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In difesa della Cina contro l’eurocentrismo
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In difesa della Cina contro l’eurocentrismo

JAFFE HOSEA

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Premessa

Con tutto il dovuto rispetto, l’articolo di Biagio Borretti pubblicato in questo numero di Proteo, non è compatibile né con un’analisi basata sul Das Kapital di Marx né con i principi dell’Imperialismo di Lenin. La nota dolente sta nella parte finale del suo scritto, quando chiama la “sinistra di classe occidentale” alla “solidarietà [...] hic et nunc, nel proprio paese” con “il proletariato cinese in lotta per la liberazione dalle catene. Oggi più che mai... mondiali”. Dal momento che B.B. ritarda la sua analisi all’ultima frase del suo articolo, abbiamo il diritto morale di replicare, come abbiamo fatto sin dalle nostre primissime righe. Inoltre, dimostreremo che la sua posizione è tipica di un paternalista, condiscendente marxismo eurocentrico, che per brevità chiameremo euromarxismo.

1. Sostegno ad una controrivoluzione?

È chiaro che (i) nessun progresso per i popoli coloniali e semi-coloniali possa essere raggiunto senza che questi conducano rivoluzioni sociali anticapitaliste ed antimperialiste; e (ii) che l’internazionalismo richiede la solidarietà incondizionata e la difesa del suo progresso. L’articolo summenzionato fallisce su entrambi i fronti, perché: (a) non riesce a fornire la base della sua logica, e cioè che ci sarebbe stata, di fatto, una controrivoluzione che avrebbe capovolto lo Stato creato dalla rivoluzione cinese del 1949; (b) si oppone allo Stato cinese ed implicitamente (esplicitamente nell’ultima frase) parteggia per una controrivoluzione anti-PCC in nome della “lotta per la liberazione dalle catene”, “hic et nunc” e sostenuta dalla “solidarietà” del “proletariato occidentale”. Senza andare oltre, ci si permetta di dire che il “proletariato occidentale” non ha mai, e dico: mai, sostenuto in modo rivoluzionario ed in massa alcuna lotta dei popoli coloniali e semi-coloniali per - sia consentita l’espressione - la “liberazione nazionale” dall’imperialismo. Perché mai dovrebbe farlo adesso? Che B.B. sostenga che la Cina sia diventata così malvagia da divenire uno Stato imperialista - una tesi così assurda da non spenderci parole a riguardo? Nel suo infelice ultimo paragrafo, B.B. scrive degli “ultimi sprazzi di Welfare state di keynesiana memoria” e dei suoi “alti tassi di profitto per potersi permettere il lusso del compromesso storico”. In breve sostiene che il “proletariato occidentale” derivò, tra le altre cose, i suoi alti salari dall’alto tasso di profitto che esso - e non gli operai cinesi e così via - creava per le classi (imperialiste) capitaliste. Vi sono due non-verità in merito: (i) il tasso di profitto nei paesi imperialisti (OCSE) non è alto, anzi è circa il 30% o meno degli alti tassi di profitto indiani e di altre semi-colonie di tali paesi capitalisti; (ii) gli alti salari del proletariato nei paesi imperialisti consiste in buona parte (più del 30%) di super-profitti realizzati grazie al super-sfruttamento dei lavoratori del Terzo mondo. In breve, il “proletariato occidentale” di B.B., sin da quando il capitalismo imperialista faceva i suoi primi passi (1870-1900), è stato uno sfruttatore del proletariato delle colonie e delle semi-colonie. E B.B. vorrebbe che questa classe aiutasse a “liberare” i lavoratori cinesi! Liberare da cosa? B.B. ce lo dice: dalle “classi dominanti cinesi e da quella borghese transnazionale che opera in Cina con l’esportazione dei capitali, con le joint venture” e dalla “burocrazia” del Partito Comunista Cinese (PCC). Ma B.B. sconfessa il suo stesso argomento ammettendo la continuata massiccia esistenza, socialmente così come politicamente, del PCC e cioè ammette che non c’è stata, almeno finora, una controrivoluzione che ha rovesciato lo Stato della Repubblica Popolare della Cina (RPC). Due conclusioni: (i) la Cina è ancora uno Stato socialista (qualunque cosa ciò significhi questa contraddizione in termini per i marxisti, i leninisti e la “sinistra di classe occidentale”); (ii) è necessario - stando alla logica dell’argomentazione di B.B. - che vi sia una seconda rivoluzione sociale che debba, necessariamente, rovesciare la RPC. Poiché questa seconda rivoluzione sociale dovrà e deve - stando all’euromarxismo di B.B. - coinvolgere attivamente il proletariato occidentale (che però in passato si è ritrovato a difendere - è un dato di fatto storico - il capitalismo-imperialismo contro tutte le rivoluzioni socialiste - dalla Russia alla Cina, al Vietnam, a Cuba fino alla Jugoslavia), le ultime asserzioni di B.B. possono, volente o nolente, avere un solo significato: una controrivoluzione appoggiata dalle vere classi imperialiste statunitensi, europee e giapponesi che egli - con mitezza - chiama “classe borghese transnazionale che opera in Cina con l’esportazione dei capitali”.

2. La lode euromarxista al “giovane proletariato cinese”1

Come ebbe a dire anche Shakespeare: “Le lodi possono uccidere”. Con quanta sfacciataggine B.B. chiama uno dei più antichi proletariati del mondo - il proletariato che fu nel mezzo della più grande lotta di classe della storia, la ribellione dei Taiping del 1852-1864 contro la dinastia Manchu e l’imperialista guerra dell’oppio guidata dai britannici, razzisti invasori armati di cannoniere ed al grido di “non si accettano cinesi e cani” -: (i) il “giovane proletariato cinese”, “nuovo arrivato” e (ii) “la più vasta porzione del proletariato mondiale” (attualmente esso è inferiore al 25% degli 800 milioni di forze-lavoro cinesi, e meno del 40% dei 650 milioni di proletari occidentali (dati ricavati da CIA: 2008, sommando i dati di USA, Canada, UE, Giappone e dei “proletari”-occupanti in quella che gli eurocentrici chiamano ancora “America latina”); (iii) e sostiene di dover “cominciare seriamente a sviluppare un percorso di “mondializzazione” delle coscienze e della solidarietà tra le classi sfruttate”, pretendendo che i tassi di plusvalore (profitti/salari) del “proletariato occidentale” siano simili a quelli dei lavoratori cinesi, indiani, quando invece è risaputo che il tasso dei primi è di circa 1/3 mentre per gli ultimi il rapporto è di circa 3:1, e cioè 9 volte più alto del “proletariato occidentale”).

3. La storiella della “conflittualità” tra il popolo e lo Stato

La storiella della “crescita della conflittualità” comparata con la crescita del PIL è stata ingigantita al di là delle vere dimensioni dalle lobby liberal-statunitensi anticinesi e dalla “sinistra” euromarxista. B.B. riporta il seguente paragone: nel periodo 1993-2005 il “conflitto sociale” è cresciuto 10 volte e cioè del 1000%, mentre il PIL è cresciuto del 129%: “Per ogni punto percentuale del PIL la conflittualità cresce di 7,75 volte”. Allo stato, con l’attuale crescita del PIL del 10%, solo negli ultimi 8 anni (2001-2008), il PIL è cresciuto del 214% e cioè è più che raddoppiato ed il rapporto tra la conflittualità summenzionata ed il PIL non è più 7,75 bensì del 4,67. Tuttavia la propaganda anticinese ha ingigantito la “conflittualità”. Allo stato i fatti riguardo gli “incidenti di massa” stanno come segue: 1994: 1 su 1.500 adulti è stato coinvolto; 2004: 1 su 300 adulti; 2006: 1 su 20.000, il che dimostra un ampio decremento percentuale. Nella periodizzazione di B.B. (1994-2006) il PIL è cresciuto del 129% rispetto al valore iniziale. Al momento sta crescendo al ritmo dell’11,4% annuo, ciò significa che negli ultimi 12 anni è del 482%, 3,7 volte più grande rispetto alla cifra rispondete al periodo selezionato da B.B. D’altro canto, oggigiorno, il tasso ufficiale degli “incidenti di massa” (che B.B. chiama “conflittualità” anche se, come egli stesso ammette, tale categoria include anche “episodi di criminalità”) sta decrescendo. Inoltre egli non ci dice che gli “incidenti di massa” sono raramente, quasi mai, politici, e cioè rivolti contro lo Stato governato dal PCC.

4. La falsa ipotesi del “capitalismo di Stato”

La tesi della “conflittualità”, utilizzata pressoché da tutti, dalla destra filo-Bush alla “sinistra” euromarxista, si fonda sulla ipotesi, non provata nei fatti, che in Cina vi sia un “capitalismo di Stato”. Molti marxisti hanno utilizzato alcune varianti di questa idea, incluso Bruno Rizzi, ma essa fu dimostrata essere errata già da Trotskij nel suo famoso libro del 1936: La rivoluzione tradita. Tale idea ebbe risonanza anche nel principale partito extra-parlamentare britannico, il Socialist Workers Party, fondato dal principale esponente di tale tesi, l’ex-trotskijsta Tony Cliff. In assenza di qualsiasi prova che vi sia stata in Cina una contro-rivoluzione appoggiata dall’imperialismo in stile Gorbac˘ëv-El’cin, le argomentazioni degli studiosi e anche di Biagio Borretti devono trovare rifugio nella tesi erronea del “capitalismo di Stato”, consistente nel sostenere che in uno “Stato socialista” - quale quello dell’URSS e dell’attuale RPC - la burocrazia statale divenga una classe capitalista dominante, sebbene i mezzi di produzione non siano mai stati privatizzati o allocati sul mercato dei capitali. Ciò sarebbe l’unica via d’uscita per la logica di B.B., ma è assente nel suo attuale scritto.

5. L’approccio culturalista Ovest-Est

La tesi di B.B. è tipica del marxismo eurocentrico. Quella che segue, tuttavia, più che essere una critica della sua tesi, lo è del contemporaneo europeismo del marxismo “occidentale” ovvero “Primo mondo” (USA, UE, Giappone e degli occupanti in “America latina”). Questo eurocentrismo è il vero cuore di quelli che B.B. chiama “approcci “culturalistici” all’Oriente”, che critica perché disconoscono che “le lotte, i conflitti, nel mondo non-occidentale... esistono”; ma quei “conflitti” B.B., con il suo approccio eurocentrico, li percepisce enormi - ed enormemente necessari -, incardinati nella “lotta di classe” (sic!) contro il “totalitariamente... dispotismo” della Zone Economiche Speciali (ZES) che caratterizzano l’economia cinese. Questo è tutto quanto egli riesce a vedere nelle ZES. Tuttavia è cieco davanti a due fondamentali realtà: (1) la pianificazione socialistica che ha generato la colossale espansione dell’economia cinese (sebbene egli conceda che dal 1979 al 2006 il PIL pro capite sia cresciuto di 100 volte, da 606 RMB a 69.450 RMB); (2) che il proletariato cinese ha un tasso di plusvalore (pv/salario) di circa 10 volte più elevato del proletariato statunitense, europeo e giapponese. Comunque, egli ammette che esistono “funzioni e fasi del processo di lavoro che al centro, nei paesi a capitalismo avanzato (PCA), non sono più produttive di plusvalore”. Tali “funzioni e fasi” vengono esportate - stando a B.B. - nelle ZES cinesi. Ciò che però non ci dice è che quello che è stato chiamato “proletariato borghese” da molti marxisti e da Lenin ha, sin dalla Seconda Guerra Mondiale, prodotto meno valore rispetto ai salari, ha prodotto cioè quello che io, più di 40 anni fa, ho chiamato “plusvalore negativo”; e che il rapporto tra il plusvalore ed i salari è inferiore al 30% nei paesi imperialisti (la vecchia UE, gli USA, il Giappone, Israele), mentre gli stessi imperialisti in Cina estraggono plusvalore al tasso del 300% del valore dei salari della forza-lavoro cinese. Ed egli, B.B., vorrebbe che questi lavoratori dal 30% di plusvalore rispetto ai salari, “sostengano” le lotte anti-capitaliste dei lavoratori cinesi che producono il 300% di plusvalore in rapporto ai salari percepiti! Tale sfrontatezza logica è ancora più grave se teniamo conto del fatto che egli non sostiene la lotta di classe del proletariato cinese contro le classi imperialiste-capitaliste statunitensi, europee e giapponesi. C’è una “ragione dietro la follia” in tutto ciò. Quale? Come ogni euromarxista sa meglio di quanto poi ammette, il “proletariato occidentale” è caratterizzato molto più dalla collaborazione di classe che dalla lotta di classe. L’obiettivo di ogni sciopero è quello di un nuovo accordo tra lavoro e capitale. B.B. ricorda il tradimento che Lenin ricevette dal 1919 fino alla sua morte nel 1924 dal fallimento della rivoluzione europea, specialmente dal proletariato tedesco nel venire in aiuto - un aiuto terribilmente necessario - della rivoluzione russa e del suo Stato? Riesce ad immaginare come si dovettero sentire in quei momenti Lenin e Trotskij? Ci fu una guerra civile, interventi esterni, una rivolta anarchica, ribellioni dei kulaki e scarsità di strumenti, cibo, medicine e quant’altro, e, come Marx ed Engels ebbero ad insegnare, loro crebbero nel “proletariato occidentale”.

6. L’origine politica delle NEP di Lenin e di Deng

Il “proletariato” di B.B. che non sostenne Lenin, condusse questi ed i bolscevichi a fare ciò che lo stesso Deng dovette fare: una “Nuova Politica Economica” (NEP). Essi, come Deng, dovettero lasciar entrare i capitali statunitensi ed europei nel loro paese, scendere a patti con questi imperialisti armatissimi. La loro NEP, come quella di Deng, creò una burocrazia avida di lavoro e di profitti. La loro NEP sboccò nella dittatura politica di Stalin, un regime che, a differenza di quello di Mao e di Deng, uccise e condannò molti bolscevichi che fecero la rivoluzione. Lenin morì, ma i più grandi bolscevichi pagarono il prezzo stalinista della NEP (avviata da costui dopo aver rincontrato un vecchio amico del partito bolscevico, milionario statunitense). Il costo della NEP di Mao e di Deng è alto, economicamente e politicamente. Ma la collaborazione del “proletariato occidentale” con i loro imperialisti ha tradito la rivoluzione cinese e spinto la RPC in una inevitabile e necessaria NEP, con tutte le sue difficoltà, pericoli e minacce allo Stato socialista. L’art. di B.B. evita questa immensa problematica. Tuttavia gli antimperialisti, ovunque essi siano - anche e soprattutto nel blocco dei paesi imperialisti - non possono sottovalutare tali problematiche legate alla NEP, operante “con e contro” gli imperialisti, così come non possono farlo i socialisti cinesi, il loro Stato socialista e lo stesso PCC, meritatamente il più grande e partecipato partito comunista del mondo.

7. L’unità contadini-proletariato in Cina

Alla fine B.B. ha la grazia di scrivere: “[I] contadini hanno svolto un ruolo decisivo, centrale nella guerra antimperialista prima e nella costruzione della RPC in seguito”. Tuttavia perché non spende alcuna parola riguardo la guerra antimperialista combattuta, al fianco dei contadini, e spesso da soli nelle città come Shanghai e Guangzhou, dal proletariato cinese, ed il suo ruolo “centrale” nella “costruzione della RPC”? Il proletariato nato dai contadini e che fu - dal suo vitale ruolo nella lotta di classe dei Taiping del 1850-1864 in poi - cruciale per la lotta nazionale e di classe contro l’imperialismo e la borghesia nazionale assassina di Chiang Kai-shek? Perché B.B. fa questo giochino del divide et impera tra i contadini ed il proletariato della Cina, dal momento invece che stettero e continuano a stare insieme sul fronte antimperialista e contro gli agenti della borghesia nazionale? Il proletariato, durante la guerra statunitense che divise la Corea, non si schierò soltanto contro l’esercito degli USA bensì anche contro le forze imperialiste unite della NATO e degli USA che minacciavano la Cina di una guerra nucleare, per non parlare delle loro servili e corrotte “Nazioni Unite”. Non ci fu alcun sostegno della “sinistra” né di alcun “proletariato avanzato” (sic!) che salvò la Cina negli anni ’50 bensì soltanto l’unità del proletariato e dei contadini cinesi. Tale unità non avrà alcuna difficoltà nel fare a pezzi il divide et impera della “sinistra” euromarxista e dell’imperialismo dei “paesi a capitalismo avanzato” (PCA). Stando ad attendibili statistiche, i lavoratori rurali (per lo più contadini) sono il 45% della forza-lavoro cinese composta da 803 milioni di unità. Questi lavoratori costituiscono il 55% della popolazione (1,33 miliardi), rispetto ad una “forza-lavoro” imperialista equivalente al 25% della popolazione (che include molti “colletti-bianchi” e personale dirigenziale). Il 45%, meno della metà, della classe lavoratrice cinese lavora in agricoltura, il 24% nell’industria ed il 31% nel settore dei “servizi”, ampiamente produttivo. Nel resto dell’Asia, dell’Africa e della non-oligarchica “America latina”, la disoccupazione è “tutto” - con tassi che vanno dal 30 al 70%, soprattutto nelle baraccopoli, nelle città ghetto ove si concentra lavoro a basso costo. In Cina la disoccupazione urbana è del 4,2%, cioè inferiore a quella registrata nei paesi imperialisti dell’OCSE. Questi paesi imperialisti (OCSE tranne Turchia) hanno il “vantaggio” di ricevere gratis, senza corrispettivo alcuno, un terzo del loro PIL come bottino colonialistico derivato dallo sfruttamento dei lavoratori e dei contadini semi-coloniali e cinesi (non stando alle statistiche euromarxiste, bensì ai dati aggiornati del mio lavoro: Colonialism Today). L’imperialismo usa la NEP per super sfruttare il lavoro eccedente nei villaggi e nelle città, che in Cina (CIA: 2008) comprende qualcosa come 100-150 milioni di persone, cioè dal 12,5 al 18,75% della forza-lavoro ufficiale.

8. La vita in Cina non è capitalistica

Le forze socialistiche antimperialiste nel PCC, il proletariato ed ancora - ci si consenta di farlo notare - i contadini, lottano contro questo supersfruttamento quotidianamente. Mentre la controrivoluzione capitalistica (guidata dagli USA e dalla Germania) contro l’URSS ridusse le aspettative di vita degli uomini da 70 a 59 anni in 17 anni, le aspettative di vita in Cina sono cresciute dal 2006 al 2007 da 72,88 a 73,18 anni (CIA: 2008): è il doppio della media delle aspettative di vita nell’Africa “indipendente” degli occupanti euro-statunitensi. L’alfabetizzazione minima in Cina si aggira intorno al 90,9%. In Africa gli “under 15” sono circa il 50% della popolazione, in Cina il 20%. Sotto la NEP i lavoratori hanno accesso ad una casa, godono di trasporti gratuiti, ospedali ed educazione dalle scuole primarie all’università. L’incidenza dell’AIDS in Cina è dello 0,1%, una persona su 1.000, tra le medie più basse al mondo. Come Cuba, anche la Cina è ufficialmente atea. Vorrebbe B.B. sostenere che tutto ciò è tipico del capitalismo? 9. L’ineguaglianza in Cina non è capitalistica

Sotto il capitalismo la più vasta parte delle ineguaglianze economiche non intercorre tra il lavoro ed il capitale nei PCA, bensì tra i redditi pro capite dei PCA imperialisti e delle rispettive popolazioni (di UE, USA, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Israele, Sud Africa e gli occupanti, coloni, oligarchi dell’“America Latina”) ed i paesi e le popolazioni non imperialiste (Asia, Africa, Medio Oriente, non europei negli USA ed in Europa). Il tasso di plusvalore nei PCA è in media del 33%, stando alle analisi dei PIL nazionali. Il rapporto tra redditi nei PCA (di cui il 33% ovvero 1/3 proviene dal bottino coloniale) e redditi dei non-PCA (di cui più del 50% sono razziati dai PCA) è di 2:1 ovvero del 200%. Questo rapporto internazionale, propriamente globale, basato sui tassi di cambio in dollari, è, attualmente, in numeri: 30 trilioni/15 trilioni di dollari statunitensi (PIL aggregati). Ciò equivale a 6,6 volte il rapporto profitti/salari nel blocco imperialista. In termini marxiani, così come espressi nel Das Kapital (il che è ben diverso dall’euromarxismo), la distribuzione internazionale imperialistica dei redditi è superiore a 6 volte alla distribuzione dei redditi tra le classi nei PCA. Le statistiche internazionali sono leniniste; le statistiche di “classe” sono euromarxiste. Le statistiche di classe danno la misura dell’inutilità, dell’inservibilità della solidarietà di cui scrive B.B. col proletariato cinese. Il rapporto tra le statistiche internazionali e quelle relative ai rapporti di classe interni ai PCA, uguale e 6,6/0,33=20, misura l’importanza della lotta antimperialista rispetto alla “lotta di classe” nei “paesi a capitalismo avanzato”. Il suo contrario, 1/20 ovvero il 5%, è la vera misura dell’inutilità e dell’irrilevanza della “solidarietà” con i lavoratori cinesi di cui scrive Biagio Borretti. Le cifre fornite da B.B. riguardo le retribuzioni nelle ZES ci dicono che i redditi massimi per un dirigente sono di 20.000 RMB al mese, 7.000 RMB per un tecnico, 5.400 RMB per gli operai intermedi e 3.600 per gli apprendisti. I rapporti totali tra reddito di un dirigente e tutti gli altri sono quindi, in ordine, di: 2,9, 3,7 e 5,5. Tutti ed ognuno di essi sono minuscoli se comparati con il rapporto che intercorre tra gli stipendi dei massimi dirigenti USA, europei e giapponesi (che grazie ai bonus raggiungono spesso un milione o svariati milioni di dollari, sterline o euro all’anno) ed i salari dei lavoratori delle imprese imperialistiche pagati ai non-europei nelle miniere, nelle fabbriche o nelle campagne del Sud Africa o alla Shell, alla BP o negli impianti di estrazione di petrolio delle “sette sorelle” in Nigeria, Indonesia, Africa occidentale, Arabia Saudita, Emirati o nelle piantagioni britanniche di tè, caffè, banane ecc. in Asia ed Africa e così via all’infinito. Le ineguaglianze di cui parla B.B. sono relative ai salari, non alla struttura capitalistico-imperialistica. B.B. scrive: “Nei centri delle metropoli imperialistiche il capitale è alla ricerca di forza-lavoro altamente qualificata - ma con una domanda progressivamente calante - per i settori a più alta produzione di plusvalore (pv) relativo”. Infatti, in questi “centri delle metropoli imperialistiche” il plusvalore relativo è basso, non alto, a causa degli elevati salari della produzione altamente tecnologica. Egli allora scrive, correttamente, che il capitale imperialista esporta il tipo di produzione fordista, ma erroneamente sostiene che tale tipo di produzione divenne non profittabile a causa della “conflittualità” (lotta di classe?) generata dalla vecchia composizione di classe della classe operaia originata da tale tipo di produzione, invece di scrivere che tale non profittabilità proveniva dal basso plusvalore relativo provocato sia dalle interruzioni della produzione causate da tale “conflittualità” (scioperi ecc.) nonché dagli alti salari di questi operai “occidentali” nelle fabbriche fordiste. Egli biasima il PCC e lo Stato cinese e non questi investimenti diretti all’estero (IDE) di capitali imperialisti che sfruttano il lavoro a basso costo, i lavoratori e le lavoratrici migranti cinesi. Sebbene intraveda il vero obiettivo di questi capitali stranieri: “una fonte di pv di svariate centinaia di milioni di lavoratori”, e cioè un’enorme fonte di lavoro cinese a basso costo, egli non solo fallisce nella condanna di questo capitale imperialista che sfrutta i lavoratori cinesi, piuttosto si produce nel tipico esercizio di critica alla Cina. La scienza economica di B.B. soffre della confusione tra concezione tecnologica della produttività e sua accezione economico-politica marxista (nel senso che le viene dato nel Das Kapital), che si riferisce alla sua profittabilità. Un’alta tecnologia spesso richiede elevati costi per il lavoro (salari). Ciò si ripercuote su un basso tasso di plusvalore che, a sua volta, genera sia un’alta composizione organica del capitale (c/v) che un basso tasso di profitto (tasso di pv/1+composizione del capitale). Ciò conduce al ribasso i tassi di profitto interni e stimola invece gli IDE. Gli IDE in Cina nel 2007 sono stati 853 mld di dollari. Il debito estero cinese, equivalente all’8% del PIL cinese già nel 2006, è salito a 363 mld nel 2007, portando il totale degli IDE imperialisti investiti in Cina a 1.216 mld ovvero 1,2 trilioni di dollari. Questo capitale imperialista in Cina costituisce il 28% dell’intero mercato dei capitali equivalente a 4,7 trilioni di dollari nel 2007 (CIA: 2008). Nel 2007 tale capitale straniero era il 37% del PIL equivalente a 3,2 trilioni di dollari. Assumendo che il tasso di profitto - così come pacificamente accettato - dei capitali stranieri statunitensi ed europei in Cina sia del 30%, il profitto realizzato nel 2007 era di 360 mld di dollari, e cioè non meno dell’11% del PIL cinese. Questo plusvalore è stato prodotto, stando alle statistiche di B.B., da 30 milioni di operai cinesi nelle ZES. Ad un salario medio equivalente a 6.000 dollari, i salari delle ZES totalizzano 180 mld annui. Il tasso di plusvalore nelle ZES è stato quindi di 360/180=2 ovvero del 200%. È lo stesso ordine di grandezze della media del generale tasso di plusvalore nei paesi del Terzo mondo e semicoloniali, specialmente dell’Asia. Le ZES quindi sono supersfruttate in modo colonialistico dall’imperialismo. Questo è il prezzo che la NEP del PCC, come quella di Lenin, deve pagare, piaccia o no. Questa NEP fu necessaria nella misura in cui il proletariato dei PCA abbandonò la rivoluzione socialista cinese ed il suo Stato. Ma questa non è la prospettiva con cui B.B. vede il capitale straniero o il “proletariato” dei PCA, che chiama alle armi contro il lavoro cinese e lo Stato cinese, con la pretesa della “solidarietà”.

Prof. Univ. di Cape Town Sudafrica

Per i riferimenti bibliografici vedi: CIA (2008), The CIA World Factbook, New York, Shyhorse Publishing