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Corsi e ricorsi economici: il capitalismo alle sue origini

ENZO DI BRANGO

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Se il nostro capitalismo esprime oggi tutta la sua inadeguatezza ed irrilevanza economica, la sua storia in Italia ha radici ben diverse che, con tutte le sue storture, non giustifica gli artefici del desolante quadro che Luciano Vasapollo ha magistralmente disegnato nel suo “Storia di un Capitalismo piccolo piccolo”.

Pare che il termine “capitale” derivi da una antica forma di prestito di bestiame che funzionava pressappoco così: un tale presta un certo numero di capi di bestiame in cambio di un interesse in natura (in genere granaglie, concimi, ecc...) per poi riceverne indietro un pari numero al termine del prestito. L’interesse (certo) in natura rappresenterebbe il profitto per il prestatore ed il profitto (eventuale) del ricevente sarebbe la risultante del valore prodotto dai capi di bestiame meno il valore dei prodotti ceduti come interesse. Contemporaneamente il bestiame rappresenta sia un bene fungibile che moneta1. Si può quindi sostenere, coerentemente con la concezione marxiana, che i capi di bestiame rappresentino, in questo esempio, un valore generatore di plusvalore. Se è vero che il capitalismo che conosciamo noi si sviluppa come risposta all’economia feudale, è altrettanto vero che forme arcaiche di economia capitalistica, nelle quali cioè è il denaro invece che la terra ad assumere un ruolo preponderante, si riscontrano anche nell’antichità. Tracce dell’esistenza di scambi di natura capitalistica sono state descritte nelle storie di vita babilonese da Kohler e Peiser e nei Testi Cuneiformi riguardanti i re persiani Artaserse I° e II°2. Parimenti il concetto di “azienda” (anche se non proprio con le caratteristiche di oggi) appare presente nella storia dell’antica Roma, una, di carattere bancario, ben descritta nei Philosophumena3, era quella che lo schiavo Callisto gestiva con i soldi del suo padrone. Tali esempi hanno al centro il profitto derivante dal commercio, sia per il valore mutevole che la merce assume tra uno scambio e l’altro, sia per il profitto generato dagli interessi. Il prestatore di capi di bestiame riceve un numero equivalente di capi, non muta cioè il suo “capi + tale”, ma ne ricava interessi in natura; il “bancario” Callisto procura al suo padrone un incremento di capitale tale da lasciar garantita la sua consistenza di partenza. Al riguardo appare interessante una storiella raccontata da Baldassare Boncompagni4 da questi attribuita a Leonardo Fibonacci (detto Pisano) inventore della famosa sequenza di numeri detta appunto successione di Fibonacci5.

“Un tale va per affari a Lucca, raddoppia il suo capitale e spende dodici fiorini; si reca quindi a Firenze, raddoppia il suo capitale e ne spende altri dodici; tornato a Pisa raddoppia il suo capitale, spende ancora dodici fiorini e non gli resta nulla. [...] Il capitale con cui il pisano si reca a Lucca, ammonta a dieci fiorini e mezzo, basta elevarlo a dodici, perché al pisano ne restino alla fine dodici, vale a dire, dopo un soggiorno in tre luoghi diversi, la stessa somma con cui era partito. E con un capitale originario di 13, gliene rimangono 20, con uno di 24, 118. È dunque chiaro come un lieve aumento di capitale fosse sufficiente a rendere redditizio il commercio, il cui profitto cresceva a ogni fiorino aggiunto”.6

Commercio e prestito ad interesse sono, quindi, il fondamento dell’economia capitalistica, ad essi si aggiunge poi la guerra come aveva intuito Aristotele già nel IV secolo a.c.: “neppure l’arte della guerra o della medicina hanno per scopo il guadagno, ma l’una mira alla vittoria e l’altra alla salute. Tuttavia alcuni ritengono queste arti atte a produrre guadagno, quasi fosse questo il fine e tutto si dovesse volgere al raggiungimento di esso”7. Il conflitto bellico governato dal capitale fa la sua apparizione sin dalle guerre puniche, che vedono la presenza di eserciti mercenari ed un gran fiorire di industrie per la fornitura di materiale bellico e di società specializzate in attività di “genio militare” (costruzione di strade e ponti). Racconta Tito Livio nella sua monumentale Storia di Roma che quando gli Scipioni si trovarono in difficoltà in Spagna, furono militarmente approvvigionati da società che ottennero in cambio una sorta di monopolio sugli appalti pubblici ed una assicurazione contro i rischi derivanti da lunghi periodi di pace. Va ricordato che Roma dava in appalto ogni tipo di lavoro pubblico, per cui il monopolio per le società private, dalle costruzioni tipicamente militari si estendeva alla realizzazione di acquedotti, edifici pubblici, fino alla edificazione di intere colonie. È lo storico Theodor Mommsen nella sua Römische Geschichte a raccontarci nei dettagli come contratti tra lo Stato e le società (o consorzi di più società) erano stipulati sulla falsariga di quelli che incontriamo oggi, citando un esempio dove attori sono consorzi di banche per la realizzazione di grandi opere che somigliano molto ai moderni consorzi tipo quello che si è aggiudicato la realizzazione del ponte sullo stretto di Messina, o anche alle cordate, vere o presunte, che si aggirano attorno al “malato” Alitalia. “La grande ricchezza di Roma proveniva dalla guerra organizzata su basi capitalistiche”8 sostiene Lujo Brentano e non si può non convenire con lui. Con la caduta dell’Impero Romano, l’Italia cessa di essere il crocevia di confluenza delle ricchezze ed il produttore principe di beni d’uso. Si avvia così un lento processo di ritorno dall’economia monetaria all’economia naturale: si entra, così, nel medioevo e nell’economia feudale. Ma resta un trait d’union, una costante nel tempo che non smette mai di mantenere la sua organizzazione capitalistica e questa costante si chiama guerra. Quel che si raccontava per le guerre puniche si trasferisce, con ovviamente tratti di modernità logici, nelle guerre combattute dalle repubbliche marinare italiane. Al riguardo ci sembra utile riportare una descrizione che ci dà De Mas Latrie:

Le spedizioni di guerra della Repubblica Genovese avvenivano mediante la cooperazione di due forze assai diverse: di coloro i quali vi partecipavano di persona, sia come condottieri, sia come semplici gregarii, e degli individui o delle società che contribuivano all’allestimento della guerra con i loro capitali. Nella Repubblica non esisteva obbligo di servizio militare, quando essa voleva intraprendere una guerra, inviava messaggeri lungo le riviere di Levante e di Ponente ad annunciare la spedizione, allora coloro che in quell’occasione erano disposti a prestare servizio, si radunavano nei quartieri, nei porti e sulle rive dei fiumi e nel giorno stabilito si recavano a Genova. Ogni volontario riceveva la sua paga e, inoltre, gli veniva riconosciuto un diritto a una quota del bottino, costituita di solito di vettovaglie, di armi e di schiavi. In epoca più tarda la Repubblica riservò per sé l’artiglieria presa al nemico. Un vistoso premio, prelevato in anticipo sul bottino comune, veniva inoltre promesso alla galera che per prima avesse catturato una nave della flotta nemica, o che per prima avesse piantato il suo vessillo sulle mura di una città assediata. Terminata la campagna, la maggior parte degli arruolati erano congedati e tornavano a casa. Contemporaneamente all’organizzazione delle truppe si costituivano società in accomandita, spesso riunite intorno ad una società generale, per fornire alla Repubblica il denaro, le vettovaglie e le galere occorrenti per la guerra.9

Ma un altro cogente esempio possiamo mutuarlo sempre dal Brentano:

... nel 1103 [Enrico I d’Inghilterra] concesse al conte Roberto di Fiandra il beneficio di una rendita annuale di 400 marchi, per i quali costui si obbligava a procurargli 1.000 cavalieri con tre cavalli ciascuno. Siccome i cavalieri non erano obbligati ad un tale servizio di guerra in forza del diritto feudale, il conte di Fiandra doveva a sua volta comprare i loro servigi. Egli era dunque un imprenditore capitalistico che acquistava prestazioni valutabili in denaro allo scopo di rivenderle.10

Tutto ciò si perfezionò durante le crociate quando si scatenò una vera e propria competizione tra i nobili nelle pretese di spartizione dei bottini, commisurate al loro livello di partecipazione “azionaria” alla crociata. Laddove ancora oggi le crociate sono studiate e reputate un punto nevralgico e di connotazione del medioevo con la sua economia feudale, sono tuttavia portatrici di quel germe di economia che ha dato fondamento al capitalismo moderno, con il commercio e la guerra che si connotano come il binomio, o forse meglio ancora, la simbiosi necessaria perché l’uno alimenti l’altra e viceversa. I Genovesi, ad esempio, come prima ci ha raccontato più genericamente De Mas Latrie, parteciparono già alla prima crociata con una vera e propria “SpA” che armò 12 navi con i contributi dei soci ai quali spettò poi un dividendo del bottino commisurato alla quota di partecipazione. Del resto le crociate intervennero quando già da tempo era in atto una sorta di competizione militare e mercantile tra Bizantini, Musulmani e Repubbliche marinare italiane (Venezia, Genova, Pisa e Amalfi) che Appoggiando con le loro flotte (e talora anche trasportando) gli eserciti crociati, ai quali essi fornivano anche un indispensabile appoggio nel campo dei rifornimenti, esse aggiunsero ai privilegi doganali ed ai fondachi, via via assicuratisi negli scali musulmani, nuovi e più ampi privilegi e quartieri negli Stati latini del Vicino Oriente.11

È interessante, al riguardo, quanto scrive, a proposito di Amalfi, Guglielmo Apulo:

Questa città appare ricca di beni, piena di gente, nessun’altra è più ricca d’oro, d’argento, di vesti preziose in luoghi innumerevoli, e moltissimi sono nella città i nocchieri, periti delle vie del mare e del cielo12. Qui anche dalla città di Alessandria son portate merci diverse, come pure da Antiochia. Questa percorre moltissimi mari e qui [in Amalfi] sono noti Arabi, Indiani, Siculi, Africani; questa gente è famosa quasi per tutto il mondo, desiderosa com’è di portar merci da vendere e di recarne di comprate.13

Un’altra espressione di mobilità del denaro e del credito è rappresentato da questo documento relativo ad un prestito con ipoteca risalente al 1080:

Nell’anno millesimo ottantesimo, mese di luglio indizione prima. Io Giusta, figlia di Domenico Mastalico, vedova di Domenico Foscari, coi miei eredi e successori dichiaro che ho ricevuto da te Domenico Eglaudario, mio genero, e da Lucia, tua moglie e mia figlia, e dai vostri eredi libre cento di denari buoni della nostra moneta, che ci avete dato a prestito per provvedere a mie necessità, in siffatto mio accordo e nostra statuizione per cui io debbo tenerle presso di me da ora fino al futuro primo agosto e allora prometto di darvi le nominate cento libre di denari. Che poi se verrà codesto primo d’agosto e non vi avrò dato le dette cento libre ed in tutto non vi avrò reintegrato [...] prometto di darvele in doppio e restituirvele senza alcun indugio e senza alcuna dilazione; e per maggiore sicurezza vi pongo a disposizione con vincolo di fiducia qual pegno tutto lo stesso mulino posto nella palude vicino a Campalto con tutte le sue pertinenze. [...] Così pongo tutte le cose in vostro potere quale pegno di valore doppio dello stesso vostro prezzo, cosicché se non provvederò a reintegrarvi nel termine e nei modi stabiliti più sopra, in tal caso vi attribuiscano il potere di accedere a codesto vostro pegno nella sua totalità.14

È il denaro, quindi, già da tempi lontani, il motore dell’economia, almeno negli aspetti più avanzati presenti in quelle società all’avanguardia nell’Europa dell’anno mille. Quindi la formula M-D-M (Merce-Denaro-Merce) è già presente nella nota variante marxiana D-M-D’ (Denaro-Merce-maggior Denaro). In questo prestito con ipoteca avviene anche un altro evento che lo contraddistingue nella sua matrice capitalistica e non feudale: il fatto che i singoli, pur appartenendo ad un’unica famiglia, diventano unità economiche indipendenti che regolano i loro reciproci rapporti monetari. Quindi è con l’avvento della moneta che il rapporto monetario prende il sopravvento sul rapporto tradizionale per ceto, si realizzano perciò rapporti contrattuali improntati su un unico livello di contrattazione teso a determinare, per ciascuno dei soggetti partecipanti, il massimo guadagno. Come direbbe Samuel Johson: “il denaro distrugge ogni rapporto di supremazia e di subordinazione, essendo più potente della differenza di rango e di nascita e indebolisce l’autorità”15. Karl Marx ne Il Capitale colloca la nascita del capitalismo moderno nel XVI secolo “sebbene i primi inizi della produzione capitalistica si possano già intravvedere, in maniera sporadica, nei secoli XIV e XV in alcune città del Mediterraneo”16. Condividere questa posizione non stride con quanto sinora sostenuto; l’analisi di Marx infatti tiene conto di diversi aspetti concorrenti alla nascita del capitalismo che rendono la questione più completa e scientifica. Per Marx non si può parlare di capitalismo senza la completa affermazione della borghesia che, come sappiamo, può datarsi proprio nel periodo suindicato. Affermazione che segna il taglio netto con il feudalesimo, come lo stesso autore aveva già scritto su Il Manifesto:

La borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario. La borghesia ha distrutto i rapporti feudali, patriarcali, idillici dovunque abbia preso il potere. Essa ha spietatamente stracciato i variopinti lacci feudali che legavano la persona al suo superiore naturale, e non ha salvato nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il crudo “puro rendiconto”17.

E se furono proprio il commercio e la manifattura a far nascere e crescere la borghesia ecco che appare evidente l’affermazione: “il commercio moderno e il mercato mondiale iniziano nel secolo XVI la storia moderna della vita del capitale”18. Marx aveva colto il fenomeno in tutti i suoi passaggi per restituirci, ancora straordinariamente attuale, una tesi temporale largamente condivisibile non solo dai marxisti. Del resto anche nella introduzione a Per la critica dell’economia politica, solo qualche anno prima della stesura definitiva del primo volume de Il Capitale, Marx aveva sostenuto:

Lo stesso capitale nel Medioevo, se si fa eccezione da quello puramente monetario, come tradizionali strumenti degli artigiani ecc., ha la fisionomia della proprietà fondiaria. Nella società borghese avviene l’opposto. L’agricoltura è destinata a diventare una semplice appendice dell’industria ed è del tutto dominata dal capitale.19

L’Italia, almeno come “espressione geografica”20, ha avuto, nel passato, come si è visto, un ruolo determinante. Dall’Impero Romano alle più recenti Repubbliche Marinare, il commercio, il prestito ad interesse e la guerra sono stati gli snodi centrali dello sviluppo dell’economia capitalista. Ai nostri giorni, la storia recente ce la racconta magistralmente, con il suo Storia di un Capitalismo piccolo piccolo21 Luciano Vasapollo ed i paragoni e le similitudini con il passato se non impossibili risultano a dir poco problematici. Un resoconto impietoso quello di Vasapollo, ma non per questo fraudolento, del capitalismo moderno italiano, dalla fase del capitalismo di Stato, fino all’attuale allegra gestione delle privatizzazioni dell’ultimo decennio, con l’illegalità che spesso la fa da padrona. Traspare evidente che le radici più profonde del mancato sviluppo economico italiano, non risiedono nella storia economica e politica del nostro paese (con tutte le contraddizioni che, come abbiamo visto, si possono rilevare) ma in una classe dirigente che spesso ha interpretato il mero ruolo di classe dominante anziché essere motore della modernità. Vasapollo parte proprio dagli effetti del secondo conflitto mondiale per ricostruire l’anomalo sviluppo del capitalismo italiano quando: ... l’Italia si accingeva a entrare negli anni del cosiddetto miracolo economico. Non si trattava di un fenomeno isolato: coincideva piuttosto con una fase di crescita generale del vecchio continente, che registrava trend positivi equivalenti al doppio di quelli evidenziati nei cento anni precedenti.22

Ma sono anche gli anni nei quali lo sbilanciamento verso la grande industria a discapito degli altri settori produttivi e il disequilibrio nord/sud creano i presupposti della deriva economica di oggi, unitamente al lento affievolirsi del conflitto sociale che trova una logica interpretazione nell’altro lavoro del Direttore scientifico di Proteo, Eppure il vento soffia ancora23. La stortura evidente è che il capitalismo

... nel momento in cui si riducono profitti e spazi di manovra prende ad aggredire con rinnovata recrudescenza, il mondo del lavoro, le risorse e i livelli di democrazia, redistribuzione, garanzie scaturiti nel corso della lunga lotta tra capitale e lavoro.24

Ed è per questo che l’autore conclude:

Ormai è chiaro a molti che il capitalismo non è riformabile; gli effetti devastanti che ha prodotto sulle condizioni di vita dei lavoratori, sulla sicurezza sociale, sulle prospettive e sulle aspettative di futuro della gente comune, sulle condizioni ambientali e di pura sopravvivenza sul pianeta, il continuo smantellamento dello Stato di diritto, mostrano che proprio oggi, nella fase della sua maggiore aggressività, il mondo della legge del profitto scricchiola sotto il peso dei suoi fallimenti ed è più fragile che mai.25

Un chiaro j’accuse al mondo politico assolutamente al servizio dei vari potentati economici attualmente titolari delle nostre vite; eppure non sono posizioni registrabili solo nella sinistra antagonista; basterebbe tornare con la mente agli anni ’60, alla dottrina sociale della Chiesa, per incontrare posizioni non dissimili. Nell’enciclica Mater et Magistra di Papa Giovanni XXIII il pontefice sostiene che

Lo Stato, la cui ragion d’essere è l’attuazione del bene comune nell’ordine temporale, non può rimanere assente dal mondo economico; deve essere presente per promuovervi opportunamente la produzione di una sufficiente copia di beni materiali, l’uso dei quali è necessario per l’esercizio della virtù e per tutelare i diritti di tutti i cittadini, soprattutto dei più deboli, quali sono gli operai, le donne, i fanciulli. È pure suo compito indeclinabile quello di contribuire attivamente al miglioramento delle condizioni di vita degli operai. È inoltre dovere dello Stato procurare che i rapporti di lavoro siano regolati secondo giustizia ed equità e che negli ambienti di lavoro non sia lesa, nel corpo e nello spirito, la dignità della persona umana.26

Sull’avviso di una possibile catastrofe nelle more dello sviluppo del capitalismo ci aveva già preavvisato Lujo Brentano, più volte preso a riferimento in questo lavoro, egli dà per scontato che il denaro possa prendere il sopravvento allorché il commercio penetra profondamente nell’economia, ponendo così le basi perché sia il mercato a dettare le leggi al posto dell’uomo27. Il neoliberismo ne è l’estrema conseguenza.

Comitato di Redazione e Programmazione di PROTEO

Cfr. Brentano, L., Ueber Anerbenrecht und Grundeigentum, Berlino 1895, pp. 17-18.

Kohler, J e Peiser, F. E., Aus dem Babylonischen Rechtsleben, IV, Leipzig, 1898, p. 21 e Cuneiform Texts ed. da Hilprecht, H. V. e Clay, A. T., Philadephia, 1898 e 1904.

Opera di Sant’Ippolito di Roma (Asia 170 circa - Sardegna 235)

Boncompagni, B. Della vita e delle opere di Leonardo Pisano, Tipografia delle Belle Arti, Roma 1852.

La successione di Fibonacci è una sequenza di numeri interi naturali in cui ogni numero, a parte i primi due, è la somma dei due che lo precedono. Vedi anche (a cura di) Della Giustizia, C., Giochi matematici del Medioevo, Mondadori 2006.

In Brentano, L., Le origini del Capitalismo, Sansoni “Nuova Biblioteca”, 1978, pag. 79-80.

In Brentano, L., Le origini del Capitalismo, op. cit. pag. 66.

In Brentano, L., Le origini del Capitalismo, op. cit. pag. 26-27.

De Mas Latrie, L., Traités de paix et de commerce et documents divers concernants les relations des Chretiéns avec les Arabes de l’Afrique septentrionale au Moyen Age, vol. II, Paris 1866, pp. 366-367.

Brentano, L., Le origini del Capitalismo, op. cit. pag. 48-49.

Bendiscioli, M. e Gallia A., Documenti di storia Medioevale 400-1492, Mursia, 1974 pag. 148.

Ovviamente qui “periti del cielo” significa capacità di saper navigare seguendo le indicazioni delle stelle.

Ibidem pag. 151.

Ibidem pag. 154.

Johson, S. Works, vol. VIII,l p. 351.

Marx, K., Il Capitale, vol. I, in Brusa Zappellini, G. (a cura di), Marx, Breviari Bompiani, 2003, pag. 167.

Marx, K., Il Manifesto del Partito Comunista, Edizione online su Liberliber.it, cap. I, Borghesi e Proletari.

Marx, K., Il Capitale, vol. I, in Brusa Zappellini, G. (a cura di), Marx, op. cit., pag. 167.

Marx, K., Per la critica dell’economia politica, vol. I, in Brusa Zappellini, G. (a cura di), Marx, op. cit., pag. 163.

Il paragone con la famosa definizione di Metternich è del tutto voluto.

Vasapollo, L., Storia di un Capitalismo piccolo piccolo, Jaca Book editore, 2008.

ibidem pag. 55.

Antoniello, D. e Vasapollo, L., Eppure il vento soffia ancora, Jaca Book editore, 2006.

Vasapollo, L. Storia di un Capitalismo piccolo piccolo, op. cit. pp. 363-364.

ibidem pag. 368.

Papa Giovanni XXIII, Mater et Magistra, Enciclica in Dalla “Rerum Novarum” alla “Mater et Magistra” a cura di Crespi, C. Cardone, G., Massimo editore, 1962.

Cfr. Brentano, L., Le origini del Capitalismo, op. cit. pag. 120.