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Aziendalizzazione dell’Università e deficit di democrazia

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4. Efficienza ed efficacia: le due nuove parole d’ordine

 

Come si è arrivati all’attuale proposta di riorganizzazione dell’intero sistema universitario? Da un punto di vista politico, direi partendo da una volontà di collaborazione, anche culturale, con le forze antagoniste con cui si voleva dividere la responsabilità di traghettare nella seconda repubblica.

Restando ad una valutazione “locale” delle azioni, direi partendo da una volontà di efficienza. Questa l’immagine forte da trasmettere: finalmente un governo efficiente, dalla parte dei cittadini, che, con azioni di grande efficacia, assicura una altrettanto efficiente Pubblica Amministrazione (PA).

Visti i fatti degli anni precedenti e la fama della nostra burocrazia era opportuno, anzi indispensabile, caratterizzare in tal senso l’azione di governo della cosa pubblica.

Per quanto riguarda in particolare la PA, si è cominciato giustamente notando che il lavoro di ognuno di noi deve produrre gli effetti previsti con i minori costi, che non dobbiamo pretendere che in 10 facciano il lavoro che può fare uno solo e che il cittadino ha diritto di essere trattato con rispetto e.... si è arrivati all’insieme normativo noto come “riforma Bassanini”, ormai composto da 4 leggi base (n.59/1997; n.127/1997; n.191/1998; n.50/1999), cui si ricollegano un gran numero di decreti.

Per restare nell’ambito universitario, non credo che ciò che è pensato per regolare il rapporto tra cittadini e PA, possa essere utilizzato pedissequamente per regolare, in tutti i suoi aspetti, il rapporto tra studenti, docenti e istituzioni pubbliche e private.

Valga per tutti un caso “esemplare”, quello della valutazione del servizio di docenza.

 

I nuclei di valutazione

La Pubblica Amministrazione offre servizi, in parte a tutti i cittadini, in parte a gruppi di cittadini o aziende che abbiano certe caratteristiche e uno dei temi fondamentali di questa legge è giustamente stato quello di definire procedure che assicurino servizi di buona qualità.

In uno sforzo di riorganizzazione razionale del sistema, anche attraverso una specificazione dei ruoli che impedisca sovrapposizioni di competenze, la legge n.537 del 1993 (collegato alla finanziaria di quell’anno, che può essere considerato il punto d’inizio della riforma della PA in atto) affida alle amministrazioni centrali un ruolo di indirizzo, programmazione e valutazione dell’azione delle amministrazioni periferiche e a queste ultime la responsabilità dell’utilizzo delle risorse e della gestione.

In questo quadro, si pone anche il problema di assicurare la presenza di procedure che consentano la valutazione della qualità dei servizi offerti, anche attraverso una misurazione del loro grado di efficacia ed efficienza. Efficacia rispetto agli scopi dell’azione, efficienza rispetto al processo di produzione del servizio stesso.

Rispetto all’università se ne occupa l’articolo 5 della legge, che prevede l’istituzione in tutte le università dei “nuclei di valutazione” con il compito di verificare, mediante analisi comparative dei costi e dei rendimenti, la corretta gestione delle risorse pubbliche, la produttività della ricerca e della didattica, nonché l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione amministrativa.

I nuclei devono inviare una propria relazione al MURST, in modo che sia possibile una valutazione dei risultati relativi all’efficienza e alla produttività delle attività di ricerca e di formazione, e per la verifica dei programmi di sviluppo e di riequilibrio dell’intero sistema universitario. Le università che non rispettassero l’impegno potrebbero vedersi escluse dalla successiva assegnazione delle risorse.

L’attività di raccordo e valutazione dell’intero sistema, che la legge n.537 aveva affidato all’Osservatorio Permanente, sta per essere svolta dal Comitato Nazionale, previsto dalla legge n.370 dell’ottobre del 1999, che precisa la composizione dell’organo nazionale e di quelli periferici, nonché sanzioni in caso di inadempienze.

I componenti del comitato sono di nomina del Ministro ed è formato oltre che da docenti, anche da personale (più o meno) esterno (3 su 9 nello schema di decreto di nomina) al mondo accademico.

Nulla da dire circa la necessità della valutazione, ma se sono perfettamente utilizzabili i criteri già previsti per quanto riguarda la valutazione della gestione delle risorse, più complicato è stabilire criteri oggettivi di valutazione dell’azione di docenza. Del resto, non a caso, la legge n.193, dell’8 agosto del ’99, che si occupa dei criteri di controllo di gestione e di valutazione, ne esplicitamente dichiara la non applicabilità alla valutazione dell’attività del personale insegnante e ricercatore.

La statistica e certo anche altre discipline, hanno proposto da tempo indici di misurazione dell’efficienza e dell’efficacia di servizi. Rispetto al servizio offerto dai docenti e dai ricercatori è però complesso misurarle.

Nel caso dei professori universitari si tratta di personale con, almeno in teoria, un duplice ruolo: docente e ricercatore.

Vediamo innanzi tutto come viene affrontato il problema della valutazione della didattica.

Come abbiamo già notato, la valutazione della sua efficacia deve essere condotta a due livelli, l’uno interno, rispetto ai fruitori del servizio, gli studenti, l’altro esterno rispetto al Paese.

Rispetto alle esigenze della collettività, essa può essere oggettivamente valutata solo tenendo conto dei tempi e modi di inserimento del laureato nel sistema produttivo, a partire dal momento in cui egli chiede di entrare nel mondo del lavoro ed in presenza di una variabile endogena: la difficoltà di inserimento nel lavoro.

Dov’è il problema ce lo dice l’unica relazione prodotta dall’Osservatorio, che densa di oltre cento pagine, ne dedica molte al trattamento di dati provenienti da una specifica indagine ISTAT sugli sbocchi professionali dei laureati, proprio nell’intento di estrapolare l’informazione sul livello di efficacia dei diversi corsi universitari rispetto al mercato del lavoro.

Attraverso l’uso di analisi statistiche su cui non mi soffermo, nella relazione si conclude, ammettendo che l’interazione fra le variabili coinvolte non consente di valutarne il singolo ruolo e riconoscendo che i risultati non servono alle unità di formazione e/o ai finanzieri e dunque non possono essere utilizzati per estrapolare una valutazione del solo formatore.

Le istituzioni dell’istruzione nelle sue componenti, il contesto socio economico, la struttura del mercato del lavoro locale e nazionale, la situazione congiunturale, le politiche di sostegno, tutto ciò rende più o meno agevole l’inserimento dei giovani, laureati e non.

Per confermare che il mercato del lavoro non spalanca le sue porte ai neo laureati (in media di 30 anni e non 24 o 25 come potremmo aspettarci) basta richiamare qualche percentuale: rispetto ai laureati del 1992, a tre anni dalla laurea, lavora il 66,8 %, molti dei quali avendo accettato un lavoro che non richiedeva la laurea e solo il 41,7 % ha un lavoro stabile; la situazione è ancora peggiore per i non laureati.

Più semplice potrebbe sembrare la valutazione dell’efficacia interna al corso di studi, realizzata ad esempio contando per anno accademico il numero di esami superati e relativo voto, sia per singolo insegnamento che complessivamente.

È anche il caso di notare che il tempo d’apprendimento fino alla sua certificazione in un voto finale, è interpretabile sia come indicatore di efficacia dell’insegnamento che di efficienza del processo di produzione del servizio stesso.

Ma a chi dovremmo addebitare il risultato? Saremmo anche disposti ad addebitarlo solo a noi docenti se le cose andassero un poco meglio; ma gli studenti in media non danno certo molti esami.

Scherzi a parte, farlo non sarebbe neppure corretto, perché il servizio di docenza, per realizzarsi positivamente ha bisogno del contributo dello studente, visto che il corso si conclude veramente solo con lo studio individuale.

Non ci sono dubbi sul fatto che il docente abbia il dovere di promuovere la sua partecipazione attiva ma la probabilità di riuscita dipende anche dalla determinazione del giovane e dal suo grado di possesso delle conoscenze preliminari necessarie per affrontare i diversi insegnamenti.

Ma non solo questo, il tutto deve anche poggiare su di un ambiente idoneamente attrezzato, ossia una serie di servizi: biblioteche, aule informatiche, laboratori di lingue, ma anche luoghi di ritrovo, occasioni strutturate di incontro tra tutti gli “attori” di questo nostro “gioco” che è di apprendimento ma anche di scambio.

Comunque sia, una serie di indicatori, numero di esami, tempo tra un esame e il successivo, rispetto delle propedeuticità culturali, numero di appelli senza esami, voti, consentono di valutare oggettivamente l’efficacia del sistema, anche se non di indicarne il responsabile. E infatti, analisi in questo senso se ne sono fatte in molte facoltà, di tutte le università.

Per il momento, per quanto riguarda l’attività dei nuclei di valutazione, almeno de “La Sapienza”, l’unica azione valutativa, tra quelle previste dalla legge, messa in atto o almeno l’unica nota, consiste in un’indagine rivolta agli studenti e diretta a ricavare il loro giudizio sull’efficacia, rispetto a sé stessi, dei singoli corsi di insegnamento, con un questionario somministrato nelle ultime settimane delle lezioni di ogni corso e dunque quando queste non sono ancora terminate.

Ad essere persone fiduciose, dovremmo dire che la scelta di questo strumento dipenda dalla convinzione che si tratti di uno strumento di conoscenza oggettivo. In realtà una somma di opinioni sono sicuramente interessanti ma non di facile lettura e al più, costituiscono informazione oggettiva dell’opinione e non dell’argomento cui si riferisce.

Ad esser malfidati si potrebbe dire che si è consapevolmente preferito mostrare la prontezza di reazione, mettendo in piedi un’azione di valutazione complessa e a posteriori, anche a ragion di causa più criticabile.

Ma forse si è semplicemente scelta l’azione che a prima vista sembrava la più semplice da compiere, oltre che la più coerente con l’idea dello studente-cliente/utente.

Il questionario chiede allo studente un giudizio sulla didattica di ciascun corso: se il docente è chiaro, se rispetta l’orario e quali mezzi multimediali utilizza (come se fossero a disposizione a sufficienza), se il corso è o meno di facile comprensione e fin qui, niente da dire. Ma chiede anche e questo è una perla, se i contenuti corrispondono al previsto, come può lo studente che segua il mio corso sapere se è o non è grave che io salti o dedichi spazio insufficiente ad un argomento importante? Questo lo studente lo scoprirà solo o in un corso successivo o molto più tardi, se sarà fortunato e avrà un lavoro corrispondente alla professionalità promessa (nell’indagine del 1995 sui laureati del 1992, risulta che il 40 % di quanti lavorano è insoddisfatto del grado di utilizzo della formazione ricevuta e il 30 % non trova coerente con essa il lavoro svolto).

Non vengono sollevate, né potrebbe essere diversamente, questioni che consentano di capire perché il nostro lavoro non è efficace. Del resto quanto si ritenga operativo lo strumento è chiarito dal fatto che noi ancora nulla sappiamo delle risposte date dagli studenti nell’indagine dello scorso anno accademico.

Quello del questionario resta dunque, soprattutto, un piccolo segnale della nuova impronta che si vuole dare al rapporto discente-docente, che sempre meno poggia sulla convergenza d’interessi, ossia sul fatto che all’impegno di conoscere dell’uno corrisponde l’impegno dell’altro a rendere più agevole e completa questa conoscenza, ma solo un rapporto mercenario: l’uno paga delle tasse e l’altro percepisce uno stipendio, l’uno per ricevere, l’altro per dare un servizio o addirittura una merce.

Se poi si guarda ai risultati di indagini di questo tipo, promosse in diverse sedi negli anni scorsi, a volte da singoli docenti, corsi di laurea o intere facoltà e atenei, si torna al nodo di partenza. Esiste una corrispondenza forte tra livello di soddisfazione dello studente e coerenza della formazione pre-universitaria: gli studenti che dichiarano di possedere le necessarie basi conoscitive, mediamente, danno anche giudizi positivi sull’attività dei docenti, mentre indicano giudizi molto negativi quelli che dichiarano di non averle; a riprova, i giudizi migliorano passando da materie del primo anno a quelle degli anni successivi.

Si facciano ulteriori di queste indagini se si è convinti che possono aggiungere informazioni utili, che non abbiamo già (oltre che materiale cartaceo per la relazione di valutazione annuale). Nel frattempo, anche in attesa che la scuola secondaria recuperi pienamente il proprio ruolo formativo, si utilizzi l’informazione oggettiva che già abbiamo e, per esempio, si destini maggior energia a cercare forme di didattica più efficaci ed anche a risolvere il problema della insufficienza delle conoscenze preliminari.

Perché un fatto è comprovato, il livello di preparazione del collettivo degli studenti, il loro grado di soddisfazione dello studio, non è omogeneo, la loro probabilità di raggiungere il titolo o di abbandonare gli studi, non è la stessa per le diverse provenienze scolastiche.

Per concludere una considerazione che non è poi così banale. Non si dimentichi che vi è anche la possibilità di un effetto perverso legato al fatto che per il docente esiste la possibilità di aumentare l’appetibilità del proprio insegnamento, modificandone o meno la qualità. Da sempre nelle nostre facoltà, ognuno di noi lo ha potuto sperimentare sia da studente che da docente, alcuni colleghi regolano il flusso delle presenze di studenti al corso, “regolando” il rigore dell’esame e dell’insegnamento dalla cattedra. Non vorrei che questi questionari, posti in una fase non conclusiva dell’apprendimento della materia, sortissero anche quest’effetto, in qualche docente un poco timoroso del giudizio altrui.

Ma l’attività di didattica riguarda solo uno dei due ruoli cui è chiamato il docente universitario, egli infatti deve anche testimoniare la sua attività di ricerca.

Anche rispetto ad essa si pone il problema che si raggiungano risultati utili per il Paese e che questo avvenga senza spreco di denaro pubblico. Anche per essa è previsto un organo ministeriale e dei nuclei locali di valutazione.

In questo caso la questione della valutazione è ancora più complicata anche se, in via di principio e almeno formalmente, dovrebbe invece essere molto semplice visto che a determinare la carriera universitaria è soprattutto l’attività di ricerca, testimoniata dalle più o meno numerose pubblicazioni, accolte in più o meno prestigiose riviste o case editrici.

Sui termini del problema non mi soffermo, perché i criteri della soluzione appaiono ancora oscuri, come ha evidenziato un recente interessante convegno, tenuto il 4 febbraio 2000 all’Accademia dei Lincei. “La valutazione è nemica dell’originalità e spesso manca il consenso per le proposte fortemente innovative” ....”cercare il consenso del valutatore può far perdere di vista l’obiettivo della ricerca”.

A proposito di valutazione della ricerca, viene in mente quanto è accaduto nel momento in cui, proprio al fine di migliorare la qualità della ricerca o almeno limitare lo spreco di risorse, si decise di favorire il finanziamento di ricerche interdisciplinari e che prevedessero la collaborazione di ricercatori di diversi dipartimenti, facoltà, atenei. In alcuni casi questo ha sicuramente favorito la collaborazione, ma in molti altri ha semplicemente comportato presenze fittizie o la presentazione di proposte di gruppo che sono rimaste somma di ricerche individuali. È passato qualche tempo e ora nel DM n.10 del 13 gennaio sul finanziamento delle ricerche tra le raccomandazioni del Ministro c’è la seguente: “non più progetti giganti!”

 

 

5. Le disposizioni legislative in materia di Università

 

Proprio a partire da un intensificarsi dell’azione legislativa, negli ultimi mesi si è acceso, più sulla stampa che nelle università, un certo interesse per i problemi di quest’ultima.

Rispetto all’università, si è dimostrato senz’altro vero quanto nel 1997 si annotava a proposito della legge n.127 (la Bassanini 2), ossia che a partire da essa, attraverso regolamenti deliberati dal Consiglio dei Ministri, i suoi diversi settori sarebbero stati governati più agilmente.

Bisogna innanzi tutto riconoscere che l’attività legislativa per l’università era necessaria ed è stata rilevante, ha toccato i temi nodali del suo funzionamento e si è quasi completata, il punto è che il come non lascia soddisfatti tutti.

Non bisogna inoltre sottovalutare il fatto che la delega al governo in materia universitaria ha rappresentato una forte innovazione di metodo che, se ha reso più facile l’approvazione della normativa, ha però anche eliminato i tradizionali luoghi di dibattito. Non solo il parlamento, che era il luogo istituzionale deputato al dibattito sulle questioni dell’Università, ma anche le stesse università, come posto di lavoro.

I fatti salienti della trasformazione in atto sono stati sanzionati da atti legislativi cui si è giunti, soprattutto negli ultimi anni, attraverso periodi piuttosto confusi in cui venivano annunciate soluzioni, subito contraddette da ipotesi diverse e ugualmente presto superate.

La tattica utilizzata dal governo-legislatore di pubblicizzare le soluzioni ancora in embrione ha sortito un effetto perverso. Ha infatti spesso costretto l’accademia a discutere a vuoto.

Valga per tutti l’esempio delle diverse bozze di documento della “commissione Martinotti”: noto il documento bozza, se ne chiedeva (e a volte imponeva) la discussione in facoltà, non appena in modo più o meno concorde si definiva una strategia di adeguamento o contrasto, occorreva ristudiare nuovi documenti, alla fine la maggioranza, indifferente e che voleva restare silenziosa, ha vinto e non si è discusso più.

In altri casi invece è accaduto che, proprio lungo quella che sembrava la linea d’arrivo, la normativa venisse modificata, a volte anche radicalmente. Si pensi alle procedure di concorso per i professori universitari o allo stato giuridico dei ricercatori, modificate su pressione di prestigiose corporazioni di professori, ma anche di singoli professori-opinionisti, grandi anche nell’arroganza (personaggi che non si sono mai fatti sfuggire l’occasione di lamentare l’infima qualità della quasi totalità dei docenti subalterni: che cercano perennemente di superare le proprie enormi lacune con l’aiuto dell’ope legis!).

Tutto ciò, unito al fatto che ormai da tempo vi è nella sinistra una generale ritrosia a confrontarsi sulle idee, ha reso gli universitari piuttosto silenziosi, anzi direi annichiliti perché qualche cassandra preconizza la fine delle facoltà, delle università, del sapere!!...se non si accettano le nuove regole dell’Università-Azienda e qualcun altro si spaventa, forse perché teme che se a breve l’università sarà veramente un’azienda, la classe dirigente (di sempre) potrebbe anche decidere di estromettere proprio lui.

Mi meraviglia che vi siano persone che a loro volta si meravigliano se, sulla riforma in atto, non si discute. I così detti intellettuali non trovano di meglio che scuotere la testa rassegnati, commenta Angelo Panebianco che, con i suoi articoli sul Corriere, è risultato stimolante per qualcuno di loro che, svegliato dal torpore, è a sua volta intervenuto sulla stampa.

In realtà, la necessaria discussione tra intellettuali di spicco è ben poca cosa se non nasce o almeno non gli corrisponde un più generale fermento intellettuale nella società e nei luoghi di lavoro, nel nostro caso nelle università, nelle facoltà, nei dipartimenti, che sono i luoghi in cui, come nel passato, troveranno attuazione, ma non sempre, le leggi dello Stato in materia.

Ma non tutti i nostri intellettuali sono silenziosi, lungo tutta la piramide dell’organizzazione universitaria, accanto al Ministro, accanto ai rettori, accanto ai presidi, alcuni di loro lavorano alacremente e silenziosamente per rendere il più possibile morbido l’impatto con le modificazioni che si vanno realizzando. Modificazioni finalizzate ad una vera mutazione genetica, da università degli studi a università-azienda, sempre meno funzionale alle esigenze attuali e future del sistema economico e sempre più al proprio arricchimento.

Entriamo dunque nel merito di queste leggi, richiamandone brevemente le principali.

Come leggi organiche, si hanno: la legge n. 210, del 3 luglio 1998, che trasferisce alle università la competenza ad espletare le procedure per la copertura dei posti vacanti e la nomina in ruolo di professori ordinari, associati e dei ricercatori; la n. 264, del 2 agosto 1999, che regola l’accesso ai corsi universitari; la n. 370 del 19 ottobre 1999, che istituisce per le università un sistema di valutazione interna della gestione amministrativa e prevede incentivi e compensi ad personam; il Regolamento in materia di autonomia didattica degli atenei, DM del 3 novembre 1999, sull’ordinamento degli studi universitari, che ha definito le forme della formazione flessibile e infine il disegno di legge, collegato ordinamentale alla legge finanziaria del 2000, che contiene le disposizioni in materia di stato giuridico dei docenti.

Chi si è interessato solo in questi ultimi mesi ai problemi dell’università avrà la meraviglia di scoprire che nessuna delle parole d’ordine della riforma di oggi è nuova.

Occorre innanzi tutto riconoscere che le ultime disposizioni di legge in materia universitaria hanno pressoché completato il disegno riformatore e che quello che troverà attuazione non è esattamente il disegno iniziale, pur mantenendone le parole d’ordine.

I provvedimenti che hanno inciso sulla struttura universitaria, modificandola fortemente, si sono succeduti in un arco di tempo piuttosto lungo, un ventennio.

I principi fondamentali, richiamati nella normativa di questi ultimi mesi, sono formalmente ancora quelli contenuti innanzi tutto nel DPR n.382 del 1980, legge organica di riforma, che innanzitutto rivoluzionò l’organico del personale docente e la struttura organizzativa istituendo i dipartimenti e il dottorato di ricerca. A distanza di dieci anni, hanno fatto seguito la legge n.168 del 1989, istitutiva del Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e la legge n.341 del 1990, che ha innovato l’offerta didattica, rendendola flessibile con l’istituzione dei diplomi universitari. I tre provvedimenti hanno costituito nel loro insieme, per diverso tempo, la “legge di riforma dell’Università” e hanno rappresentato veramente un atto di rottura rispetto alla precedente normativa; in fatto di principi, ben poco se non nulla, è stato positivamente aggiunto dalle normative seguenti.

Il livello di partecipazione alla fase di definizione e poi anche di sua prima realizzazione fu altissima in tutto il mondo universitario, le posizioni furono non sempre univoche e in parte la legge non sembrò sempre corrispondere ai principi innovatori indicati, ma sostanzialmente fu letta come un fatto positivo, non ostante alcuni compromessi, che costituiscono anche le incongruenze di oggi.

Il principale punto debole nel DPR n. 382 del 1980, riguarda lo stato giuridico, in esso risultò sconfitto il principio del docente unico, ma questo non comportò una scelta nettamente diversa; il principio, non ben digerito, fu trasformato in una trinità zoppa, con la scelta del ruolo-non ruolo per i ricercatori.

Infatti, la legge istitutiva del ruolo dei ricercatori, la legge n.28 del 21/2/1980 così come la 382, non ne definiva lo stato giuridico, ma prevedeva che entro 4 anni delle due l’una o una legge lo avrebbe precisato o i ricercatori sarebbero divenuti un ruolo ad esaurimento, invece di 4 anni ne sono passati 20 e il nodo è ancora tutto da sciogliere. Pochi mesi fa sembrava si preannunciasse finalmente la definizione del loro stato giuridico, come parte del corpo docente; viceversa la legge, che pure era stata già approvata da un ramo del parlamento ed era vicina ad esserlo anche dall’altro, è stata improvvisamente abbandonata e oggi sembra più probabile (disegno di legge collegato alla finanziaria) che questo riconoscimento si trasformi in una beffa: la messa ad esaurimento dei ricercatori, nello stesso momento in cui li si riconosce docenti.

Una prova di efficienza in negativo per il legislatore che, in modo manifesto ondeggia tra decisionismo e sudditanza rispetto l’accademia (quella che conta in parlamento e sui giornali) e arriva a risultati inaccettabili non solo sul piano umano, ma anche rispetto all’intero sistema di docenza.

Secondo pasticcio, sempre nella 382, il mantenimento della struttura delle facoltà. In una logica di razionalizzazione, il fatto innovativo di fondo sembrava dovesse essere nella eliminazione delle Facoltà, sostituite con due strutture, una didattica e una scientifica; infatti l’attività dei docenti avrebbe dovuto trovare coordinamento didattico nei corsi di laurea e coordinamento scientifico nei dipartimenti. In particolare questi ultimi erano stati pensati come luogo di aggregazione di quanti, all’interno dei diversi “progetti formativi”, appartenessero ad uno stesso “progetto culturale”.

In questo caso il timore, almeno in parte giustificato visto che il progetto era fortemente innovativo, che si potesse perdere il fatto culturalmente aggregante che aveva giustificato la nascita delle diverse facoltà, ma ancor più forse il timore che il governo degli atenei potesse essere rimesso ad organismi troppo vasti per essere controllati, impedì lo svuotamento delle Facoltà.

Almeno nei grandi atenei, per qualche tempo, fino a che le facoltà non hanno riguadagnato le posizioni, vi è stato un discreto braccio di ferro tra presidi e presidenti di corso di laurea, alla fine ha avuto la meglio l’interesse dei gruppi di potere.

Infatti, il venire meno delle facoltà avrebbe necessariamente portato al governo dell’ateneo un senato accademico esteso e quindi meno controllabile, che non avrebbe assicurato il mantenimento delle posizioni della classe dirigente. Oltretutto gli ordinari al loro interno non sono molto compatti, era molto meglio mantenere un luogo ristretto di compensazione dei diversi interessi.

A questa, in parte anche legittima esigenza di centralismo (democratico?), si è sommato il fatto che, con la riforma del 1995, che aveva il proposito di ridisegnare l’offerta didattica delle facoltà, si è aumentato in modo spesso esagerato il numero di corsi di laurea e diploma. Risultato, oggi, negli statuti di alcuni grandi atenei, si parla di accorpare facoltà diverse o, forse, parti di diverse facoltà.

Ma veniamo finalmente ai principi innovatori degli interventi di fine millennio, sulla fine ingloriosa dei Diplomi Universitari, l’innovazione della legge n.341 del 1990, avremo modo di tornare.

 

I principi

I autonomia didattica, finanziaria e gestionale delle università

Il principio, che viene indicato come primo da chiunque voglia indicare i punti salienti dell’attività normativa di questi ultimi mesi è senz’altro quello della Autonomia didattica, gestionale e finanziaria delle Università, primo in ordine di tempo e di importanza sul piano culturale ancor prima che organizzativo.

Ebbene esso è stato già sancito all’art. 1 della legge n.382 del 1980: Le università sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione dell’articolo 33 della Costituzione, hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; esse si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti.

In attuazione, l’articolo 6 della legge n. 168, del 9 maggio 1989 recita: Le università sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione dell’articolo 33 della Costituzione, hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; esse si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti.

Gli atenei, dovendo diventare strutture autonome di didattica, dovevano dotarsi di strutture autonome di funzionamento, regolamentate da statuti definiti da ciascuna sede, sia pure nel rispetto di un quadro comune.

Ricordo che il fatto fu giudicato molto positivamente da molti di noi che, poco fiduciosi delle autorità accademiche, considerammo particolarmente opportuno che nella legge di attuazione fosse previsto che, qualora una sede non avesse provveduto a dotarsi di uno statuto autonomo, l’avrebbe ricevuto d’imperio.

L’aver rimesso agli atenei e al loro interno alle singole facoltà, la responsabilità della gestione dei fondi non costituisce dunque un fatto di oggi ma la benvenuta, anche se tardiva, applicazione di una legge.

Quante volte è stato attivato un insegnamento, non perché importante per la formazione offerta, ma perché l’insegnamento rendeva possibile una chiamata voluta.

Quante volte nelle facoltà hanno preso servizio colleghi perché la facoltà aveva avuto, per questo scopo, un posto di professore.

Il fatto che a ciascun ateneo venga assicurato un budget finanziario, definito nell’ammontare ma non nella destinazione, ci rassicura; l’avere a disposizione un budget finanziario limitato, non può non favorire una riflessione sul suo miglior uso e attivare una certa forma di controllo della comunità sulla sua destinazione.

La legge n. 210 del 1998 che rimette agli atenei la destinazione dei fondi per il reclutamento del nuovo personale docente ne è una conseguenza.

Se l’articolo 1 della 381 ha trovato, sia pure solo recentemente, attuazione, il secondo, che sanciva che le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi facciano espresso riferimento non vale più, come abbiamo visto vi ha posto fine la “Bassanini 2”.

Il risultato è che non sempre è facile, almeno per un non esperto come sono io, trovare la legge che ha modificato la normativa di partenza. A quelle prime leggi sono seguite spesso disposizioni contenute in normative non organicamente dedicate all’Università e per di più apparentemente finalizzate, non tanto ad innovare quanto, come recita esplicitamente la n.127 (ancora la Bassanini 2) a snellire l’attività amministrativa e i procedimenti di decisione e di controllo, ma che di fatto in parte sono risultate modificatrici dell’iniziale impianto. Così ad esempio proprio la n.127 che si occupa di aspetti fondamentali per l’Università all’articolo 17, comma 95 e seguenti. Tra l’altro, proprio questa legge specificando le competenze del CUN, di fatto ne ridimensiona il ruolo, non a caso, mentre la legge n.168 dell’89 lo indicava come organo elettivo di rappresentazione universitaria, ora viene indicato organo di rappresentanza delle istituzioni autonome universitarie e infatti in esso vengono inseriti 3 membri della Crui, ossia tre rettori di università pubblica o privata. Il cambiamento è dunque, come in molti altri casi, nel senso di un accentramento verticistico delle responsabilità a discapito di una gestione democratica.

 

II Università-Azienda

Sempre la 381 ha riconosciuto per le università la necessità di mantenere dei punti di contatto col mondo della produzione, consentendo che esse, purché non osti lo svolgimento della loro funzione scientifica e didattica, possano stipulare contratti e convenzioni con enti pubblici e privati al fine di eseguire per essi attività di ricerca e consulenza. L’esecuzione di tali attività è affidata, di norma, ai dipartimenti, che vengono contestualmente istituiti e solo sussidiariamente, in loro assenza, agli istituti o a singoli docenti a tempo pieno. Come si vede, nella 382, queste attività sono espressamente condizionate allo svolgimento delle attività istituzionali.

Oggi sembra che la filosofia si vada modificando: le università e i dipartimenti dovranno, almeno in parte, autofinanziarsi e dunque dovranno trasformarsi in università-azienda, ossia dovranno sempre più destinare energie per le attività “conto terzi”. In perfetta sintonia con ciò, nell’ipotesi di stato giuridico, non si distingue più tra docenti a tempo pieno e a tempo parziale, ma ci si limita a sancire l’inespugnabile principio: che nessuno dovrà venir meno ai suoi doveri istituzionali (!).

Questo potrà anche avere un effetto positivo e comportare, come dice qualcuno, un maggior interesse per la ricerca applicata o piuttosto, forse con una maggiore probabilità, favorire lo svolgimento di una professionalità di routine. Il mondo delle imprese non fa ricerca, l’università farà quella che serve alle imprese e la ricerca per l’innovazione la faranno sempre in meno.

È nota la stretta relazione esistente fra ricerca scientifica e didattica, per cui tutto ciò potrà anche comportare che la formazione universitaria venga ad essere sempre più “mirata” alle più immediate esigenze del mercato del lavoro. Non è un caso se, già ora, Confindustria e Ministero del lavoro grazie ed insieme alla CRUI, pretendono di definire il fabbisogno formativo anche per le università. Perché da una parte si dice che il nostro mercato del lavoro deve essere l’Europa, se non il mondo, ma dall’altro si invitano le università ad una maggiore attenzione alle esigenze del locale mercato del lavoro.

 

III nuova definizione dello studente e formazione flessibile

Altro principio innovatore: l’atteggiamento nei confronti dello studente, anzi: la nuova definizione di studente. Di questa abbiamo già parlato.

Ma in termini di azioni, quelle a loro favore sono ancora quelle previste dalla seconda delle precedenti leggi di riforma, la 341 del 1990, che oltre ad istituisce i diplomi universitari introduce il concetto del credito formativo, finalizzato al riconoscimento dei corsi seguiti con esito positivo.

Inoltre, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge ciascuna università, sotto la responsabilità dei consigli delle strutture didattiche, avrebbe dovuto provvedere ad istituire con regolamento il tutorato. Questo, come recita la stessa legge, è “finalizzato ad orientare ed assistere gli studenti lungo tutto il corso degli studi, a renderli attivamente partecipi del processo formativo, a rimuovere gli ostacoli ad una proficua frequenza dei corsi, anche attraverso iniziative rapportate alle necessità, alle attitudini ed alle esigenze dei singoli”. Come si vede non è un’invenzione di oggi che lo studente debba essere preso in considerazione nella sua individualità. Il punto è che al dettato della legge si è dato scarsissimo riscontro.

I diplomi universitari avrebbero dovuto introdurre la flessibilità dei percorsi formativi, altra odierna parola d’ordine, ma se ciò non è stato è per precisa responsabilità degli organi di governo delle università, dei ministeri coinvolti (e dunque del governo del paese) e del corpo docente.

Non era sbagliata la proposta, il problema non era nella legge istitutiva, ma innanzitutto in quelle di attuazione rispetto agli sbocchi professionali, che non sono seguite.

Ma non solo, una riforma di quella sostanza, che richiedeva forti innovazioni nell’organizzazione e nelle forme della didattica, è stata pensata a “costo zero”, ossia senza spese aggiuntive per lo Stato.

Così non ci si è dotati delle nuove strutture necessarie e la consueta didattica, rivolta agli studenti dei corsi di laurea, è stata spesso allargata ad essi, semplicemente alleggerita con “tagli di programma”.

Ma accanto a questi problemi ve ne era un’altro: che la maggioranza della classe docente (in tutte le sue componenti) non voleva attuare la riforma, perché vedeva nei corsi di primo livello il rischio di uno svilimento del ruolo di “formatore dell’empireo”.

A patto che oggi, anche in virtù del richiamo all’armonizzazione con il resto dell’Europa (principio in generale di buon successo), si risolva tutto ciò, credo si potrà fare finalmente un buon servizio alla comunità nazionale.

Occorre però vigilare su due aspetti non secondari: rispetto al diplomato (ora laureato) triennale che gli venga assicurato un livello formativo riconoscibile, rispetto al dottore del quinquennale, che non diventi la cavia delle specificità di cui è, in quanto ricercatore, portatore il docente. Avendo partecipato a qualche momento di discussione in merito, so che è un problema reale.

Parlando di studenti, non si può concludere l’analisi delle leggi senza un richiamo alla n. 264, del 2 agosto 1999, che precisa il principio della regolazione dell’accesso ai corsi universitari. Il principio che si debba compiere ogni azione positiva volta a favorire che richiesta e offerta di formazione corrispondano ai mezzi a disposizione delle strutture e alle esigenze della crescita del paese, è indiscutibile. Il problema è che non si capisce bene come si pensi di realizzare questa quadratura, speriamo che le norme di attuazione non finiscano in una Bassanini-2001, la cui portata sfugga ai più.

Una menzione sola rispetto al Regolamento in materia di autonomia didattica degli atenei e in particolare al comma 6 dell’articolo 5: I regolamenti didattici di ateneo possono prevedere forme di verifica periodica dei crediti acquisiti, da parte dello studente, al fine di valutarne la non obsolescenza dei contenuti conoscitivi

 

IV il sistema di valutazione

Di questa parola d’ordine, la valutazione delle attività, abbiamo già detto abbastanza.

 

V Lo stato giuridico dei docenti

Il disegno di legge sullo stato giuridico approvato dal Consiglio dei Ministri e inserito come collegato alla prossima finanziaria, prevede forme di didattica per i dottori di ricerca o anche semplici laureati da almeno tre anni (curriculum scientifico almeno triennale ritenuto idoneo !!) nella forma del tirocinio per l’avviamento all’attività didattica e di ricerca.

In alternativa si potranno stipulare contratti di diritto privato con personalità di alta qualificazione nella cultura, nelle professioni, nelle attività produttive o anche professori collocati a riposo, secondo le regole locali stabilite dal regolamento del singolo ateneo.

L’unica cosa che si giudica improponibile è prevedere una terza fascia di docenza, strutturata. Credo di averne capita la ragione: si parte dalla consapevolezza che non si è in grado di assicurare il fisiologico passaggio dei meritevoli, da un livello di docenza al successivo e indiscutibilmente non si può non concordare con questa consapevolezza.

Risulterà però finalmente risolto il problema della unicità o meno della figura docente, ora riavremo l’esercito dei precari: il dottore di ricerca, l’insegnante di liceo, l’esperto con qualche velleità accademica, cultori delle materie, ridaranno vita all’esercito degli esercitatori, con questa rivoluzionaria idea innovativa si risolveranno i problemi di disagio nello studio accademico.

Si risolverà soprattutto il problema di ristabilire l’ordine. Perché in Consiglio di Facoltà allargato ci saranno solo i professori, con qualche rappresentanza dei precari (?), in quelli ristretti solo gli ordinari, che speriamo rapidamente saranno riportati ad un numero limitato, come limitata è l’eccellenza!

Entrare più seriamente nel merito non ha senso, intervenendo al CNR al recente convegno promosso a Roma dal CUN sullo stato giuridico, ascoltando sottosegretari e consiglieri, mi sembra di aver capito alcune cose: che vi è disponibilità a rinunciare al tetto del 20% per i professori ordinari e a lasciare libertà agli atenei per le norme sulle chiamate, che non si è concordi sulla messa ad esaurimento della terza fascia, sull’eliminazione della distinzione tra regime di impegno a tempo pieno e tempo definito... eccetera, eccetera.

 

 

6. Conclusione

 

Mi sembra che due soli siano i principi innovativi impliciti in tutta la normativa di fine anni ‘90.

Il primo di questi è contenuto nella volontà di realizzare la riforma senza il contributo delle università ma con quello di uno loro sparuto gruppo di eletti (dal Dio-Ministro e non dalle università), in nome di una volontà di efficienza che le università con i loro tempi e litigi non avrebbero consentito (e non si può non riconoscere obiettivamente che in questo modo, ossia trascurando gli aspetti di democrazia, è molto più agile realizzare quello che si ritiene il da farsi).

Non è un caso che non trovi più attuazione l’articolo 2 della legge 381, che sanzionava che le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento.

Non condivido, però, perché mi sembra semplicistica la considerazione che quella attuale sia la restaurazione del vecchio sistema baronale, magari, sarebbe già qualcosa.

L’università pensata per il futuro è una “Università per l’Azienda”.

A mo’ di monito termino riportando brevemente alcuni passi dell’intervento di Enrico Auteri (Confindustria) che, come dichiara (il testo non è virgolettato perché nasce dal ricordo e da un resoconto inviatomi), espone delle considerazioni da una prospettiva esterna al mondo accademico, in base alle esigenze del mondo delle imprese ma anche alla sua esperienza di padre di studenti.

Egli ci ricorda che tra le principali esigenze delle imprese vi sono: una ricerca e una formazione superiore che accrescano la competitività della nazione, un apprendimento continuo, flessibilità e cultura internazionale.

Lamenta come il titolo stesso del DL evidenzi una distanza dalla cultura d’impresa; in questa prospettiva sarebbe stato preferibile parlare di “gestione e sviluppo del personale docente” oppure di “responsabilità e sviluppo dei docenti”. Nel DL c’e’ un mix di norme troppo generali e di norme troppo particolari.

Occorrerebbe avere più coraggio nel dare autonomia e dare per inevitabile che ci saranno degli errori che dovranno essere corretti.

Occorre evitare che prevalgano i timori, specie se poco fondati, come quello che le università siano appetite e preda di poteri forti. Il ritardo nella attuazione dell’autonomia rischia di aumentare il ritardo dell’Italia rispetto al contesto internazionale. Infine, dal punto di vista delle aziende in cui ci sono estese e articolate gerarchie, è difficile comprendere come si possa realizzare l’autonomia con l’assenza di gerarchie, l’occasionalità della presenza di competenze manageriali e la scarsa rapidità nell’assunzione di decisioni.

Altro ancora dice, ma penso possa bastare.