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Piantare energia. Vulnerabilità dei popoli indigeni e contadini di fronte alla “Nuova Alternativa Energetica”

DUNIA MOKRANI CHÁVEZ - PATRICIA RONCAL REVOLLO

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1. Il capitale mercifica la natura

Il modello civilizzatore dominante ha diffuso una concezione dello sviluppo che basa la sua fede sul progresso materiale, la cui immagine è promossa e privilegiata da una concezione di sviluppo configurata a partire dalla crescita economica come principale indicatore del benessere. Questo modello spiega le caratteristiche dei suoi processi economici, sociali, politici e culturali, attraverso la razionalità che lo guida, che ha come obiettivo la ricerca del guadagno individuale e dell’accumulazione costante del capitale, razionalità che si costituisce nella legge economica fondamentale che guida la nozione del progresso nella modernità. Questa razionalità ha una particolarità, sarà raggiunta sulla base dell’incentivo della produzione; cioè, in base all’incremento incessante della produzione, all’incremento economico sostenuto, che assicura il compimento dei precetti della sua Legge Economica Fondamentale. In questo senso, a partire all’incirca degli anni ’50, si inizia a dare un impulso insolito alla produzione, che si diversifica, si fa più efficiente, aumenta i suoi livelli di produttività e rendimento e si fa globale, disseminandosi in lungo e in largo nel pianeta grazie alla flessibilità e all’apertura ristretta al capitale internazionale nel mondo intero, alla liberazione del traffico dei servizi e beni; così come alla creazione di un mercato unitario globale, all’occupazione dei mercati nazionali e agli interessi delle imprese transnazionali per mezzo delle politiche statali che applica, creando le condizioni più favorevoli per l’accumulazione del capitale. Il capitale transnazionale domina, mercifica ed elimina la natura dei processi produttivi, ignorando le condizioni ecologiche, le leggi naturali ed i limiti che la stessa impone alla produzione, sorpassando i limiti della capacità di riciclaggio ed autorigenerazione, scalzando le condizioni ecologiche della sostenibilità della produzione; cioè, mettendo a rischio le sue basi materiali e distruggendo le potenzialità della sua stessa vita. Allo stesso tempo ha escluso la diversità culturale, le conoscenze collettive, le sue identità, appropriandosi dei territori e delle risorse naturali, invadendo ed imponendo una cultura egemonica ed omogenea che subordina i valori umani agli interessi economici e strumentali, che nega la differenza rispetto ad una logica unitaria e globale, dominando in questa maniera tutte le sfere della vita e degradando le sue condizioni e sensi di esistenza ad una morale alienante. In questo ambito, il motore dello schema di sviluppo imposto, ha come base fondamentale il consumo di energia che sostenta modelli di produzione, di crescita e stili di vita imposti all’umanità come modello. Lo stesso si distribuisce in maniera diseguale tra i paesi del mondo, ma un 30% della popolazione mondiale, concentrata principalmente nei paesi industrializzati, consuma il 90% dell’energia, le cui principali fonti sono attualmente il petrolio, il gas naturale, il carbone, l’energia nucleare e l’energia idroelettrica.

2. “Nuova alternativa Energetica” funzionale all’accumulazione del capitale

In risposta all’aumento constante dei prezzi del petrolio, questi paesi altamente dipendenti dalle risorse fossili cercano una nuova alternativa energetica che permetta di sostenere un modello di crescita economica e di accumulazione raggiunti fino ad ora. Gli agrocombustibili si presentano, come una nuova alternativa energetica. È fondamentale non perdere di vista che questa alternativa è pensata come base per sostenere il modello economico dominante, lo stesso che ha stravolto tutto il principio sostenitore della vita, lo stesso che ha cambiato le condizioni culturali, sociali e ambientali, evidenziando contraddizioni severe, come la disuguaglianza, la discriminazione sociale, la distruzione ecologica, la degradazione ambientale. È fondamentale anche orientare l’attenzione alla lotta dei movimenti sociali dei popoli indigeni e contadini contro la loro invisibilità politica, sociale e culturale, per mezzo della resistenza alle forme stabilite dall’esercizio di potere e cercando nuovi orizzonti per ricostruire il processo civilizzante privato di senso dalla colonia, poiché è da questa prospettiva che emergono le conoscenze locali che protestano per il saccheggio, lo sfruttamento territoriale e quindi culturale e per la distruzione dei loro territori di vita e delle ricorse della biodiversità che li nutre. È di fronte a questi effetti di questa modernità imposta che emergono conoscenze ancestrali in disputa rispetto a questo senso unico di sviluppo nella loro lotta contro il saccheggio e la distruzione dei loro territori di vita, dei loro sensi dell’essere e delle risorse della biodiversità che li nutre e che da significato alla loro cultura.

“La cultura, per mezzo delle conoscenze sul mondo, pone il suo marchio nella terra, sono conoscenze che si inscrivono in un territorio per mezzo delle pratiche produttive e delle lotte sociali, pratiche mediante le quali si appropriano della loro natura, (per) costruire una nuova “mappa dei significati”, è ripensare il tempo e lo spazio, è una nuova scrittura nella pelle della terra che fonda un nuovo luogo per nominare l’essere (Goncalves 2001).”

È così che queste nuove forze sociali reclamano il diritto all’accesso, uso e proprietà della natura, è la lotta per la “riappropriazione della natura e della sua cultura”, è la lotta per il riassetto del loro spazio di vita e della loro identità nella difesa culturale; sono le lotte per la riappropriazione del loro patrimonio naturale storico, per il controllo e la decisione sulle condizioni di produzione, modelli di consumo e stili di vita. Sono lotte non solo per le migliori possibilità di impiego, per una maggiore equità, riconoscimento o per la rivendicazione salariale, ma anche perché riemergano secondo nuove prospettive di potere le cui istanze mettano in discussione l’essenza stessa del modello economico egemonico. Cioè, si tratta di lotte che mettono in discussione in se stesse l’ordine economico imperante, la razionalità che lo guida; sono istanze di carattere strategico legate alla necessità di costruire nuove territorialità per mezzo della riappropriazione delle risorse naturali che questi spazi sostentano, una riappropriazione fondata sulla gestione sostenibile delle potenzialità ecologiche della natura, una riappropriazione che non sia soggetta alla razionalità economica che contraddistingue la modernità. In questo senso, queste lotte si costituiscono in “volontà di potere” in “movimenti per il sì”, le cui istanze fanno riferimento alla resistenze per la difesa e riappropriazione della natura, per la riaffermazione delle loro identità, per l’autogestione delle risorse naturali, per il rafforzamento delle loro economie locali, per la messa in discussione degli attuali stili di sviluppo e per il diritto a “creare nuove territorialità”; questi progetti politici e culturali, mettono in discussione profondamente ciò che è stato dato, inaugurando le caratteristiche del darsi, secondo una concezione che incorpora la natura come un potenziale costruito dalle differenze dell’essere nella fondazione delle nuove società.

3. La razionalità alternativa dei popoli indigeni

Questa razionalità alternativa che viene dai popoli indigeni e contadini è orientata a generare le condizioni affinché l’insieme delle società possano riuscire a “vivere bene”; risultato che ha molte connotazioni: “vivere bene” implica forgiare un futuro giusto e la diversità culturale; suppone di stabilire nuovi e diversi parametri del benessere; cioè, un benessere che privilegia l’essere e non l’avere; che si fonda sui valori culturali, sulle proprie identità e sulle sue differenze, nelle realizzazioni personali, nelle aspirazioni sociali, culturali e collettive; un benessere proveniente sia dalla soddisfazione delle necessità di base come quelle che nutrono e danno dignità all’individuo e alla collettività. Insomma un “vivere bene” inteso come un tutto integro, quantitativo e indivisibile, definito dai territori, dalle culture e dalla biodiversità. Per costruire una nuova razionalità, si richiede la ristrutturazione di una nuova teoria della produzione basata in una strategia di sostenibilità e nei potenziali sinergici che nascono dall’articolazione del sistema delle risorse naturali, con quello della diversità culturale e con quello tecnologico; costituendo sistemi produttivi integrali che basano il loro potenziale nelle diversità ecologiche che possiede ogni regione nella sua geografia, nella pluralità delle identità etniche esistenti in ogni territorio; così come nella partecipazione attiva delle comunità nei processi produttivi decentralizzati, incorporando le loro conoscenze tecnologiche in un ibrido con le conoscenze della scienza moderna (Leff. 2004). Sapendo che, i principi che reggono questa nuova teoria produttiva, sono quelli riferiti a quelli dell’etica della sostenibilità, gli sforzi si indirizzano all’ottenimento di una produttività ecologica che si incrementa nella funzione della gestione sostenibile degli ecosistemi, del livello di conoscenza culturale, delle potenzialità delle risorse e del rispetto dei cicli temporali di sfruttamento. Allo stesso tempo, questa nuova razionalità richiede una nuova conoscenza, costituita da un pluriuniverso di conoscenze, che cambi la percezione del mondo, quella che fu stabilita dal pensiero unico e che stabilisca i legami di un mondo di connessioni tra processi tecnologici, ecologici, economici, culturali e sociali; in questa maniera si definisce una conoscenza aperta all’ibrido di ciò che è tradizionale, locale, della ritualità e di ciò che è popolare, con la scienza e la tecnologia moderna, in una politica di interculturalità e “dialogo delle conoscenze”. Così i nuovi principi e valori secondo i quali si deve stabilire questa nuova razionalità, dovrebbero tener conto della base della convivenza delle identità etniche; così come dei valori tradizionali delle distinte risorse della biodiversità e dell’assegnazione dei diritti di proprietà dei loro territori di vita, come supporto della conservazione e mantenimento delle potenzialità della natura, che a loro volta, costituiscono fonte e condizione per il soddisfacimento delle necessità della società comunitaria. Dall’altra parte, si deve considerare il mantenimento delle potenzialità produttive della natura, che si costituiscono nell’elemento fondamentale per il soddisfacimento delle necessità della popolazione attuale e futura, per mezzo: della conservazione della biodiversità e delle risorse che da essa provengono; il mantenimento delle condizioni ecologiche del funzionamento ed equilibrio degli ecosistemi; la preservazione della qualità ambientale riferita ai corpi d’acqua, suolo ed aria, secondo le condizioni ottime richieste per il loro impiego, l’uso e lo sfruttamento; il recupero ecologico ed ambientale degli ecosistemi, risorse e specie di flora e fauna degradati e la preservazione dalle catastrofi ecologiche e la distruzione delle risorse della biodiversità. Secondo questo concetto, si inaugura un altro processo che mette a rischio le conquiste raggiunte dai popoli indigeni e contadini del mondo, in quanto nel desiderio di rispondere all’istanza di energia per mantenere i ritmo di crescita economica sostenuta, hanno inaugurato un’attività produttiva, che promette, secondo il ruolo dei biocombustibili, di generare maggiori fonti di impiego, diminuire la produzione di CO2, di sostituire le risorse non rinnovabili con fonti rinnovabili di energia, di generare una “energia più pulita”, nonostante ciò l’essenziale di quest’impresa è che, oltre agli aspetti che non sono il tema d’analisi di questa relazione, genera un effetto devastante e di retrocessione in tutte le conquiste raggiunte dai popoli indigeni e contadini del mondo, in quanto la produzione degli agrocombustibili implica la privatizzazione delle enormi estensioni di territorio per la loro produzione; ciò vuol dire che implica cedere, per il progresso, le possibilità di ricostruire i processi civilizzanti che rimangono tronchi di questa conquista, la colonia e la configurazione delle repubbliche postcoloniali, implica imporre il percorso per mantenere i ritmi di consumo di energia dei paesi industriali del pianeta. In questo modo partiamo dalla premessa che la discussione più che basarsi sul fatto se sia possibile o no impiantare energia, dovrebbe orientarsi verso un dibattito più ampio e soprattutto più profondo, dentro il quale si dovrebbe valutare la propria razionalità egemonica che impone gli attuali ritmi di produzione con il conseguente consumo energetico e di pressione sulla natura. Allo stesso tempo, bisogna mettere sul tavolo della discussione gli effetti prevedibili della nuova alternativa energetica basata sull’agroindustria per le lotte popolari, indigene e contadine, che hanno messo in discussione questa razionalità economica. Così, nelle linee a seguire, presenteremo un analisi dei possibili effetti dell’uso di questa attività per la lotta dei popoli indigeni e contadini in Bolivia.

4. Le lotte indigene e contadine in Bolivia di fronte all’alternativa di creare energia

I popoli indigeni fanno parte di più di 5000 nazioni che rappresentano il 95% della diversità culturale del pianeta. In America Latina, esistono circa 40 milioni di indigeni appartenenti a diverse nazioni, con forme proprie d’organizzazione politica, economica e sociale e il cui rapporto con gli Stati di cui fanno parte è cosi diverso così come le forme di lotta e resistenza che hanno utilizzato nel continente questi popoli durante la colonia e con una forza particolare negli ultimi decenni. Una costante di queste lotte è stata la resistenza all’occupazione e usurpazione dei loro territori, ricchi in risorse naturali. Questa lotta si converte, con differenti livelli di progresso ed articolazione, in una lotta per la terra ed il territorio e la lotta contro il latifondo e la penetrazione transnazionale. Un altra delle lotte fondamentali, anche se meno visibile, è quella che si svolge contro il furto delle conoscenze ancestrali e della medicina tradizionale poste al servizio della mercificazione della medicina e di altre industrie. I popoli indiani dell’America Latina resistono allo scontro tra Stati e alla società colonialmente stratificate, che riconoscono formalmente la loro uguaglianza di fronte alla legge, ma che operano a partire dal meccanismo di dominio coloniale delegettimando i loro diritti collettivi, le loro forme ancestrali di autoregolazione interna e di rappresentazione politica. In questo senso, questa è una lotta per l’autodeterminazione politica. In Bolivia, di una popolazione totale di 9.827.522 abitanti (stime INE, per il 2007 su dati Censo 2001), secondo i dati della diagnosi sociodemografica dei popoli indigeni di Bolivia CEPAL, esiste una popolazione indigena totale di 5.033.814 ab. (popolazione determinata da auto appartenenza). Il 50,3% (2.530.985 ab.) appartiene al popolo Quechua, e il 39,8% (2.001.947 ab.) al popolo Aymara. Segue per quantità la popolazione Chiquitano, che unisce il 3,6% (181.894 ab.), il popolo Guaraní con 2,5%. (126.159 ab.) e il Mojeño con l’1,4 % (70 475). Il 2,5 % restante della popolazione indigena è distribuita tra 30 popoli originari, senza contare la comunità afroboliviana, la cui popolazione ascende a 20.711, secondo i dati della CONIOB (la Confederazione Nazionale delle Nazionalità Indigene ed Originarie della Bolivia (CONIOB: 2004).

I popoli indigeni in Bolivia: diagnosi sociodemografica a partire dal censimento del 2001 (CEPAL: 2005)

Nella tabella che presentiamo di seguito possiamo osservare la diversità dei 30 popoli chiamati minoritari in Bolivia. Come possiamo osservare, nella zona andina si trova la maggiore popolazione indigena, con la presenza predominante di due culture millenarie, la quechua e la aymara, ereditiere di grandi civiltà precolombiane di tipo agrario, con complessi sistemi sociali e di Stato. Dall’altro lato, nella zona amazzonica e del chaco primeggia come caratteristica la diversità di popoli nazioni indigene, con differenti livelli di articolazione, quantità di popolazione ed i cui territori ospitano la maggiore biodiversità del paese. In questa il latifondo vive come caratteristica centrale. Sia in Occidente (Terre Alte) che in Oriente (Terre basse) esistono importanti organizzazioni sia indigene che contadine che riuniscono questi settori a livello locale, regionale e nazionale. In merito alle lotte di questi popoli rispetto alla terra e al territorio, possiamo osservare che i popoli indigeni della Terre Alte hanno lottato per la persistenza dei loro stessi schemi organizzativi, basati sulle strutture comunitarie dei loro ayllus e markas, distrutti da istituzioni coloniali e dall’ordinamento territoriale repubblicano. Come segnala Raquel Gutierrez, nella sua tesi di dottorato (inedita) “nella terre alte vive uno strato sociale indigeno comunitario che conserva una peculiare forma di organizzazione e regolamento degli affari produttivi, della vita politica e sociale così come delle festività rurali, con forme proprie di gestione della produzione e della vita sociale e forme d’organizzazione dell’autorità politica. Uno dei principali problemi della terra in occidente è stato il processo nei confronti del minifondo per la dotazione individuale delle terre. Grazie a queste lotte, in generale, come segnala la stessa autrice “(...) la terra è stata e continua ad essere in molte regioni posseduta in comune, e distribuita periodicamente in appezzamenti che sono lavorati dai membri di ogni comunità”. Allora possiamo osservare che i popoli indigeni della zona andina lottano per una riappropriazione spaziale e politica comunitaria del loro territorio come base dell’autogoverno indigeno. Per questo, resistono al processo di minifondizzazione, attraverso la persistenza di forma comunali di proprietà e gestione della terra. Dall’altro lato, nella loro lotta resistono politicamente su schemi di minoranza etnica, facendo valere la loro qualità di nazioni maggiormente popolate. Così, come ben afferma Pablo Mamani (2006), un importate intellettuale aymara, il movimento indigeno ed originario, per mezzo delle sollevazioni locali, regionali o nazionali contro il dominio coloniale e moderno, basate sul dominio tecnico e di classe, hanno generato diverse strategie, sostenute sulle tecnologie comunali, d’azione collettiva terrotorializzata per ridefinire e completare, dal locale e dal regionale, spazi e decisioni politiche per generare autogoverni verso la ricostruzione dello Stato indigeno. Da parte sua, nell’oriente del paese, la zona chiamata delle Terre Basse, dove la Riforma agraria è stata troncata, i popoli indigeni affrontano un processo di neolatifondismo e di cancellazione delle loro istanze come popoli di minore densità popolazionale. Secondo Carlos Romero (CEDIB: 2005), la trasformazione della riforma agraria in Oriente si basa su “(...) la configurazione di un sistema di dominio, tradotto nell’impostazione dei rapporti economici relativi allo sfruttamento del monopolio delle ricchezze, dominio politico ed oppressione culturale articolate intorno al controllo delle terre e delle risorse naturali.” Lo Stato, soprattutto nei governi dittatoriali, si è incaricato di “legalizzare” estesi latifondi con processi fraudolenti. Così i popoli indigeni delle Terre Basse, da un lato, confrontano una serie di conflitti accumulati nel tempo con gruppi imprenditoriali che si occupano di legno ed agroesportazioni, con allevatori e latifondisti e dall’altro, le loro organizzazioni richiedo allo Stato il riconoscimento dei territori indigeni e l’appropriazione delle terre comunitarie d’origine. Due eventi fondamentali segnano la lotta di questi popoli. In primo luogo, la Marcia per il Territorio de la Dignità, nel 1990, in cui le organizzazioni di questi popoli giungono preso la sede di governo ottenendo visibilità da parte delle autorità statali e della società boliviana in generale verso questi popoli e le loro forme di produzione, di vita e le loro istituzioni, i loro schemi di autorità. Nonostante lo stato Boliviano assuma l’istanza per mezzo di una riforma parziale alla Costituzione Politica, introducendo il riconoscimento del carattere multietnico e pluriculturale non si stravolge l’ordine di dominio vigente. Nell’anno 2002, i popoli originari delle Terre Basse furono protagonisti di una nuova marcia: “La Marcia per l’Assemblea Costituente, per la Sovranità Popolare, il Territorio e le Risorse Naturali”. In questa seconda marcia, si stabilisce per la prima volta l’istanza di una riforma statale profonda da realizzarsi per mezzo dell’Assemblea Costituente. Queste organizzazioni sono divenute il pilastro fondamentale nella lotta per il recupero delle risorse naturali e hanno preteso dallo Stato una partecipazione attiva nella definizione della politica energetica per mezzo della consultazione obbligatoria sugli investimenti nei loro territori d’origine.

5. La Bolivia come nuovo riferimento internazionale a partire dalle lotte del movimento indigeno

Tutto ciò che è stato detto precedentemente, evidenzia che è importante considerare il movimento indigeno in Bolivia considerando congiuntamente le lotte dei popoli delle Terre Alte come quelli delle Terre Basse. Da un lato le ribellioni indigene nelle Terre Alte, come per esempio la Ribellione dei Tupak Katari (1780) contro il regime coloniale o la ribellione capeggiata dal cacique indigeno Pablo Zarate Wilka già in epoca repubblicana (1899), così come il ciclo delle mobilitazioni di massa iniziate con la guerra dell’acqua nel 2000, mostrano la forza del movimento sociale nelle Terre Alte. Dall’oriente del paese, le marce indigene verso la sede dei poteri di Stato hanno costituito anche un importante meccanismo d’incontro ed oggi con otto organizzazioni regionali consolidate, con le loro rispettive centrali comunali e subcentrali dei popoli. Mostrando il panorama precedente e per scopi relativi alla presente relazione, è importante evidenziare che la lotta per la terra ed il territorio dei popoli indigeni di Bolivia si iscrive in ciò che Victor Toledo Llancaqueo (2004) descrive come le dimensioni l’extraterritoriali nella lotta dei popoli originari, ciò che non si concepisce semplicemente come un insieme di diritti reclamati, al contrario queste istanze territoriali, che siano di delineamento ed appropriazione delle terre, di controllo politico, di sfruttamento economico e di diritti collettivi e sovranità sull’habitat e le conoscenze, sono lunghi processi di ricostruzioni speciali di etnoterritorialità, di ricomposizione degli spazi vissuti, di una specialità propria, subalterna ed autonoma da dove si ricostruisce il soggetto collettivo. D’altra parte, è fondamentale comprendere che il processo di cambiamento profondo iniziando dai differenti cicli di mobilitazione sociale del paese, nello scenario politico attuale, sfida il governo e i settori indigeni e popolari ad una offensiva di gruppi di potere economico, che detengono il potere sulla base del latifondo e che cercano di restituire il loro potere politico nelle regioni dove si trovano i territori della maggior parte dei popoli indigeni di Bolivia. Queste elite difendono un progetto di Stato monoculturale, per cui la persistenza di strutture organizzative e sociali dei popoli indigeni sono il loro principale ostacolo. Luis Tapia (2007) afferma che il latifondo cancella l’autorità di Stato in alcuni territori, garantendo un nucleo di disuguaglianza, che si organizza a partire dal monopolio sulla proprietà della terra, sulle risorse naturali ed i beni necessari per la produzione e la riproduzione della vita sociale. Questo monopolio intorno alla proprietà di luoghi e ai rapporti di sfruttamento, nella misura in cui i nullatenenti - in questo caso i popoli indigeni delle Terre Basse e la grande quantità di indigeni delle terre alte che sono migrati ad oriente - devono lavorare per i proprietari monopolisti della terra e per il settore imprenditoriale. Così, a dire dell’autore, questo tipo di monopolio generato dalla configurazione storica del capitalismo, si è costituito sulla distruzione delle forme comunitarie e collettive di proprietà della terra. In questo senso, il monopolio della proprietà, è costruito per mezzo della distruzione delle forme comunitarie e ciò ha implicato, pertanto, un processo di disorganizzazione sociale e politica o di distruzione, disarticolazione di forme collettive di regolazione e possessione della proprietà. 6. L’industria degli agrocombustibili contro le lotte dei popoli indigeni

In quest’ambito, passiamo ad analizzare nelle linee che seguono le conseguenze che potrebbe implicare per la lotta dei popoli indigeni di Bolivia, l’incorporamento dell’industria di agrocombustibili nel paese. Nonostante l’America Latina sia una regione del mondo in cui si è espansa di più la produzione di agrocombustibili, essendo il Brasile il paese pioniere, in Bolivia il dibattito sugli agrocombustibili è incipiente, ma è prevedibile che il tema nella regione acquisisca speciale importanza a partire dalla visita che Bush ha realizzato nella regione per promuovere l’utilizzo dei biocombustibili. Esistono attualmente vari programmi della Banca Mondiale o della Banca Interamercano di Sviluppo, tra gli altri, orientati a promuovere l’uso di questa energia, considerata come alternativa energetica per la regione, dalla stessa Organizzazione Latinoamericana di Energia (OLADE). Il dibattito sul tema in Bolivia, si fa ancora tra gruppi interessati a promuovere questo tipo d’affari e istituzioni ambientaliste. Tra gli argomenti che si presentano a favore c’è la possibilità di ridurre la dipendenza nell’importazione del diesel, la creazione di impieghi, la riorganizzazione dell’area rurale, la possibilità di vendita dei buoni per la “mitigazione dei gas da carbonio” e la produzione di “energia pulita”. Tra gli argomenti contrari si possono evidenziare le preoccupazioni per la sicurezza alimentare; il rafforzamento dei settori agroindustriali esportatori in decadenza dei piccoli produttori; crescita della frontiera agricola in decadenza dei boschi, con la conseguente perdita della biodiversità; meccanizzazione dell’agro e dell’uso dei fertilizzanti e pesticidi; inquinamento dell’acqua e la promozione di uno stile di vita di consumo con effetti moltiplicatori molto dannosi per i medio ambiente. Nel momento di alta politicizzazione che vive il paese, sicuramente il tema acquisisce la forma di dibattito nazionale più ampio, dentro il quale assumerà speciale importanza la discussione sulle conseguenze che potrebbe avere la stessa attività per la lotta del movimento indigeno e popolare. In Bolivia la possibilità d’espansione dell’agroindustria sia per i biodiesel (oleoginosi), la biomassa (legna) o l’etanolo (fermentazione dei grani, paglia o legna) sono le terre dell’oriente del paese, in cui da un lato assistiamo ad un processo di neo latifondismo, combattuto dal governo centrale per mezzo di una politica di retribuzione e restituzione delle terre. Dall’altro, a livello politico esiste un conflitto delle classi dominati di questa regione per il controllo dell’eccedente economico, proveniente principalmente dalla nazionalizzazione degli idrocarburi e un progetto di recupero del potere politico di queste elite, per mezzo di regimi autonomi di fatto ed il blocco costante del lavoro dell’Assemblea Costituente. In quest’ambito, la produzione degli agrocombustibili, secondo le stesse logiche produttive che hanno segnato la regione, sostenute nei rapporti di lavoro quasi schiavisti delle popolazioni contadine ed indigene e rispondendo agli stessi interessi imprenditoriali nazionali e transnazionali, potrebbe potenziare il progetto politico della destra in decadimento per le vittorie popolari ed indigene degli ultimi decenni nel paese. L’impresario agroindustriale boliviano ha costruito la sua ricchezza a partire da un equazione in cui si sono sommate: estensione della terra, che permette mantenere i rapporti di dominio esistenti e puntare a recuperare il controllo dello spazio politico perso nel governo centrale. L’attività agroindustriale può costituirsi in un importante fattore di rafforzamento di questa strategia politica della destra. Ciò che è stato detto precedentemente, ci mostra che l’attività agroindustriale peggiorerebbe i problemi già esistenti di concentrazione delle terre, aumentando la vulnerabilità delle popolazioni indigene nelle loro lotte per il riconoscimento dei loro territori ancestrali e la proprietà collettiva delle stesse. Nella stessa maniera, le iniziative di piccoli produttori contadini sarebbero danneggiati da questa attività, soprattutto in ciò che fa riferimento all’istaurazione della monocoltivazione nella regione. D’altra parte, nelle lotte possibilmente saranno danneggiati i contadini senza terra. Come segnalano Maya Rivera e Sergio Arispe, il governo boliviano si è prefisso la sfida di proteggere i boschi tropicali, riconsiderando vie tradizionali e non tradizionali per rinvigorire le terre inutilizzate o in pericolo di erosione. Quest’iniziativa cerca di recuperare le terre erose ed assumere un cambiamento paradigmatico che allevino le conseguenze della logica agroindustriale già che in Bolivia si calcola che si perde circa 1 milione di ettari di bosco primario ogni tre anni, come conseguenza dell’industria di legno e l’espansione della frontiera agricola - pastorale al quale si somma il processo di erosione delle terre agrarie. Per questi autori, cambiare la matrice energetica, riconsiderando la logica agroindustriale attenterebbe le misure di rivitalizzazione delle terre agrarie. Così, segnalano che la cooptazione delle terre fertili in mano alle grandi imprese agroindustriali porterebbe all’espulsione delle comunità indigene ed originarie dei loro territori per conseguire terre produttive. Si produrrebbe in questo modo l’erosione genetica delle specie native, la scomparsa delle piccole e medie imprese agrarie, con la conseguenza sui tassi di impiego condannando questi settori contadini ed indigeni ad essere la mano schiava di questo sistema. D’altra parte, se consideriamo che le lotte sociali in Bolivia hanno posto la sfida di rafforzare l’industria del gas come asse centrale della matrice energetica, per uscire dalla dipendenza che genera l’esportazione della materia prima, considerare il cambiamento della matrice energetica verso una che non modifica questo rapporto di dipendenza, ma che lo approfondisce beneficiando unicamente il settore esportatore agroindustriale del paese, sarebbe andare contro questa lotta. Lontana dall’essere un alternativa, l’agrocombustibile, per la Bolivia, si presenta come un affare di pochi: gli imprenditori agroindistriali nazionali, che garantirebbero, una volta ancora, i loro tassi di guadagno nel possesso delle grandi estensioni della terra e la manodopera economica del contadino e degli indigeni, lasciando il capitale transnazionale e le catene di intermediazione commerciale la maggior parte dei guadagno di quest’affare, così come accade attualmente con l’industria della castagna e del legno. Quest’attività, si presenta come generatrice delle antiche e nuove asimmetrie e dipendenze con speciale pericolo per la sovranità alimentare dei popoli, in quanto supporrebbe da un lato un aumento costante dei prezzi dei prodotti alimentari di base e dall’altra la perdita della diversità alimentare propria di queste terre, parte del patrimonio culturale dei popoli indigeni di questa regione. La monocultura attenterebbe lo scambio di semi, gestione comunitaria delle terre, contro la biodiversità e la qualità alimentare. Per ciò che è stato detto precedentemente, l’industria degli agrocombustibili attenta principalmente il processo di riterritorializzazione dei popoli indigeni dell’oriente e, in questa maniera, danneggia anche l’insieme delle lotte dei popoli indigeni del paese. Stiamo quindi di fronte all’alternativa di rifare la biodiversità naturale, la diversità culturale, le lotte e le conquiste per la terra - territorio, la possibilità della rivalorizzazione delle conoscenze ancestrali in cambio del combustibile “pulito” per le automobili dei paesi ricchi. In quest’ambito, se la lotta dei popoli indigeni fallisce il pianeta perderebbe l’unica alternativa reale della sussistenza ad ampio spettro, visto che è chiaro che mantenere i livelli di consumo attuale dei paesi del nord può solo portarci ad una catastrofe ecologica. Queste lotte hanno rivitalizzato le nozioni di sviluppo, nel senso che è importante chiedersi quanto sia sviluppata una civiltà che ha portato il mondo ai limiti della sua stessa esistenza. In questa maniera, i popoli indigeni sono i portatori di una opportunità storica dell’umanità e possiamo o dobbiamo apprendere da essi un’altra maniera di relazionarci con la natura, ripensando al criterio di sviluppo.

Riferimenti bibliografici

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Professoresse all’Univ. di La Paz, Bolivia.