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Il punto, la pratica, il progetto

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

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Incontro-dibattito in occasione della presentazione del volume

LE PENSIONI A FONDO

Luciano Vasapollo

28 febbraio 2000, c/o INPDAP,Via di Santa Croce in Gerusalemme 55, Roma

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La relazione che di seguito esporrò è, ovviamente, basata sul contenuto di parti del libro “Le pensioni a fondo”, scritto con Rita Martufi, pensato con le RdB e che oggi stiamo presentando. Mi soffermerò, però, in particolare su considerazioni di carattere politico-economico, le quali, comunque, derivano dal supporto scientifico, dai tantissimi dati statistici presenti nel libro che ne danno una struttura di analisi di tipo statistico-economico; dati ed elaborazioni statistiche che non mi sembra opportuno esporre perché appesantirebbero notevolmente questa relazione.

Il libro parte da un’analisi storico-economica sul sistema previdenziale analizzando le varie ipotesi di riforma, fino ad arrivare all’attuale piano di privatizzazione attraverso il definitivo lancio dei Fondi Pensione; si effettua, così, una panoramica statistico-economica che mostra il percorso che sta portando alla lenta distruzione del sistema previdenziale pubblico.

Sono ormai diversi anni che il sistema pensionistico pubblico in Italia è fatto oggetto di attacchi che fanno perno sul suo assetto molto precario e critico, sull’andamento demografico, sui nuovi modelli culturali, sul nuovo mercato del lavoro, sulle trasformazioni economiche e sociali, che, aggiunti alla presenza di una normativa atipica che crea differenze di trattamento tra i diversi beneficiari, hanno portato ad ipotizzare il cosiddetto “crack delle pensioni”, previsto inizialmente per l’anno 2000, poi spostato al 2020 ed oggi proiettato al 2050.

Il processo di transizione normativa, strutturale e finanziaria della previdenza pubblica e privata in Italia, ha tenuto poco conto delle trasformazioni sociali ed economiche del Paese, della struttura del mercato del lavoro, delle dinamiche della vita sociale e familiare, delle modificazioni demografiche, della globalizzazione finanziaria e culturale. Non si è tenuto conto che il sistema pensionistico pubblico può essere difeso considerando i nuovi assetti produttivi e dello sviluppo, valorizzando nuovi fattori, come, ad esempio il nuovo modello dell’occupazione, la nuova struttura sociale, l’impatto dell’immigrazione, la diversa qualità della vita, la presenza di nuove forme di lavoro e di socialità in un contesto fortemente terziarizzato.

A queste trasformazioni e ad altre, ovviamente, deve corrispondere anche una modificazione della previdenza, modificazioni che sono invece incanalate e soffocate esclusivamente da vincoli di opportunità politica di basso profilo.

E’ chiaro che per analizzare il sistema pensionistico è necessario evidenziare la marcata interconnessione esistente tra sistema assistenziale-previdenziale e le problematiche di carattere economico e demografico. Ma ciò deve avvenire in maniera corretta e non “aggiustando” le analisi in funzione di scelte già effettuate a priori e aventi motivazioni esclusivamente di carattere economico-finanziario, o meglio, tenendo l’attenzione a forzati equilibri di bilancio pubblico e a patti di stabilità consoni a dinamiche forzate di finanziarizzazione che nulla hanno a che vedere con i cittadini, se non in termini di compressione dei loro diritti sociali.

A partire da previsioni forzate e volutamente allarmistiche sull’andamento economico e demografico futuro, si sono intensificate le dispute sulla riforma, o meglio su “finte” riforme, del sistema pensionistico. Riforme tutte tese semplicemente, ed esclusivamente, ad abbattere il sistema pubblico, per favorire le pensioni integrative private e lanciare anche nel nostro Paese i Fondi Pensione, rafforzando i processi di finanziarizzazione dell’economia. In effetti sia nel caso della Riforma Amato sia per la Riforma Dini, e le diverse modifiche e correzioni seguite, si è trattato di “finte” riforme poiché non si è guardato alle dinamiche di sviluppo del sistema pensionistico ma a semplici aggiustamenti ragioneristico-contabili, funzionali esclusivamente ad ipotetiche quadrature contabili di bilancio senza tener conto in alcun modo del loro impatto sociale.

Si vuole, comunque, osservare che, prima delle Legge 335 (Dini) le previsioni davano un rapporto tra spesa pensionistica e PIL del 23%, oggi siamo a circa il 14% e le previsioni al 2030 della Ragioneria Generale dello Stato sono del 16%. La cosiddetta “gobba”, cioè l’aumento di circa il 2% da oggi al 2030, è basata su un ipotizzato incremento del PIL, fino al 2050, di un punto e mezzo, ma tutto fa pensare ad una dinamica del PIL mediamente più consistente se si prenderanno decisioni politico-economiche capaci di liberare le risorse ancora soffocate della società post-fordista e post-industrialista, se si supereranno le logiche monetariste di Maastricht, se si avvieranno al lavoro più giovani, più donne, se si migliorerà la qualità dell’occupazione.

Analizzando, ad esempio, i dati statistici utilizzati per le previsioni, ed in particolare quelli riferiti al bilancio dell’INPS, si giunge frettolosamente alla conclusione che dal momento che le spese superano le entrate e che i disavanzi sempre crescenti possono essere colmati solo dall’intervento dello Stato, l’INPS non può più sopravvivere. Ma se vogliamo capire, anche in questo caso non bisogna soffermarsi all’evidenza immediata. Innanzitutto le spese degli ultimi anni sono inferiori di quelle previste, inoltre va analizzato più specificatamente il contenuto delle voci di spesa sostenute dall’INPS. Infatti, se dal bilancio dell’INPS vengono tolte le spese per le attività non previdenziali, le pensioni di natura assistenziale, si ottengono quelle strettamente previdenziali che hanno avuto negli ultimi anni saldi quasi sempre positivi; e infine si vuole ricordare che tra le spese assistenziali INPS vi sono molti trasferimenti diretti e indiretti alle imprese. Le statistiche ufficiali considerano tra le spese previdenziali anche gli accantonamenti per il TFR delle imprese, voce presente solo nel nostro Paese e che incide per l’1,5% del PIL; va inoltre considerato un altro 2% del PIL imputabile al fatto che la spesa pensionistica italiana è valutata al lordo delle ritenute fiscali; il tutto fa un 3,5% che, anche se non sommato al peso delle pensioni assistenziali e ai trasferimenti alle imprese, diminuisce il rapporto spesa previdenziale/PIL portandolo certamente al di sotto degli altri paesi europei. Tutto ciò permette ragionevolmente di invertire l’ordine del problema: la verità è che in Italia il peso della spesa previdenziale è largamente più basso della media europea.

Va considerato poi un altro aspetto: si registra che gli uomini in età lavorativa sono occupati per circa i due terzi e che se le condizioni di lavoro non rimarranno immutate in termini di struttura, anche considerando il calo demografico, non si avrà una riduzione della popolazione in età lavorativa; infatti si presume che, in una società fortemente terziarizzata, nella società del “quaternario” o addirittura del “quinario”, saranno sfruttate le enormi possibilità di risorse umane inutilizzate, sia in campo femminile, sia con i lavoratori immigrati, sia sfruttando al massimo le risorse del capitale intangibile in un lavoro sempre più a carattere intellettuale, potendo così aumentare le possibilità di finanziamento di un forte ed equilibrato sistema previdenziale pubblico.

Ci sembra invece che a tutt’oggi il problema delle pensioni e del loro costo sulla collettività continui a sollecitare ipotesi sicuramente succubi e, spesso, di vera promozione dei processi di finanziarizzazione dell’economia, lanciando messaggi volutamente catastrofici, di vero e proprio allarmismo sociale, sostenendo che il futuro del Paese e le possibilità lavorative delle giovani generazioni dipendano da una riforma in chiave ancora più restrittiva del sistema di previdenza pubblica.

Si alterano, così, dati, proiezioni, in funzione di considerazioni apocalittiche orientate allo smantellamento dello Stato sociale, alla nascita di un nuovo Welfare; un Profit State, così lo abbiamo definito, che contrappone i giovani agli anziani, i lavoratori ai pensionati, in conflitti orizzontali tesi a favorire i Fondi Pensione, quindi le grandi imprese, le multinazionali, le banche, le assicurazioni, i processi di finanziarizzazione dell’economia, a danno dello sviluppo, dell’occupazione, del salario diretto, indiretto, differito, ostacolando gli stessi investimenti produttivi.

E’ in quest’ottica che va letto il conflitto per la riforma del TFR, in quanto in gioco è l’abbattimento di un altro pezzo di Stato sociale, è il predominio dell’economia finanziaria su quella produttiva, è una battaglia sul costo del lavoro e la redistribuzione dei redditi. Altro che volontà di consentire ai lavoratori una “libera scelta”, se la prospettiva è quella di togliere un ammortizzatore socio-economico, fondamentale in una società in cui sempre più facilmente si perde il posto di lavoro e in cui sempre più frequentemente si ricorre a spese familiari straordinarie per un continuo minore supporto pubblico. Quale “libertà di scelta” se aumenta la tassazione del TFR mantenuto eventualmente in azienda; se si vuole ridurre ulteriormente l’aliquota fiscale agevolata dell’11% sui Fondi Pensione; se si ipotizza una penalizzazione fiscale dei riscatti; se si aumentano gli obblighi di conferimento ai Fondi Pensione e si disincentivano al massimo le possibilità di starne fuori o di uscirne a qualsiasi titolo prima dell’età di pensione; e infine se si vuole togliere anche la possibilità di un Fondo unico a controllo pubblico.

Il predominare della forma privata di previdenza su quella pubblica significa ulteriore abbattimento del costo di lavoro, diminuzione delle aliquote contributive a carico delle imprese e nuove forme di incentivi alle imprese, sia alle grandi con una maggiore disponibilità di liquidità nei mercati borsistici, e sia alle piccole e medie imprese, con forme di remunerazione a compensazione degli oneri supplementari nel caso di versamento nei Fondi e degli ipotetici maggiori oneri finanziari dovuti al ricorso al finanziamento del mercato creditizio sostitutivo dell’autofinanziamento da TFR.

Si continua, in ultima istanza, comunque, a realizzare, direttamente o indirettamente, spostamenti redistributivi del reddito dai lavoratori alle imprese con significativi peggioramenti del salario diretto, indiretto e differito.

I flussi finanziari potenzialmente attesi dai Fondi Pensione sono ingenti. Questi erano stati stimati per il quinquennio 1996-2000 tra i 5mila e gli 8mila miliardi, per un totale di 6 milioni di lavoratori dipendenti coinvolti, e nell’arco degli anni 2001-2005 tra 10mila e 14mila miliardi, fino ai 16mila-20mila del periodo 2006-2010. E ciò in aggiunta ai flussi per l’attività dei circa mille Fondi Pensione preesistenti, che prima del 1993 interessavano 1.600.000 lavoratori, con una riserva patrimoniale di circa 30mila miliardi. Si sostiene che i rendimenti futuri degli investimenti nei Fondi siano addirittura di 2, anche 3 punti superiori alla crescita del PIL, mentre lo stesso Modigliani, nella sua proposta di passaggio al sistema a capitalizzazione, sostiene che il nuovo sistema deve assolutamente vedere la compresenza dello Stato che può essere l’unico garante per i pensionati, vista l’estrema incertezza dei rendimenti borsistici.

Si introduce, così, pesantemente la logica forzata del ricorso ai Fondi Pensione senza considerare i crack finanziari e le ripercussioni estremamente negative sull’economia reale, che hanno prodotto ad esempio i Fondi inglesi e statunitensi.

Da un punto di vista teorico, si tenta di attribuire all’introduzione dei Fondi Pensione nel nostro Paese la capacità di sviluppare fortemente il mercato borsistico italiano, ancora asfittico ed arretrato rispetto a quello degli altri paesi a capitalismo avanzato, e si dimentica che la Borsa italiana è arretrata proprio per la scarso numero di società quotate, e lo sviluppo dei Fondi Pensione, anzi favorirebbe la domanda di azioni e non l’offerta, destabilizzando ulteriormente il mercato interno e rafforzando le Borse di area anglosassone e nipponica.

Si afferma, inoltre, che i Fondi Pensione dovrebbero avere un effetto stabilizzante, capacità di consentire un allungamento della vita media del debito pubblico, di stimolare la propensione al risparmio attraverso una diversificazione degli strumenti finanziari offerti ai risparmiatori, favorendo inoltre il processo di riallocazione della proprietà delle imprese del nostro sistema produttivo, agendo così da veicolo per la diffusione dell’azionariato popolare, dell’allargamento delle basi di democrazia economica. Ma nella realtà degli altri paesi dove i Fondi Pensione sono più diffusi, paesi nei quali i mercati finanziari hanno spessore ed estensione molto più significativa di quello italiano, si sono verificati episodi drammatici che hanno dimostrato che la rincorsa al facile profitto speculativo ha provocato liquidazioni impreviste, ha incentivato la realizzazione di politiche speculative di breve termine e il quasi esclusivo investimento dei Fondi sul mercato azionario; contrastando così con la finalità di tipo previdenziale che doveva essere assolta, e provocando in momenti di calo borsistico dei veri propri crolli con ripercussioni impressionanti sulla stabilità del Fondo e sull’andamento generale dell’economia.

L’esperienza ha, quindi, dimostrato che i Fondi Pensione diventano fattore destabilizzante non solo del corso dei titoli ma dello stesso assetto economico-sociale e politico dei vari paesi che di volta in volta diventano bersaglio della speculazione finanziaria internazionale, creando seri scompensi sociali in termini di sottrazione di risorse agli impieghi in investimenti reali, quindi aumentando la disoccupazione, abbattendo nel contempo le garanzie sociali collettive. È assurdo allora pensare che i problemi legati alla crisi della previdenza pubblica possano essere risolti con lo sviluppo dei Fondi Pensione e della previdenza privata.

Un’ultima considerazione: la strategia dominante, quindi, è quella di realizzare un sistema contributivo privato per tutti. Ma se si considera che si vuole un mercato del lavoro sempre più flessibile, precario e intermittente, con quindi sempre più bassi contributi versati, allora si deve dire la verità: adottando il sistema contributivo si otterrà una pensione da miserabili dopo una vita di lavoro con stipendi e redditi da miserabili. L’enorme schiera dei lavoratori atipici, parasubordinati sono fortemente scoperti con l’attuale sistema di previdenza pubblica obbligatoria, ma non si può loro proporre un sistema privato a capitalizzazione. Si realizzerebbe così questa assurda relazione: per sperare di avere una pensione di vecchiaia più alta bisognerà ridurre i già precari redditi durante la vita lavorativa per sottoscrivere un Fondo Pensione. Comunque vadano le cose, il reddito calcolato sull’intero arco di vita risulterà fortemente dimensionato.

Si sviluppa, così, un sistema economico con il quale si costruisce una società con maggiori differenziazioni sociali, in cui è sempre più ridotto il sistema di protezione sociale a favore delle fasce di cittadini più deboli, fasce che diventano sempre più grandi andando a comprendere anche quegli strati di società che fino a pochi anni fa erano considerate protette (lavoratori del pubblico impiego, artigiani e commercianti), creando quindi nuove povertà, ampliando in sostanza l’area dell’emarginazione sociale complessiva.

Così facendo la società del terziario avanzato non libera nuove risorse, non risolve nuovi bisogni, ma con l’attuale modello crea solo nuove esclusioni, nuove emarginazioni.

E con la privatizzazione della previdenza, una previdenza del mercato e del profitto si rompe definitivamente il vincolo solidaristico intergenerazionale, si distruggono le prospettive di una tranquilla anzianità per il singolo lavoratore. Con la privatizzazione della previdenza, oggi, si possono spegnere le speranze di liberare finalmente lo svolgimento di un’economia capace di garantire equilibri sociali, crescita economica ed umana, misurata attraverso la capacità di distribuire socialmente reddito e ricchezza a partire da una vera riforma del sistema pensionistico, capace di ricercare i modi e i tempi per mantenere le compatibilità di un moderno sistema pensionistico pubblico. “Riformare”, non solo e non tanto in chiave contabile-finanziaria, ma porsi il problema di una corretta divisione fra spese previdenziali e spese assistenziali; considerare i nuovi assetti del mercato del lavoro; badare meno alle forzate compatibilità dell’Europa del capitale finanziario. Bisogna lanciare, invece, progetti di sano riformismo che tengano conto di una seria lotta all’evasione ed elusione contributiva da parte delle imprese; progetti capaci di far correttamente emergere l’economia sommersa, realizzando un assetto contributivo che potrebbe prendere linfa vitale dalla regolarizzazione delle mille forme del lavoro nero, atipico, a termine, a tempo determinato, intermittente, flessibile, falsamente autonomo e dal ruolo attivamente contributivo che può assumere il regolare avviamento al lavoro di un maggior numero di donne, di giovani e della popolazione immigrata.

Il coraggio di mettere da subito all’ordine del giorno un nuovo senso dell’interesse sociale e generale può partire dal garantire degne pensioni ai nuovi lavoratori atipici, rafforzando il sistema pensionistico pubblico, incanalando nel suo finanziamento oltre ai redditi da lavoro anche fonti di reddito da capitale; tassazione dei capitali che come CESTES proponiamo da diversi anni, anche per finanziare il Reddito Sociale Minimo per disoccupati e precari e per coprire le spese aggiuntive per l’assunzione nella Pubblica Amministrazione dei Lavoratori Socialmente Utili, cioè del precariato istituzionalizzato.

La soluzione è da ricercare in un rafforzamento del sistema previdenziale pubblico, in un aumento del suo grado di efficienza, in una ricerca di equilibrio strutturale fra entrate e spese, fra modi di finanziamento e tipi di prestazioni. Ciò può avvenire soltanto dal ripristino della certezza dei diritti acquisiti, dall’allargamento della base occupazionale, dalla regolarizzazione delle mille forme di lavoro nero e atipico, da politiche immediate di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, da una seria lotta all’evasione ed elusione fiscale e contributiva e da forme significative di tassazione delle rendite finanziarie e dei movimenti di capitale finanziario a carattere speculativo.

La prospettiva deve essere quella di incanalare il risparmio verso investimenti produttivi, capaci di creare lavoro, di creare ricchezza non misurabile esclusivamente in termini di PIL, ma in termini di crescita di socialità, di civiltà e di umanità.

Serve coraggio politico, regole di controtendenza, politiche-economiche realmente riformatrici che pongano lo Stato non solo come garante degli equilibri, ma con funzioni di nuovo Stato interventista e occupatore, che crei nuovo e diverso lavoro, capace di attuare e regolare l’efficienza del sistema orientato al rafforzamento di un reale nuovo Welfare State. Uno Stato sociale che garantisca i diritti acquisiti dei lavoratori, dei pensionati, di tutti i cittadini, che soddisfi nuovi bisogni, a partire da un più moderno sistema di tassazione che si sposti significativamente verso le transazioni dei capitali finanziari a carattere speculativo, cominciando da un finanziamento del sistema pensionistico pubblico che deve essere effettuato, oltre che con redditi da lavoro, anche con una diretta partecipazione contributiva da fonti di reddito derivanti dal capitale e dalla rendita finanziaria.