più nei paesi emergenti, ma nel cuore della finanza mondiale. Non si tratta più del rischio di insolvenza di un Paese in via di sviluppo: oggi sono le principali banche del pianeta ad essere in difficoltà e a dover essere aiutate - o addirittura salvate - dalla “mano visibile” dello Stato. La stessa proposta avanzata da Luigi Spaventa di utilizzare lo strumento dei “Brady Bond” contro la crisi ha una notevole portata simbolica, se si pensa che questo strumento era servito negli anni Ottanta a superare la crisi dei paesi dell’America Latina.11 Ad aggravare il quadro c’è poi una seconda crisi, non finanziaria e creditizia, ma valutaria: la crisi del dollaro. La valuta statunitense è ormai tirata in basso - sempre più in basso - dall’insostenibilità del deficit commerciale nei confronti del resto del mondo e dal deficit federale (i cosiddetti deficit gemelli). Di fatto, negli ultimi sei anni il valore del dollaro rispetto al paniere ponderato delle altre valute si è già ridotto di oltre un quarto (fra l’altro senza particolari benefici per le esportazioni statunitensi). Oggi anche economisti tutt’altro che eterodossi come Kenneth Rogoff parlano apertamente della fine del dollaro come valuta internazionale di riserva.12 Di fatto il deprezzamento della valuta statunitense continua, mentre non soltanto l’euro, ma anche l’oro e il petrolio hanno ritoccato più volte negli ultimi mesi i loro massimi storici. La corsa del petrolio non ha, a differenza di quanto va dicendo Tremonti, la sua causa negli speculatori che giocano al rialzo sul prezzo dei future sul greggio. Il discorso va rovesciato: gli speculatori operano al rialzo perché l’offerta di petrolio è inferiore alla domanda; e anche perché il dollaro (la valuta in cui si commercia il petrolio) continua a deprezzarsi. Di fatto il petrolio sta diventando anche uno strumento semi-valutario di diversificazione degli investimenti. Secondo l’agenzia internazionale Standard & Poor’s, ad esempio, nel primo trimestre del 2008 gli investitori istituzionali, a cominciare dai fondi pensione, hanno spostato non meno di 40 miliardi di dollari sulle materie prime, a copertura contro l’inflazione e il calo del dollaro.13 La speculazione muove insomma da cause molto concrete dell’apprezzamento del petrolio e può al massimo (ma sempre entro certi limiti) amplificarne gli effetti. Il punto di contatto tra questa crisi valutaria e quella finanziaria è rappresentato dai tassi di interesse. In questi mesi la via d’uscita dalla crisi per le banche (e per i milioni di famiglie Usa indebitate in investimenti immobiliari insensati) è stata infatti ricercata in un energico abbassamento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve. Queste manovre però non hanno sortito gli effetti sperati, e i margini di manovra sono diventati sempre più stretti: perché tassi di interesse più bassi significano minore appetibilità dei buoni del Tesoro Usa (ma anche delle azioni statunitensi) per gli investitori internazionali, peggioramento delle ragioni di scambio del dollaro e il rischio - che si fa sempre più concreto - di una vera e propria fuga dal biglietto verde degli altri Stati, le cui riserve valutarie sono ancora in misura preponderante in questa valuta. Non solo: l’esplosione dei prezzi del petrolio e di molte altre materie prime hanno acceso l’inflazione, con il risultato di creare un nuovo vincolo ad ulteriori discese dei tassi di interesse Usa (uno dei rimedi tradizionali contro l’inflazione è rappresentato infatti dal rialzo dei tassi di interesse - anche se si tratta di una manovra di dubbia efficacia contro l’inflazione importata come l’attuale). In questa situazione, sono sempre di più gli economisti che parlano di prospettive di stagflazione, come negli anni Settanta: stagnazione economica più inflazione.

5. La tentazione di sempre: bombe contro la crisi

Il presidente russo ha recentemente affermato che “il ruolo degli Stati Uniti nel sistema economico mondiale non corrisponde alle sue capacità reali”. Più esplicito l’economista italiano Mario Deaglio: “Gli Stati Uniti sembrano vivere in una sorta di second life, un mondo di fantasia: si credono ancora finanziariamente molto forti e sembra che non si accorgano che la loro moneta, pur essendo ancora la più importante del pianeta, si sta riducendo a rottame”. Rispetto alla durezza di queste affermazioni, le stesse prese di posizione del presidente iraniano, per cui gli Usa “stampano in gran quantità banconote che non hanno valore e le distribuiscono nel mondo” e il dollaro “non è più una moneta di scambio”, non sembrano in fondo particolarmente eversive.14 Dalla Russia all’Europa, da questa all’Iran, la diagnosi sulla situazione appare generalmente condivisa: possiamo ormai parlare di un vero e proprio “Anti-Washington Consensus”. Lo stesso vale per le soluzioni più immediate: una politica monetaria concertata a livello globale e, soprattutto, un riequilibrio degli enormi deficit gemelli statunitensi. La soluzione adottata dagli Stati Uniti, però, rischia di essere ben diversa: la guerra. Non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti tentano di risolvere in questo modo le loro crisi. Anzi, diciamo pure che - almeno dalla Seconda guerra mondiale in poi - la “carta Stranamore” ha rappresentato l’asso nella manica di buona parte delle amministrazioni Usa. Dalla Corea al Vietnam, passando per operazioni più di routine nel giardino di casa rappresentato dall’America centrale e meridionale, dall’Iraq alla Jugoslavia, dall’Afghanistan di nuovo all’Iraq, la risposta dell’establishment Usa alla crisi è sempre stata questa.15 Sarà così anche in questo caso? Purtroppo gli ultimi sviluppi fanno temere di sì. Obiettivo: l’Iran. I rapporti con Al-Qaeda, l’uranio importato clandestinamente attraverso il Pakistan (potenza nucleare amica degli Usa), la “minaccia nucleare” iraniana (consistente nel volersi dotare di centrali atomiche ad uso civile, mentre Israele ha già da circa trent’anni 200 bombe atomiche senza che nessuno dica niente), il parallelo Ahmadinejad-Hitler (quando la considerazione che per il Tribunale di Norimberga il “crimine supremo” commesso dai nazisti era la guerra di aggressione suggerirebbe paragoni diversi), le violazioni dei diritti umani in Iran... È un film già visto: con varianti trascurabili, si tratta delle stesse menzogne, delle stesse messinscena, delle stesse scuse, in un parola dello stesso meccanismo messo in moto nel 2002-2003 contro l’Iraq. Non stupisce che le bugie siano le stesse: considerando che nel caso iracheno ne erano state dette 935, non era lecito attendersi in questo caso bugie originali.16 Qualche maggiore stupore lo desta il coro della stampa e dell’informazione, che non sembra rendersi conto del fatto che le bugie a cui fa ora da megafono a pagina 1 sono le stesse patacche malconfezionate di cui riferisce al passato prossimo a pagina 20. In ogni caso, i cani della guerra stanno ricominciando ad agitarsi. Ingiustizia sociale e guerra, come sempre, si tengono per mano. E vanno combattute assieme.

Studioso di politica economica

J. Plender, “Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy”, Financial Times, 8 aprile 2008.

Ibidem. Sulla situazione britannica vedi anche M. Kelly, “Povera middle class”, il manifesto, 15 giugno 2008.

L. Ellis - K. Smith, The global upward trend in the profit share, Bank for International Settlements, luglio 2007. La ricerca è stata ripresa in un ottimo articolo di M. Ricci, “Il declino degli stipendi”, la Repubblica, 3 maggio 2008.

F. Arcucci, “Il profitto è diventato una variabile indipendente”, la Repubblica, 12 febbraio 2007. J. Stiglitz, “La follia dei mercati e il sonno delle autorità”, la Repubblica, 6 maggio 2008.

C.L. Leonnig, “How HUD Mortgage Policy Fed The Crisis”, the Washington Post, 10 giugno 2008.

G. Ventola Danese, “California, Stati Uniti d’America. Dal mutuo subprime alla baraccopoli”, Liberazione, 20 aprile 2008.

F. Del Lucchese, “Fuochi salvifici. Le proprietà andate in fumo”, il manifesto, 19 giugno 2008.

Al riguardo vedi: M. Onado, “La bufera del credito e l’ombrello di Bernanke”, il Sole 24 Ore, 15 marzo 2008; “Se Wall Street aggira i suoi muri”, il Sole 24 Ore, 16 marzo 2008; D. Siniscalco, “Mercato, addio al dogma”, la Stampa, 23 marzo 2008; M. Longo - W. Riolfi, “Fed, la nuova era dei salvataggi”, il Sole 24 Ore, 25 marzo 2008; P. Samuelson, “Tutta colpa della Fed e di Bush”, il Mondo, 28 marzo 2008; U. Beck, “I convertiti allo Stato interventista”, la Repubblica, 29 marzo 2008; M. Valsania, “Fed: ‘Non abbiamo salvato Bear Stearns ma i mercati’”, il Sole 24 Ore, 4 aprile 2008; G. Soros, “Questa crisi figlia dell’ideologia”, il Sole 24 Ore, 6 aprile 2008; L. Zingales, “Nuove regole a Wall Street”, l’Espresso, 17 aprile 2008.

“Nazionalizzare le perdite”, il Sole 24 Ore, 5 aprile 2008; G. Rivolta, “Solo nuove regole ci possono salvare”, Borsa & Finanza, 29 marzo 2008; “Markt des Grauens”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15 maggio 2008; B. Romano, “I mercati sono un mostro”, il Sole 24 Ore, 15 maggio 2008.

R. Sabbatini, “Nuovi Brady bond contro la crisi”, il Sole 24 Ore, 25 maggio 2008.

K. Rogoff, “Se il dollaro abdica a favore dell’euro”, il Sole 24 Ore, 3 aprile 2008; vedi anche V. Sciarretta, “Klein: ‘Sì, c’è un rischio anni ’70’”, Borsa & Finanza, 7 giugno 2008.

M. Margiocco, “Bolla su bolla dai mutui alle materie prime”, il Sole 24 Ore, 8 giugno 2008.

L. Mais., “Crisi globale, colpa dell’America”, il Sole 24 Ore, 8 giugno 2008; M. Deaglio, “Il vecchio manuale dei banchieri centrali”, la Stampa, 18 marzo 2008; L. Iezzi, “L’Iran avverte: il petrolio dovrà rincarare”, la Repubblica, 20 aprile 2008.

In tema vedi A. Burgio - M. Dinucci - V. Giacché, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Roma, DeriveApprodi, 2005, pp. 126 sgg.

Per quanto riguarda i meccanismi di costruzione della menzogna nel caso iracheno mi permetto di rinviare a V. Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Roma, DeriveApprodi, 2008, passim ed in particolare i capitoli 1, 2, 7. Sulle 935 bugie dette dall’amministrazione Bush a sostegno della guerra in Iraq esiste una documentata analisi pubblicata nel gennaio 2008 dal Center for Public Integrity: ne dà conto il Sole 24 Ore del 22 giugno 2008, in un articolo a firma di M. Valsania: “Sull’Iraq troppe bugie, signor Presidente”.