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IL CAPITALISMO ITALIANO:RIFLESSIONI E CONTRADDIZIONI

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Due mesi di lotta: un po’ di domande, qualche risposta

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1. Per risvegliare le coscienze Forse quest’estate, sfogliando compiaciuto i suoi giornali e i suoi sondaggi, Berlusconi non immaginava la vampa che avrebbe acceso l’Italia sin dal primo giorno di scuola. Ancora all’inizio di settembre tutti i media ripetevano - scongiuravano? - che non ci sarebbe stato un autunno caldo, che nel Paese era finalmente venuto il tempo del consenso e della pace sociale. Blindando con la manovra d’estate la programmazione economica dei prossimi tre anni, avviando una campagna mediatica di demonizzazione del posto fisso, denunciando i supposti sprechi e inefficienze del servizio pubblico dietro il paravento ideologico della “meritocrazia” e del “rigore”, creando ad arte uno stato di emergenza rispetto a cui si deve “riformare” per direttissima, il governo credeva di riuscire a evitare le spiacevolezze del dissenso. Ma, davanti all’ultimo atto di smantellamento dell’Istruzione e della Ricerca pubblica, un grande movimento di genitori e insegnanti, di studenti e dottorandi, di precari e lavoratori è sceso in piazza, ha bloccato il corso normale delle cose, alterato i programmi stabiliti, risvegliato le coscienze, riempito luoghi pubblici di significati altri. I 300.000 che il 14 novembre hanno invaso le strade di Roma hanno dimostrato che la stragrande maggioranza vuole il ritiro dei provvedimenti già approvati e il blocco di quelli a venire. Per raggiungere questo primo e necessario obiettivo, però, l’entusiasmo e la tenacia non bastano: bisogna dotarsi di strumenti atti a rafforzare la lotta. Quello che segue è quindi un piccolo contributo collettivo in questo senso, che proviene dalla nostra esperienza di militanza all’interno del movimento napoletano: ecco qualche domanda che ci siamo posti, e le risposte che un po’ faticosamente, affrontando sempre la situazione concreta, abbiamo trovato.

2. Legge 133, DL 180, linee guida sull’università... Ma che roba è? È il pacchetto di misure messo a punto dalla destra italiana per applicare, nel quadro di costruzione di una potenza imperialista europea che possa gareggiare a tutti i livelli nell’aspra competizione globale, le direttive dell’Unione in materia di formazione, ricerca e lavoro (sancite dalla Dichiarazione della Sorbona nel 1998 e ribadite a Bologna nel 1999). Negli ultimi 15 anni tali direttive si sono tradotte nella famigerata “riforma” che ha introdotto il sistema dei crediti e il “3+2”. Presentata ideologicamente come “armonizzazione” dei percorsi formativi, essa ha evidentemente peggiorato la modalità e la qualità dell’istruzione, e rimarcato le differenze di classe nell’accesso agli studi superiori. Gli studenti, divisi in miriadi di lauree diverse quanto inutili, spesso costretti a lavorare per poter sostenere gli studi, sono stati obbligati alla frequenza dei corsi, a raccattare crediti ovunque, a piegarsi a forme di lavoro non retribuito come gli stage, studiando in modo parcellizzato, ossessivo e meccanico. La progressiva autonomia concessa alle università ha fatto il resto, segnando un completo disimpegno dello Stato e aprendo la strada all’intervento attivo dei privati nelle Università. In questo modo il padronato ha tentato di occupare posti chiave, intensificando processi di mercificazione e precarizzazione, configurando la formazione secondo le proprie esigenze (dai poli di eccellenza esce infatti un élite ben indottrinata, nelle restanti università-licei si sfornano obbedienti lavoratori a basso costo e futuri tributari di master, stage e scuole di specializzazione...). Ma, pur in palese continuità con questo processo, le misure volute da Tremonti, Brunetta e Gelmini non rappresentano “solo” il vertice di una politica di svilimento dell’intero sistema formativo: si tratta di una serie di provvedimenti finanziari e amministrativi volti a ridisegnare i rapporti fra capitale e lavoro; sono parte integrante di un processo ormai ventennale di smantellamento del sistema pubblico, che taglia salari e spese sociali (come sanità e pensioni), diffonde ovunque precarietà e insicurezza, consente al “mondo dell’impresa” di spadroneggiare in ogni ambito della vita sociale. Ora, la quantità dei tagli ai finanziamenti alla formazione fa registrare alle “riforme” un salto qualitativo: attraverso mezzi crudamente economici, e quindi più radicali, si tenta di portare al suo compimento questo processo pluriennale. In questo modo non c’è più bisogno di imporre programmi o di avviare strategie di interrelazione fra diversi enti: attraverso questo processo di aziendalizzazione forzata, gli atenei sono costretti a inseguire i privati, dandogli la possibilità di decidere direttamente, dall’interno degli organi accademici.

3. E che c’entra la crisi? Chiunque sia sceso in piazza in questi mesi si è trovato a urlare “Noi la crisi non la paghiamo!”, e questo slogan, non a caso unanimemente condiviso, ci indica una strada da percorrere, a patto però che si vada oltre il suo significato superficiale. Non si tratta, infatti, di immaginare che i milioni regalati dal governo ai banchieri per sostenere la crisi finanziaria di questi ultimi mesi siano stati semplicemente sottratti ai fondi destinati all’istruzione. Bisogna, invece, leggere dentro lo slogan, mettendo in connessione l’Università e la sua “riforma” con il complesso quadro della crisi di accumulazione che travaglia il capitalismo da almeno trent’anni, e di cui la recente esplosione finanziaria è soltanto l’ultimo, importante, momento di svolta. Tutti i provvedimenti che negli anni hanno ridefinito i percorsi formativi hanno infatti come matrice il tentativo di contribuire al rilancio dei profitti, da un lato attraverso la ricerca continua di innovazioni tecnologiche, dall’altro attraverso la formazione di una forza-lavoro adeguatamente dequalificata, disperata e in competizione, dotata di quel bagaglio minimo di conoscenze che permetta di svolgere le nuove mansioni del salariato. Anche questa (oltre all’attacco diretto alle condizioni lavorative, alla finanziarizzazione, allo sfruttamento del Sud del mondo, all’escalation militare) è stata una strada che l’economia ha percorso per far fronte alla crisi di accumulazione verificatasi dall’inizio degli anni ‘70. Assumere tale impostazione (con la conseguente impossibilità di redistribuire ricchezza attraverso lo Stato sociale), ci consente di strutturare meglio la nostra azione politica. L’idea del governo infatti è chiara: finanziare maxi-piani di salvataggio alla banche con tagli, licenziamenti, casse integrazioni, riducendo la sicurezza a scuola e sul lavoro (inagibilità degli edifici, morti sul lavoro...), distruggendo forme di autodifesa collettiva come il contratto nazionale e generando, attraverso il federalismo e la repressione, razzismo e criminalizzazione dei movimenti sociali. 4. Che fa il movimento reale? Abolisce lo stato di cose presenti? È in tale quadro di crisi e di “riforme” che è nata spontaneamente la mobilitazione, che ha saputo coinvolgere tanti soggetti diversi, nella maggior parte dei casi estranei a precedenti esperienze di militanza. Il movimento si è infatti connotato da subito per il suo carattere inclusivo e autorganizzato: ha saputo intuire la portata devastante dei provvedimenti governativi, e ha mostrato chiaramente di non aver intenzione di svendere il proprio futuro. Questa è stata sicuramente una prima vittoria della protesta: smuovere le coscienze dopo anni di annichilimento, prodotti proprio dagli effetti di “normalizzazione” generati dalle “riforme” degli anni scorsi. Da parte sua, il governo ha tentato da subito di stroncare il movimento, prima minacciando l’uso della forza, poi lasciando infiltrare e “coprendo” elementi dell’estrema destra, e ancora proseguendo una massiccia campagna di disinformazione. In ultimo, per impedire il collegamento tra le proteste degli studenti e quelle dei lavoratori sui quali peserà questa crisi, ha simulato aperture e ha tentato di cooptare le finte opposizioni istituzionali, intavolando la trattativa su qualche milione di euro di tagli o su altri aspetti marginali, utilizzando vari pretesti (addirittura “la lotta al baronato”!). Ed è proprio attraverso queste tattiche, cercando di far introiettare le proprie priorità e linee di intervento, che il governo prova a sfiancare il movimento, e, soprattutto, a dividerlo fra le sue varie componenti, sia politiche che categoriali (con una serie di provvedimenti con cui si oppongono gli atenei fra loro, i precari della ricerca al personale tecnico-amministrativo etc). Fortunatamente gli studenti, i precari, i lavoratori in lotta hanno capito che, a provvedimenti radicali, bisogna rispondere radicalmente; che bisogna respingere i fascisti e l’apoliticismo in cui prosperano, i partiti e i sindacati che concertano sulle loro vite. Soprattutto hanno capito che opponendosi alla legge 133, al DL 180 etc. non si contrasta solo una distribuzione iniqua di finanziamenti, non ci si oppone solo ad alcune ingiustizie specifiche ma a tutto il modello di Università che le “riforme” degli anni precedenti hanno costruito, agli intrecci politico-baronali e alle logiche cooptative che lo sostengono. È in questo senso che il movimento si è candidato ad essere una forza che mira ad abolire lo stato di cose presenti. Non bisogna però dimenticare che, nonostante la crescita del movimento (che rappresenta già di per sé una prima vittoria), le misure volute da Tremonti, Brunetta e Gelmini - certo rallentate, ostacolate, costrette a piccole revisioni - avanzano. Cerchiamo quindi di fare una riflessione sulle forme di lotta più efficaci per contrastarle e impedirne l’attuazione.

5. Quali sono le cose da evitare? Innanzitutto una valutazione “ingenua” della “cultura”. La collaborazione con i docenti, e una mancanza di criticità verso i propri studi, hanno spesso impedito di sviluppare un discorso più approfondito sul senso e sul valore della “cultura” nel modo di produzione capitalistico. Prendiamo un esempio concreto: le “lezioni in piazza”. Durante la mobilitazione sono state un potente strumento propagandistico: hanno inciso nell’opinione pubblica e sono riuscite, nella loro straordinarietà, a coinvolgere gli studenti più diffidenti verso la protesta. Ma molti hanno visto in tali lezioni un fine in sé: nel tentativo di legittimarle teoricamente si è arrivati a dire che esse esprimevano un modo di riappropriarsi “dal basso” dei saperi, modo che poteva essere portato in seguito anche intra muros, chiedendo al docente di affrontare temi di attualità. Un tale discorso ignora il fatto che i contenuti della didattica non sono qualcosa di “neutro”, e che proprio gli anni precedenti hanno cancellato quel poco che rimaneva di cultura critica. Nelle scuole, e a maggior ragione nelle Università, si veicola un sapere strutturato secondo certi tempi e funzionale alle esigenze del mercato, si sviluppa una ricerca che è già tesa all’applicazione. Il capitale, infatti, non domina solo per mezzo dell’ignoranza, ma anche tramite la sua “cultura”, persino recuperando ed assorbendo parte dalla cultura alternativa. Riappropriarsi dei “liberi saperi” senza mettere in discussione i contenuti della didattica (e magari con l’aiuto di qualche barone compromesso con le precedenti riforme) è quindi una pia illusione... Non c’è, infatti, riappropriazione senza la costruzione di una soggettività e di una prospettiva realmente antagonista. Piuttosto che una lezione di un docente, si dovrebbe fare tesoro dello scambio nelle assemblee, nei luoghi occupati e autogestiti, o delle iniziative che vedono la partecipazione di elementi esterni all’università, come lavoratori e immigrati. In secondo luogo, il particolarismo. Bisogna rendersi conto che stiamo attraversando una nuova fase: superato il momento della spontaneità, che ha colto di sorpresa le diverse controparti, siamo costretti a confrontarci con il tentativo di incanalare, sviare, depotenziare, sovradeterminare o reprimere la mobilitazione. Affinché non ci si areni nelle secche in cui molti vorrebbero condurla, è necessario superare una serie di limiti e di elementi di arretratezza che ancora pesano sulla capacità di estendere e radicare la lotta in forme non estemporanee. Non ci si deve rinchiudere nella propria, ristrettissima, dimensione di ateneo o di facoltà, o spezzettare il movimento tra le sue diverse parti, tra studenti medi e universitari, tra differenti forme di contratto, riproducendo una mentalità ristretta e retrograda, cullandosi nell’illusione di poter in tal modo controllare un qualche ambito parziale di lotta che, però, in questo modo non potrà che deperire rapidamente. Se si vuole evitare di delegare ad altri, nei fatti, la propria rappresentanza, dobbiamo dotarci di forme di coordinamento più ampie e inclusive, sui territori, nelle metropoli e sul piano nazionale. In ultimo, si deve contestare il progetto di autoriforma, uscito dall’Assemblea nazionale tenutasi alla Sapienza il 15 e il 16 novembre. Questa non è stata, com’era lecito aspettarsi, un momento di elaborazione di prospettive incisive per proseguire e tenere alto il livello della mobilitazione. Già l’appello dell’Assemblea, alla faccia della molteplicità e del dibattito, consegnava ai partecipanti una cornice ristretta: parliamo di come riformare la nostra Università, attraverso una didattica partecipata, un nuovo welfare state e un pacchetto di ammortizzatori sociali per i precari... Nessuna analisi della fase, nessun cenno teorico al ruolo del sistema formativo all’interno delle società a capitalismo avanzato, nessun tentativo di sviluppare i germi di una nuova soggettività politica presenti nel movimento. Nonostante poi nei dibattiti dei workshop si siano confrontati molteplici orientamenti, ci sono stati consegnati dei report che battevano insistentemente sulla parola d’ordine dell’“autoriforma”, che poi nessuno ha ben capito cosa sia: Riformarsi da sé? È un progetto di un’Università all’interno dell’Università? Ma è possibile costruire nelle aule qualcosa di davvero alternativo oppure il peso di certe dinamiche economiche e direttive politiche è talmente forte che o lo affrontiamo in toto o ne finiremo comunque sconfitti? In realtà, dietro alla vacuità del concetto ci sono solo gli obbiettivi politici di una componente del movimento, che presenta con un linguaggio immaginifico delle posizioni tutto sommato moderate, che ricalcano le letture riformiste istituzionali, infarcite di un po’ di studentismo e di corporativismo (si parla a cuor leggero del Trattato di Lisbona e della Carta Europea della Ricerca, senza dire nemmeno a quali esigenze siano funzionali!). Purtroppo questa è l’unica cosa che si può capire alla fine della lettura: o non si parla di nulla o si tenta di veicolare l’autoformazione, una modalità alquanto originale di critica del sistema universitario. Si tratta, ad esempio, di proporre alle autorità accademiche il riconoscimento in crediti formativi di controcorsi “alternativi” alla didattica ordinaria. In questo modo si “inflazionerebbero” i crediti e ci si impadronirebbe della didattica dal “basso”. Una proposta del genere segna l’arretramento oggettivo delle lotte: un po’ di buon senso basta per capire che con questa richiesta non si combatte, ma si collabora e si legittima il sistema dei crediti, strettamente connesso e funzionale al mondo del lavoro precario (e alla dequalificazione del titolo: si pensi alle vergognose convenzioni che gli atenei stipulano con corporazioni di ogni tipo solo per fare cassa!). L’adozione del sistema dei crediti non è solo un’operazione linguistica - espressione di una visione quantitativa, “bancaria” e gerarchica della formazione - ma si inserisce nella costruzione di un sistema di certificazione delle competenze, integrato a livello europeo. Si vuole creare un sistema di formazione esteso e continuo, adattabile alle bizze del mercato, che i lavoratori (di oggi o di domani) finanzino di tasca propria, passando dallo sfruttamento nei luoghi di lavoro a quello del mercato dell’insegnamento, e viceversa. Chi governa fuori e dentro le università ha fatto almeno 15 anni di riforme per assicurarsi che gli insegnamenti siano ordinati in un certo modo; ha reso tutti ricattabili, ha frammentato i contratti, ha separato la ricerca dalla didattica, scaricando su dottorandi e ricercatori mansioni tecniche e amministrative... non si fa certo turbare da un controcorso! Così non si rompe il nesso fra precarietà e formazione, la si incatena ancora di più a una valutazione quantitativa, in cui ogni disciplina serve solo a riempire tempo astratto. Insomma, non ci si riappropria di un bel niente: semmai si rischia di dare al sistema dei crediti quella credibilità che gli manca. Questi sbandamenti nella pratica derivano da una mancanza di analisi o da un’analisi molto superficiale. Chi si accontenta dell’autoriforma (al di là degli enormi limiti che pure tali proposte mostrano di avere sul piano dell’attuazione concreta), non capisce la relazione che sussiste fra istruzione, ricerca e mondo del lavoro. Invece di mettere in discussione i processi di privatizzazione e precarizzazione unendosi a quelle forze sociali che hanno tutto l’interesse ad opporvisi, ci si mette ad immaginare aleatorie vie di fuga. Si parla di “centralità del capitale cognitivo” senza vedere che la ristrutturazione della scuola e dell’Università è esito e parte integrante di un attacco rivolto innanzitutto contro i lavoratori cosiddetti “manuali”. Non si dà rilievo alle condizioni di lavoro del personale tecnico-amministrativo, in costante carenza di organico e obbligato a straordinari non retribuiti, o alle esternalizzazioni di servizi come le mense, su cui il pubblico non ha più controllo.

6. Quali sono invece gli elementi da valorizzare per provare a vincere? Bisogna renderci innanzitutto consapevoli delle potenzialità della nostra autonomia, e dare strumenti e prospettiva all’embrionale consapevolezza di non avere alleati nei “piani alti”. Cominciare un percorso che non ha nulla in comune con le tattiche “concertative” che da più parti si vorrebbero riproporre, ma che anzi si basa proprio sulla consapevolezza dei danni prodotti dalla “concertazione” messa in atto negli anni scorsi dai sindacati confederali, dalle associazioni studentesche e dei docenti, da quelle dei dottorandi dei precari. Oggi il movimento non può materialmente permettersi di lasciare spazio a chi vuole “contrattare al ribasso” in cambio di qualche briciola (o dell’inserimento nei più infimi anelli della catena baronale...), al contrario, dobbiamo fare largo all’idea che l’opposizione ai provvedimenti governativi non può scindersi dall’opposizione ad un intero modello di società, fondato sullo sfruttamento, il controllo, la precarietà. L’Università che vogliamo deve muovere dalla comprensione e dal rifiuto radicale di queste politiche, deve cominciare diventando un luogo di transito per le lotte aperte nella società. Come studenti, precari, lavoratori non dobbiamo ricavarci spazi di agibilità in un sistema in crisi, magari recuperando i tagli alla formazione dalle pensioni o dalla sanità. Se siamo un movimento di lotta, e non una costola di qualche partito politico con responsabilità di governo, non dobbiamo fare riforme, non dobbiamo sostituirci al legislatore o collaborare con chi è artefice di questo disastro, magari rafforzandolo proprio lì dove il suo disegno era debole. Non ci dobbiamo proporre di amministrare diversamente l’università, né di rivendicare un’autonomia della cultura (quale potrebbe essere in questo sistema?): entrambe le cose non sono fatte per noi, ma per il profitto di pochi, e potranno cambiare solo se tutta la società riesce a muoversi in un’altra direzione. Rifiutarsi di “pagare la crisi”, quindi, non può voler dire altro che contrastare il più ampio attacco padronale. Questa deve essere ora la nostra priorità, perché il movimento non ha alternative per sopravvivere se non quella di far sì che la grande partecipazione di massa di queste settimane sia la base di un’opposizione sociale più ampia e consapevole che, sbilanciando i rapporti di forza, faccia ritirare queste riforme, e intimorisca il governo dal procedere su altri fronti. Alcune vittorie di questi anni (sull’articolo 18, sul CPE...) e alcune sconfitte dovute alla mancanza di collegamento, ci dovrebbero aver insegnato che non c’è possibilità di salvezza individuale: per questo bisogna lottare uniti, iniziare e consolidare percorsi comuni di confronto. Insomma: organizzarsi e coordinarsi con gli altri soggetti colpiti dalla crisi, e con chi da anni difende i propri territori e resiste alle devastazioni ambientali; opporsi in maniera netta e inequivocabile al governo e ai suoi lacchè negli atenei; diffondere ovunque queste analisi e questa consapevolezza, per riuscire a imporre ciò che vogliamo, fuori e dentro le scuole e le università.