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Eccedenza di popolazione e problematiche nel mondo del lavoro
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Eccedenza di popolazione e problematiche nel mondo del lavoro

VICTOR M. FIGUEROA S.

Sulla nuova composizione dell’esercito salariale di riserva

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1. Informalità e sovrappopolazione Attualmente, la sovraofferta della forza lavoro è presente agli occhi della società sotto forma di una vasta gamma di attività e personaggi impegnati in “qualsiasi cosa”, con la finalità di provvedere solo per il proprio sostentamento. I commercianti di strada (gli ambulanti o quelli che svolgono il lavoro in un luogo fisso), multiformi e massicci lavoratori in proprio che lavorano in luoghi piccoli e lustrascarpe poco equipaggiati (molto spesso facendo lavorare i familiari), musicisti impiegati nei mezzi di trasporto pubblici o nelle strade pubbliche, lava-macchine, pagliacci, affilatori di strumenti domestici, vigilanti che vivono della carità dei vicini, idraulici e carpentieri che offrono i loro servizi per strada, quelli che raccolgono i rifiuti destinati al riciclaggio, le sarte a domicilio e molti altri lavoratori, si sommano al meno visibile individuo ormai licenziato che non fa altro che bussare alle porte di qualsiasi impresa con la speranza che possano essere richiesti i propri servizi. Attualmente, il fenomeno presenta aspetti nuovi. Infatti sia la massa di individui che partecipa a queste attività che la varietà delle stesse attività si sono moltiplicate. Inoltre, la loro posizione di fronte allo Stato è diversa, poiché fanno pressioni con il fine di ottenere delle concessioni, molto spesso con successo. Questi nuovi aspetti hanno impressionato a tal punto che la stessa sovraofferta lavorativa è arrivata ad essere percepita come un fenomeno nuovo; per questo molte correnti di ricerca e di analisi sociali hanno deciso che era molto più appropriato battezzarlo con il nome di “informalità”.1 Il concetto di informalità manca di pretese teoriche; questo non significa che sia di utilità strumentale per determinati studi politici, però, fondamentalmente, si limita a descrivere situazioni e esperienze lavorative, generalmente al di fuori della legalità, senza preoccuparsi delle cause profonde o dei processi che stanno dietro a tali situazioni ed esperienze. A volte, fallisce anche nella descrizione.2 L’informalità non si riferisce in modo specifico al fenomeno che ci interessa (la sovraofferta lavorativa), che è presente in maniera rilevante in ciascuna fase storica della società sud-americana e che deve essere spiegata attraverso concezioni globali sulla realtà. Normalmente viene inteso in questo modo, così risulta normale trovare questi intenti esplicativi che formano parte di ciascuno sforzo serio atto a costruire un discorso che dia conto dei processi regionali. Senza dubbio, per la nostra conoscenza, il lavoro non è stato ancora completato; infatti l’obiettivo fondamentale di questo lavoro è quello di apportare alcuni elementi che riteniamo di indubbia importanza per definire le cause e le forme di manifestazione del fenomeno, nel contesto della nostra interpretazione della realtà regionale. Inizieremo con una breve revisione delle principali correnti di interpretazione, cercando di portare alla luce i temi controversi dal nostro campo d’interesse, che non è altro che la struttura socio-economica. Di seguito presenteremo le nostre proposte di soluzione, nella prospettiva di contribuire al superamento degli scogli teorici che, a nostro giudizio, rendono difficile la comprensione del fenomeno. Infine, attraverso queste proposte, cercheremo di categorizzare le forme che adotta la sovrappopolazione. Non ci occuperemo del modo in cui le relazioni economiche coinvolte nel fenomeno della sovraofferta lavorativa si manifestano nell’organizzazione della sfera dello Stato, e tantomeno ci occuperemo, per affrontare il problema, di fattori come la psicologia e la cultura, che vanno coinvolti sicuramente al momento di una spiegazione integrante.

2. La sovraofferta lavorativa nelle correnti di pensiero Un modo di trattare l’abbondante offerta di forza lavoro è stato quello di ritenerla un elemento di transizione verso l’economia moderna. L’elaborazione che più si distingue, all’interno di questa prospettiva, è stata realizzata da W. Arthur Lewis, il quale definiva i “paesi meno sviluppati” come economie duali. Un settore “tradizionale” (lavoro autonomo, agricoltura familiare, servizi precari) organizzato su basi non capitaliste coesiste con un settore moderno capitalista. L’espansione di questo trova una base di appoggio nella disarticolazione dell’altro, mentre il settore tradizionale fornisce la forza lavorativa richiesta e si supponeva che questo settore fosse pienamente predisposto ad unirsi al settore industriale. Al suo interno non esisteva un’inclinazione fatale a rimanere isolata nel processo. Affinché il passaggio da un settore all’altro fosse facilitato, era necessario che l’industria offrisse, per un periodo prolungato, remunerazioni leggermente superiori all’entrate ottenute nel settore tradizionale. Il livello dei salari si sarebbe mantenuto relativamente basso, a causa dell’offerta illimitata di forza lavoro, cosa che avrebbe permesso di ottenere i risparmi sufficienti per favorire lo sviluppo. La crescita deve smettere di sfruttare le riserve lavorative per dare luogo ad una economia omogenea con un mercato del lavoro integrato.3 Lo schema non ha relazioni con i fatti storici, per quanto prolungato sia il periodo in cui lo si proietti. Anche se trascureremo il fatto che il settore “tradizionale” è per il capitalismo molto di più che una riserva lavorativa, non si potrà ignorare che i salari sono mantenuti molto più bassi di quelli dei paesi sviluppati, che il tasso di crescita demografica si è ridotto (debilitando la sua funzione di fornitore di forza lavorativa al settore moderno), che il settore capitalista è cresciuto e che, nonostante tutto, l’organizzazione non capitalista del lavoro, invece di dissolversi, tende sempre più a crescere. Il problema che si sta discutendo trascende i limiti di una transizione, inevitabile all’interno del processo di sviluppo, nel corso della quale l’economia tradizionale si arrenderà all’avanzamento moderno. La scuola ha lasciato la sua impronta e, ancora oggi, l’eco dei suoi postulati si può ascoltare in alcune spiegazioni dell’informalità. Così, in un lavoro sul fenomeno in Bolivia si potrà leggere: “In ogni caso, l’economia informale rappresenta l’opposto - teoricamente non previsto - degli sforzi intensi e del lungo corso a favore della modernizzazione della Bolivia e, allo stesso tempo, una sorta di retrocessione verso un periodo storico caratterizzato da relazioni di produzione con una marcata indole agraria e contadina e da condizioni di vita di stampo precapitalista e premoderno”.4 Inoltre, l’autore non abbandona l’ottimismo che anima questa scuola. Infatti, proprio come W. A. Lewis, pensa che i membri della informalità siano attori razionali, capaci di definire i propri interessi e, quindi, agire di conseguenza. Dice: “È probabile, sicuramente, che gli stessi informali tendano, in una maniera non del tutto esplicita, a conformarsi gradualmente all’“altro” modo di vita e produzione: uno dei loro aneliti centrali sarebbe quello di entrare nella sfera della formalità come primo passo verso il mondo della modernità”.5 La questione del perché hanno optato per un “ritorno” al mondo “premoderno” nel quale si trovano non ha capacità in un contesto del genere. H. de Soto, un eccellente esponente del pensiero neoliberale, riguardo a questo tema adotta una posizione compatibile con questo punto di vista. Secondo lui, in Perù, coesistono diversi “paesi”: uno mercantilista in decadenza, e un altro, quello dell’informalità dura e creativa, in ascesa. Tra i due, rileva l’esistenza anche di un terzo paese, quello della violenza che getta le radici nel vuoto lasciato dal mercantilismo ormai distrutto e dalla informalità che ancora non ha il predominio. Quest’ultimo, quello dell’informalità, è il paese che “lavora duro, è innovatore e ferocemente competitivo” e che rappresenta il vero cammino verso il futuro, “l’altro sentiero”.6 Nel frattempo, anche l’informalità è un processo di cambiamento; infatti è coinvolta in una “lunga marcia verso la proprietà privata”, ciò che corrisponderebbe al naturale corso delle cose, posto che i settori popolari si uniscano alle imprese private e cooperino attraverso organizzazioni libere e decentralizzate.7 La domanda principale che l’autore formula per spianare questo cammino, è la deregolamentazione che deve tradursi “... nella crescita delle responsabilità e delle opportunità dei particolari in certe aree e nella riduzione dello Stato”.8 Sin da qui si può notare che dalla provincia intellettuale che visualizza le società divise in mondi contrapposti ed esclusivi si possono aprire possibilità ugualmente contrapposte. Per Mansilla l’informalità rappresenta il passato, per H. De Soto, il futuro; secondo il primo, l’informalità deve essere superata, secondo l’altro, deve costruirsi; per il primo, l’interesse degli informali risiede nel loro far parte dell’informalità, rafforzandola; per il secondo, risiede nello smantellamento dell’informalità. Nonostante ciò, nessuno dei due autori può articolare coerentemente gli aspetti concreti degli informali. Supponiamo che le regolamentazioni statali spariscano (il che non è un semplice esercizio dell’immaginazione) o che si riducano (anche se non vengono generalizzate), il risultato andrebbe a danneggiare direttamente gli informali, perché pone in una posizione migliore gli imprenditori del “settore formale”. Anche J. C. Cross (il quale, detto di passaggio, ha messo in evidenza che è possibile realizzare analisi rilevanti sulle situazioni descritte dall’informalità) aveva formulato questa obiezione in una delle sue critiche all’opera di H. De Soto. Segnala: “Paradossalmente, è la stessa illegalità delle tattiche informali che utilizzano gli operatori per eludere i costi della formalità, quello che li protegge dalla competenza di fronte ad imprese più grandi e potenzialmente più efficienti. Liberati dai costi della formalità, le imprese più forti potranno usare il loro maggiore capitale e la più grande capacità di risparmio a partire dalle proprie economie di scala, per centralizzare la produzione e la distribuzione nei mercati, senza incrementare, ovviamente, le condizioni di lavoro degli impiegati”. 9 L’illegalità, parziale o totale, costituisce un vantaggio comparativo per il lavoratore informale, ed è tra le cause che rendono possibile la sua permanenza nelle piccole imprese. Da una prospettiva più vincolata agli interessi dei grandi imprenditori, si spera che i loro portavoce neoliberali, molto più pragmatici, mostrino lo stesso interesse per la deregolamentazione e per la riduzione degli aggravi che pesano sulle imprese. Così, il Centro Studi del Settore Privato operante in Messico, nel quale “l’economia sotterranea” o informale include figure così diverse come il lucidascarpe, il trafficante di droga o l’industria multinazionale che viola le regole,10 trova la sua causa anche nelle imposte, nei regolamenti, nelle proibizione e nella corruzione burocratica.11 Propongono di ridistribuire il carico fiscale, includendo gli informali. Anche tra gli imprenditori risuona lo stesso richiamo. Un noto leader imprenditoriale messicano lo ha fatto con eccessiva irritazione: “Ci deve essere una persecuzione fiscale ancor più forte nei confronti dell’economia informale, perché danneggia tutti i messicani. È stato commesso un rilevante errore strategico: si persegue nello stesso modo colui il quale lavora nell’economia formale e smette di pagare le tasse, tanto quanto colui che sta in quella informale. E la natura del difetto è differente. Quelli sono evasori sistematici, delinquenti fiscali che danneggiano un intero paese...”12 Al di là dei termini usati, il presupposto che soggiace alla dichiarazione ha un senso: lo Stato, qualunque dimensione abbia, non può esistere senza le tasse. Un’altra pretesa è uno sproposito. I grandi imprenditori sottomessi alle regole vorrebbero vedere il carico fiscale distribuito in maniera tale che diventi possibile una riduzione a loro vantaggio. Dunque esiste un’apparente contraddizione economica tra gli imprenditori formali e gli affari informali, che deriva dalla diversa relazione giuridica con lo Stato. Però questa contraddizione comprenderebbe solo quelli che effettivamente competono tra di loro e pochissimi piccoli produttori di beni e servizi si vedrebbero coinvolti. È vero, d’altro canto, che l’informalità costituisce una protezione per innumerevoli piccoli affari, però è altrettanto vero che la gran parte delle imprese formali si avvalgono del lavoro informale per far funzionare i propri affari. Avviene, ad esempio, nel lavoro a domicilio; nel rifornimento di mezzi di produzione nelle piccole botteghe; nell’ottenimento di materie prime, strumenti e servizi a prezzi ridotti; nel ricorso a meccanismi non regolamentati per la realizzazione di prodotti, ecc. Di conseguenza, così come si è potuto constatare che la distinta posizione degli affari di fronte alla legge crea problemi, ora si dovrebbe constatare che la formalità e l’informalità hanno bisogno l’una dell’altra per la propria esistenza come entità economiche. Se la grande azienda si invischia in attività informali-illegali, come è riconosciuto anche nella definizione del CEESP annotata sopra, l’intento di ragionare in termini di settori tradizionale e moderno, non ha più senso. Da questa prospettiva, l’informalità-illegalità non potrebbe neanche rianimare il vecchio dibattito sul dualismo dell’economia. Né prospetta problema rilevanti sull’organizzazione socio-economica delle società e, in realtà, ostruisce qualsiasi intento di spiegazione a riguardo. Nel momento in cui si riflette circa la sovraofferta di lavoro, cosa che l’informalità fa in maniera molto parziale, troviamo che lascia fuori lo stesso disoccupato o il licenziato, una figura sempre presente nello sviluppo della società e, pertanto, così moderna - in realtà più moderna che tradizionale - come la grande impresa, alla quale difficilmente la si può tacciare di illegalità. I disoccupati e la grande massa degli informali hanno un’origine comune e, in gran parte dei casi, i secondi sono il risultato di una trasformazione dei primi. Però, da dove vengono questi disoccupati? Anche per H. De Soto, vengono direttamente dalla campagna. Questo teorema è tanto chiaro quanto potenzialmente confuso. Ma non esiste neanche il dubbio che una delle grandi cause della migrazione dalla campagna alla città sia l’introduzione dei mezzi di produzione industriali nei lavori rurali. Qui non ci interessa se lo spostamento della popolazione è provocato dalla dissoluzione di forme non capitaliste o dall’introduzione di progressi nelle produzioni capitaliste. Quindi, qualora venissero dalla campagna sono, alla fine, un prodotto dell’industria, ossia, della città. Del resto, non è difficile notare che allo stesso tempo la città crea una sua propria riserva di disoccupati e informali. La crescita a causa dell’effetto vegetativo delle città è molto più grande della sua crescita a causa dell’effetto migratorio, e di volta in volta aumenta.13 E mentre la crescita demografica delle città è minore a causa dell’effetto migratorio, maggiore è la crescita dell’informalità. Nelle città la partecipazione dell’impiego informale passava dal 13,6% nel 1950, al 16, 9% nel 1970, al 19,4% nel 1980,14 al 31,4% nel 1991, al 35,6% nel 2001,15 e la proporzione di impieghi informali nelle città è indubbiamente maggiore nei nuovi impieghi creati rispetti a quelli formali. Sono dati che assegnano un merito agli sforzi di distogliere l’attenzione verso la propria industria, nella ricerca di cause che effettivamente diano conto della sovraofferta lavorativa. La necessità di cercare nel settore moderno le cause del fenomeno nella regione, è stata percepita già diverso tempo fa. In uno dei documenti costitutivi della scuola strutturalista localizzato nella CEPAL, Raúl Prebisch osservava che, negli Stati Uniti, la liberazione della forza lavoro prodotta dall’introduzione di tecnologie nell’agricoltura era assorbita dall’espansione industriale nelle città che, a sua volta, era anche il settore dirompente del progresso tecnico nella produzione rurale. La tecnologia creava disoccupazione nelle campagne però l’industria che la generava apportava, mentre cresceva, i mezzi per il suo assorbimento. Secondo Raúl Prebisch, l’America Latina non stava seguendo questo modello e per questo era urgente dare impulso allo sviluppo industriale. Sosteneva: “Nella periferia, il progresso tecnico porta con sé la disoccupazione, come nei centri, però la domanda di beni del capitale inerenti a questo processo non si manifesta nella periferia come nel centro, poiché nella prima mancano le industrie del capitale; di conseguenza, la domanda riferita, invece di riflettersi nell’economia del paese in sviluppo, causa un effetto nei paesi industriali in cui si producono questi beni di capitale”.16 Il problema era, quindi, nel mancante sviluppo industriale. L’importazione dei beni di capitale per il settore rurale creava impiego nel paese che produceva quei mezzi, mentre la loro applicazione nella regione generava disoccupati per i quali non esisteva offerta di lavoro. Era imprescindibile spingere l’industrializzazione che sostituiva queste importazioni. La concezione predominante sull’industria distingueva settori, a seconda della funzionalità del prodotto, dividendola in beni di consumo, intermedi e di capitale, i quali a loro volta, segnalavano tappe di industrializzazione, in modo che questa sarebbe dovuta avanzare, continuativamente, dalle industrie più semplici a quelle più complesse. Si tratta di una concezione puramente materiale dell’industria e del processo di industrializzazione. Inoltre, possiamo trovare un campo distinto di analisi, in cui il problema non è l’integrazione di un settore (tradizionale) in un altro (moderno), ma la costruzione del settore moderno, il cui punto centrale era l’industria. Attraverso questo si ottenevano nuovi livelli di profondità, ciò che ha permesso a questa scuola di essere poco vulnerabile dai punti di vista legalitari della realtà. Però anche qui, il decorso del processo economico metterà a nudo alcune mancanze, esigendo nuovi sviluppi. Gli anni a partire dal Secondo dopo Guerra sono stati testimoni della nascita di una industria di beni di capitale più o meno importante, a seconda dei paesi. Invece di diminuire, il problema dell’occupazione, è peggiorato, a giudicare dalla crescita dell’informalità. Nel 1950, l’impiego informale crebbe del 10% rispetto all’occupazione totale, per arrivare al 22% nel 198917. Ora si potrebbe considerare che le industrie del capitale spuntate nella regione rimanessero soggette all’importazione di beni di capitale e la necessità di questi beni cresceva in proporzione all’espansione industriale. In questo modo, l’industrializzazione stava potenziando il problema invece di risolverlo. All’interno di questa corrente, le prime riflessione del CEPAL, invece di accusare l’industrializzazione, insistono nella possibilità ad approfondirla. Verso il 1953, Aníbal Pinto, sottolineava la necessità di dare impulso all’industrializzazione contando sulla popolazione (la quale in tempi futuri, senza un maggiore impegno, visto che la sua preoccupazione principale era la povertà, il CEPAL la riconobbe informale) per occupazioni di scarso impatto economico, indirizzandola verso attività primordiali attraverso precise politiche. Diceva: “L’esistenza di un così considerevole numero di mano d’opera occupata in attività di scarsa importanza per il consumo e che riceve remunerazioni esigue è, insieme alla presenza di licenziati onesti, la premessa iniziale e fondamentale per effettuare quello spostamento”.18 L’investimento dovrebbe essere orientato alla produzione, nei paesi, di beni di capitale richiesti dall’industrializzazione. In quest’ultimo piano si è andati abbastanza avanti anche se in maniera diseguale a seconda dei paesi. Però la realtà della disoccupazione e dell’informalità non cessava, tanto da obbligare a nuovi sforzi di chiarimento, ma la realtà è diventata più complessa e anche meno chiara. Effettivamente, si poteva constatare che si erano riusciti ad elevare i livelli della produttività e che questi progressi erano evidente nell’industria generale, oltre alla produzione d’esportazione. Però il progresso tecnico non si era diffuso omogeneamente. Al contrario, si era concentrata nei rami e nelle attività, nelle regioni e nelle persone, facendo sì che molti problemi si erano addirittura aggravati. Esisteva una situazione di “eterogeneità strutturale”, ovvero la coesistenza di settori con distinti livelli di produttività e di attività economiche, tra i quali si stabilivano relazioni di spoliazione e dominio. Il concetto, creato da R. Prebish e sviluppato da A. Pinto, ha fatto luce sulla distanza del CEPAL rispetto ai punti di vista duali. Per Pinto l’eterogeneità strutturale avrebbe costruito, “... in una certa misura, la sintesi contemporanea della formazione storica di queste società”.19 L’autore segnalava distinte dimensioni di questa eterogeneità: a) tecnica (processi diversi a seconda della grandezza dell’impresa o a seconda del suo carattere imprenditoriale, artigianale); b) sociale (distinti tipi di contratti lavorativi, qualificazioni, accesso ai mezzi di produzione, organizzazione, ecc); c) istituzionale (distinta localizzazione rispetto ai luoghi in cui si controlla e si distribuisce il processo tecnico). Il risultato dell’eterogeneità è che “... i frutti del progresso tecnico tendevano ad essere comprati in stock da chi era più vincolato, organicamente, ai mezzi produttivi e territoriali dello strato sociale moderno”.20 In relazione alla produzione, asseriva: “Come inevitabile conseguenza di questa particolare eterogeneità delle attività produttive - e anche se certamente questo non sia l’unico fattore che influisce sulla materia - i frutti del progresso tecnico tendevano ad essere comprati in stock da chi era più vincolato, organicamente, ai mezzi produttivi e territoriali dello stato sociale moderno. In altre parole, una diffusione parziale e selettiva del progresso tecnico ha portato ad una nuova modalità di concentrazione del progresso stesso, e cosa ancora più importante, dei suoi risultati”.21 La causa principale di questa realtà non era “l’influenza dell’assorbimento scientifico-tecnologico”, neanche le disuguali relazioni tra il centro (in cui è concentrato il progresso) e la periferia (che lo assorbe), anche se, in verità, entrambi sono fattori importanti, “... la questione è soggetta al contesto sociale e istituzionale nel quale si sviluppa il progresso tecnico. L’aspetto fondamentale deve poggiare sul perché, per chi e come si impiega e mobilita il potenziale dell’avanzamento tecnologico”. E si enfatizzava: “La radice della questione, come precedentemente annunciato, si trova nelle modalità di crescita seguite o scelte dai paesi che hanno trovato l’alveo e il destino del progresso tecnico. Detto in altre parole, a una strategia implicita o esplicita di assegnazione delle risorse ne è corrisposta un’altra, coincidente, di assimilazione e utilizzo dell’avanzamento tecnologico”.22 Il problema così passava all’ambito politico. Era necessario superare lo stile di sviluppo accentratore per passare a un altro in cui l’assegnazione delle risorse rendesse possibile una distribuzione più equa dei frutti del progresso tecnico. L’irruzione del neoliberismo e della crescita orientata all’esportazioni ha scartato questo tipo di proposte. Al contrario, la concentrazione dell’entrata si è aggravata e i settori esclusi dai benefici del progresso tecnico sono diventati sempre di più. La CEPAL ha cercato di adeguare le sue idee e le sue enfasi al nuovo contesto. Nel 1990 ha pubblicato uno studio sulla “trasformazione produttiva equa”, in cui, sin dal primo momento, è evidente il suo pessimismo rispetto alle possibilità di una lotta contro l’emarginazione in un futuro molto vicino. Asserisce: “Pur intenso risulti lo sforzo della trasformazione, sicuramente trascorrerà un periodo molto lungo prima che si possa superare l’eterogeneità strutturale attraverso l’inserimento dell’insieme dei settori emarginati nelle attività con crescente produttività”.23 L’obiettivo fondamentale del progetto è quello di generare una “competitività autentica”, alla cui definizione il CEPAL inserisce due aspetti “complementari”: a) si tratta di mantenere o migliorare la partecipazione nei mercati internazionali, con un aumento simultaneo nei livelli di vita della popolazione; b) far sì che i beni e i servizi prodotti sostengano i modelli di efficienza vigenti a livello internazionale per quanto riguarda l’uso delle risorse e la loro qualità. Tre obiettivi specifici appaiono vincolati alla competitività autentica: 1) migliorare l’inserimento internazionale; 2) favorire l’articolazione produttiva; 3) indurre un’interazione creativa tra gli agenti pubblici. I concetti di industria e industrializzazione si presentano apparentemente arricchiti. “A sua volta”, segnala lo studio, “... la realizzazione e la manutenzione della competitività (...) presuppone l’incorporazione del progresso tecnico, inteso (sic) come la capacità di imitare, adattare e sviluppare processi di produzione, beni e servizi, precedentemente inesistenti all’interno di una economia; in altre parole, presuppone il transito verso nuove funzioni di produzione”.24 È apparso, quindi, anche se in maniera non molto chiara, l’intervento delle facoltà creative di lavoro (introdotte come “nuove funzioni di lavoro”) come momento importante del processo produttivo, arricchendo il concetto stesso del lavoro ed elevandolo dalla mera manipolazione del materiale obiettivo. Il potenziale di una definizione del genere è enorme; ha in sé la possibilità di avanzare verso l’adozione di una concezione completamente diversa della produzione e della società, assumendo, da una prospettiva molto più ricca, il problema della sovraofferta della forza lavoro. Sfortunatamente, non si può dire che il CEPAL abbia approfondito il suo punto di vista in questa nuova visione. Al contrario, è sembrato più predisposto alla regressione teorica. Nel 1995 modifica la sua nozione di un’industrializzazione che avanza con la sostituzione di importazione per settori, e sostiene che ora: “Non si tratta tanto di stabilire nuovi settori che attualmente non esistono nel quadro di ingresso-prodotto (come se la produttività totale provenisse in maniera automatica da questi, ciò che suole essere eccezionale), ma di migliorare la produttività totale dei fattori nei settori esistenti”. La politica che serve per raggiungere lo sviluppo produttivo, contiene una rigida svolta verso il passato. In effetti secondo il CEPAL: “... l’enorme eterogeneità esistente tra le imprese di uno stesso settore suggerisce che la sfida principale, per una politica di sviluppo produttivo, è la rapida adozione, adattamento e diffusione delle tecnologie attualmente disponibili a livello internazionale da parte delle grandi imprese che lavorano in gruppi obsoleti e con metodi ormai passati; tutto ciò è molto più importante rispetto alle grandi mete di ricerca e sviluppo a cui è interessato un gruppo che già sta lavorando vicino al traguardo delle migliori pratiche internazionali. L’essenza di una politica di sviluppo produttivo, almeno nella fase attuale dello sviluppo - così distante dall’odierna frontiera internazionale - è accelerare il processo di diffusione per le pratiche migliori”.25 Si abbandona, così, la proposta di avanzare verso la creazione di capacità creative assenti nella grande massa delle industrie, condannandole a una eterna dipendenza dalla produzione esterna. Il CEPAL ha constatato che la competitività internazionale della regione, a lungo termine, è scesa. La partecipazione dell’America Latina e dei Caraibi nelle importazioni mondiali si è ridotta dal 10,25% nel 1948 al 5,28% nel 2005.26 Anche se quest’ultima percentuale rappresenta un miglioramento rispetto alla posizione raggiunta nel 1990 (3,84%) dopo il “decennio perduto”, indica certamente una grande retrocessione a lungo termine, e tra i responsabili va notata, in modo evidente, le mancanza dell’industrializzazione. E non si può dire che l’evoluzione dell’industria sia avvenuta senza prendere in conto i suggerimenti del CEPAL per quanto riguarda la maniera di trattare il progresso tecnico, ciò che costituisce, in realtà, il modello dell’industrializzazione tradizionale. Se le “funzioni della produzione” assenti non comportano ulteriori problemi teorici per l’industrializzazione, molto meno fa pensare che questa assenza abbia qualcosa a che vedere con le cause della “povertà”, all’interno del contesto di questo punto di vista. La povertà è la preoccupazione principale del CEPAL al momento di discutere la situazione dei settori meno protetti della società. Si tratta di un concetto ancor più ampio rispetto a quello dell’informalità, compreso al suo interno (ossia, in larga misura in cui anche gli informali sono poveri) e libero dai limiti di un’approssimazione legalitaria. Al momento di specificare le cause del sottoimpiego e della disoccupazione, dichiara: “Gli alti tassi di espansioni demografica, sebbene siano diminuiti negli ultimi anni, vogliono dire che anche nei periodi di crescita economica relativamente rapida (come tra il 1950 e il 1980) esiste una considerevole marginalità, alti livelli di sottoimpiego e disoccupazione. Tutto ciò ci permette di spiegare, in parte, l’estrema disuguaglianza della struttura distributiva di questi paesi”.27 Nella regione, il tasso di crescita della popolazione è diminuito in modo consistente, secondo quanto ha potuto constatare il CEPAL stesso. Si stima che in l’America Latina e nei Caraibi il tasso di crescita, nel quinquennio 1990-1995, era del 1,7%, mentre tra il 2000-2005, era del 1,4%, e seguirà a diminuire a un tasso di un decimo per il quinquennio fino al 201528. Il declino è stato più pronunciato in alcuni paesi che hanno una popolazione vasta. Tra il 1980-1985 e il 2000-2005 in Argentina il tasso di crescita è caduto dal 1,5% all’1,1%; in Brasile dal 2,1% al 1,3%; in Colombia dal 2,1% all’1,5%; in Messico dal 2,2% all’1,2%; in Venezuela dal 2,5% all’1,6%.29 Nonostante questa evoluzione, la povertà, secondo i calcoli del CEPAL, non manifesta assolutamente una riduzione corrispondente tra il 1980 e il 2006; era del 40,5% della popolazione, nel primo anno e si stima che sia del 38,5%, nel secondo. Da allora, quest’ultima percentuale non si compara con i livelli raggiunti dopo la decade critica degli anni ’80 e riesce a cedere solo nel 2002, ma è evidente che la povertà continua ad essere un flagello disumano. Il numero di persone che vive in povertà, durante questo periodo, è cresciuto da 136 milioni a 205 milioni. Nel 2006, il CEPAL prepara una nuova revisione delle sue idee. In un testo di Carlos Filgueira e Andrés Peri, che costituisce il riferimento a questo contesto di revisione e rinnovamento, si può leggere: “In America Latina, gli elevati indici di inequità e povertà, nel passato, sono stati interpretati come il risultato ‘dell’insufficienza dinamica’ della regione: il tasso di crescita economico cresceva poco in relazione al tasso di crescita della popolazione, che invece aumentava sempre di più. Il rapporto sfavorevole dava vita a una ‘popolazione in eccedenza’, esclusa in modo totale o parziale dal mercato del lavoro e il cui destino più probabile è quello di vivere in povertà. La correlazione di queste idee in materia di politica, è stata semplice: era necessario agire sui termine della correlazione/quoziente: o maggiore crescita economica o minore crescita della popolazione. Ancora meglio, su entrambi i termini... Lo scenario attuale della regione è diverso da quello degli anni ’60 quando venivano sviluppate queste interpretazioni e quando si tentò di applicarvi dei rimedi per abbattere la povertà e la disuguaglianza”.30 Così, ancora una volta è necessario regolare il punto di vista delle realtà contraddittorie. Lo stesso CEPAL mette in evidenza, in questo modo, di non avere un corpo teorico per tenere conto, in maniera affidabile, dei processi socio-economici della regione, da cui si possono far nascere politiche senza un grande rischio di distruzione. Nel pensiero marxista, l’inclinazione più immediata è quella di contemplare la popolazione in eccesso come l’esercito industriale di riserva, risultato dei cambiamenti nella composizione del capitale. È lo sviluppo delle forze produttive che permette di liberare la forza lavoro occupata in un’industria, mettendola al servizio dell’accumulazione e liberando la produzione dalle restrizioni che possono risultare dalla crescita naturale della popolazione. La sovrappopolazione relativa si riduce o si estende in modo conforme al ciclo industriale che passa tra periodi di espansione e di stasi. Le sue modalità e i suoi ritmi si adattano alle circostanze storiche dello sviluppo del capitale. Queste circostanze storiche e, in particolare, l’enormità della sovrappopolazione nella regione hanno stimolato la ricerca di spiegazione che vanno oltre alla teorizzazione generale de Il Capitale di K. Marx. A questo proposito mettono in evidenza gli sforzi condotti da Aníbal Quijano e José Nun durante la fine degli anni ’60.31 Entrambi gli autori hanno presentato argomentazioni molto simili. La comparsa del capitale di monopolio modifica le condizioni in cui il capitale produce una sovrappopolazione relativa. I settori più avanzati, per la propria espansione, non richiedono la forza lavoro di riserva. Questo riduce la capacità di accumulazione per l’assorbimento della sovrappopolazione, per cui una parte di questa si mantiene permanentemente in eccedenza e non agisce più come esercito di riserva. Questo aspetto è stato denominato “polo marginale” da Aníbal Quijano e “massa marginale” da José Nun. Gran parte degli sforzi teorici di Nun erano orientati a dimostrare che la massa marginale, creata dal capitalismo, non ha effetti funzionali sul capitale, differentemente dall’“esercito di riserva”. Da parte sua, Aníbal Quijano cerca di dimostrare che il polo marginale costituisce il nucleo più danneggiato dalla dominazione capitalista. Entrambi combattono duramente le accuse di dualismo che la nozione di “marginalità” sembrava legittimare. Però la discussione delle tesi dei due autori ha messo poca attenzione in una questione molto importante: il problema delle cause che producono un’enorme sovrappopolamento nella regione, ovvero ciò che dovrebbe aver messo in evidenza la riflessione sulla specifica organizzazione socioeconomica del capitalismo sottosviluppato. In realtà, per entrambi gli autori, il sovrappopolamento in eccedenza è un fenomeno generalizzato all’interno del capitalismo che si aggrava nella regione a causa delle relazioni di dipendenza nelle quali si sviluppa. I primi sforzi analitici di Nun per spiegare le cause del sovrappopolamento continuano a mantenere la rilevanza ai fini del tema di cui ci occupiamo, ma, negli ultimi anni, una svolta cruciale dell’autore, ha debilitato la forza iniziale e ha messo in discussione la validità delle sue proposte teoriche, oltre che, alcune di queste proposte, ottennero un posto inamovibile all’interno del dibattito. L’autore ha abbandonato la sua originale adesione a forze che presentano il sovrappopolamento in eccesso come un fenomeno necessario al capitalismo. In effetti, basandosi su un lavoro di G. Therborn, sostiene: “La sua prima scoperta era prevedibile: la crisi economica degli anni ’70 ha avuto un impatto molto diverso... Dal punto di vista dell’occupazione, in alcuni luoghi la crisi ha provocato un tasso di disoccupazione molto alto. Però esistono anche cinque nazioni in cui tutto questo non è avvenuto, confermando che la disoccupazione non è in alcun modo una fatalità. Queste nazioni erano: Svezia, Norvegia, Austria, Svizzera e Giappone”. Quest’ultimo esempio è stato possibile grazie a un impegno dei governi per la piena occupazione, ciò che ci permette di concludere: “La lezione che si apprende da queste esperienze è molto chiara. Quando si parla di marginalità, di esclusione sociale, di disoccupazione o di sottoccupazione non si sta alludendo ai fatti della natura ma a determinate relazioni emergenti di potere. Dal loro carattere e dalla loro logica dipende l’esito della lotta contro l’emarginazione e contro la povertà, lotte serie, fermante ubicate (o meno) al primo posto dell’agenda per far sì che si è disposti (o meno) a pagare i costi necessari affinché queste lotte siano efficaci”.32 Ovvero, il problema della sovrappopolazione può essere risolto attraverso l’azione statale e, come si può dedurre dagli esempi citati, all’interno del capitalismo, per non dire di più, in qualsiasi capitalismo. Questa approssimazione è difficilmente sostenibile per quanto riguarda il periodo di crescita “verso l’interno” del Latino America, in cui il consumo interno giocava un ruolo principale e ci sono stati anche paesi che effettivamente hanno ricercato “l’integrazione” e la piena occupazione. Allo stesso modo, non sembra appropriato spiegarsi l’evoluzione degli ultimi lustri, nei paesi menzionati da NUN, con un semplice abbandono da parte dei governi dell’impegno alla “piena occupazione”.33 Per il resto, in Europa la disoccupazione è straripata. Questa evoluzione rende manifesti i rischi del ricorso a casi eccezionali per fornire spiegazioni a situazioni generali, difficilmente attribuibili alla mera volontà politica dei governi. A. Quijano, da parte sua, sembrava vacillasse tra due possibili strade causali della marginalità. Da un lato, ricorre a un famoso passaggio de Il Capitale in cui Marx sostiene che l’esercito di riserva tende a crescere più rapidamente dell’esercito lavorativo attivo, fatto che dovrebbe tradursi in creazione crescente di una sovrappopolazione consolidata.34 L’autore chiarifica, correttamente a nostro avviso, che: “In questo famoso passaggio, Marx denomina ‘consolidata’ la parte della sovrappopolazione relativa destinata nel corso dello sviluppo dalle tendenze stabilite a essere vittima di una continuata situazione in eccedenza rispetto alle necessità di accumulazione capitalista”.35 E, in effetti, si tratterebbe di un settore della sovrappopolazione che non agisce più come esercito industriale di riserva, ossia, come forza lavoro che può essere integrata alla produzione per soddisfare le necessità dell’accumulazione. L’accumulazione non ha bisogno di una sovrappopolazione consolidata per procedere. Per A. Quijano, “Nel dibattito latinoamericano è questa parte della sovrappopolazione relativa che è stata denominata ‘marginale’”.36 Marx non avrebbe elaborato su questo settore visto che il capitalismo pre-monopolista non aveva condizioni di emergenza. Senza dubbio, l’autore non si occupa dell’invitabile questione di come Marx sia arrivato a far derivare la tendenza alla creazione di una sovrappopolazione consolidata a partire dall’analisi del “capitalismo del suo tempo” (la libera concorrenza). D’altra parte, A. Quijano cerca di svelare le forme storiche del processo che è terminato con la nascita di un polo marginale. Sostiene che il processo di disintegrazione delle relazioni precapitalistiche continui, aspetto che sta dando nuovi contingenti al mercato lavorativo. Allo stesso tempo, la monopolizzazione e l’internazionalizzazione del capitale, sulla base di alti livelli tecnologici, stanno maturando nelle imprese in cui la domanda di forza lavoro è praticamente nulla. La creazione della sovrappopolazione relativa superò, in questo modo, la capacità dell’accumulazione ad assorbirla, facendo sì che la prima aumentasse oltre le necessità della produzione. Nei paesi dell’America Latina la situazione si aggrava perché l’espansione del capitalismo, condotta dal capitale imperialista, non si basava sull’esistenza di circuiti locali già sviluppati. Inoltre i nuclei di monopolio non solo operano con alte composizioni tecniche di capitale ma possono contare sulle sedi di produzione e realizzazione esterne ai paesi, ovvero ciò che ostruisce la crescita interna. Per questo, “Il processo che colpisce l’insieme del sistema capitalista, in tutti i suoi livelli, si manifesta, in questi paesi, in modo rilevante, fino al punto di dar vita a un campo speciale della ricerca sociale in America Latina”,37 ossia il campo della marginalità. Si può notare che le analisi logiche e storiche si spiegano, per così dire, attraverso strade indipendenti. La categoria della sovrappopolazione consolidata è stata elaborata da Marx per indicare un risultato logico dello sviluppo del capitalismo a livello della relazione essenziale di produzione. Il Capitale rappresenta la storicità pensata come un modo di produzione particolare. L’oggetto di studio non è una fase particolare di questo modo di produzione, ma l’analisi del capitale in generale,38 inclusa l’analisi delle forze che lo generano, lo sviluppano e producono la sua decomposizione. Del resto, Marx ha presentato la sua teoria della sovrappopolazione dopo aver introdotto le sue tesi sulla concentrazione e sulla centralizzazione del capitale. La sovrappopolazione consolidata è uno degli elementi che ci informano del processo di disarticolazione delle relazioni sociali di produzione e della sua contraddizione con lo sviluppo delle forze produttive. Non possiamo cercare di riprodurre questa teoria però è importante, per i nostri scopi, addentrarci nei suoi momenti essenziali. La forza motrice dell’accumulazione è la smania di guadagno che si soddisfa, in primo luogo, attraverso la produzione e la realizzazione del plusvalore. Il profitto è parte del nuovo valore creato attraverso la mobilitazione, costante e variabile, dei capitali anticipati. Un’altra parte di questo nuovo valore creato corrisponde alla produzione e riproduzione della forza lavoro. Uno dei metodi con cui si fa aumentare il profitto è, quindi, la riduzione della parte del nuovo valore che corrisponde alla forza lavoro. Questo può avvenire, tra gli altri metodi, attraverso la diminuzione del numero degli operai impiegati per mezzo dell’uso di macchinari. Affinché l’introduzione dei macchinari faccia realmente aumentare i guadagni, è necessario che il suo valore sia minore rispetto al valore della forza lavoro che disloca. Va qui sottolineato che il capitale variabile risparmiato non si può comparare con il valore della forza lavoro investita nella produzione delle macchine, ma può essere comparato con il valore totale della stessa produzione di macchinari, per cui si può stimare la potenza della trasformazione tecnica come creatrice di disoccupati. I capitalisti che per prima cosa introducono le innovazioni riescono ad ottenere dei guadagni straordinari, nella misura in cui hanno fatto precipitare il valore individuale delle proprie mercanzie, ma li realizzano a prezzi, lievemente a ribasso, rispetto a quelli che vigono socialmente e oltre il nuovo valore. Il resto dei capitalisti cercheranno di seguire il loro esempio, cosicché le trasformazioni tecniche della produzione si generalizzeranno. Come risultato, il capitale globale aumenta la sua composizione tecnica e organica, ciò che a volte si traduce nella caduta del tasso medio di profitto. Lo sviluppo delle forze produttive e il loro inserimento nella produzione sono accompagnati dalla tendenza del guadagno a cadere a lungo termine. La massa di profitto può sostenersi o addirittura crescere nello stesso momento in cui il suo tasso cade. Però se il tasso di profitto ci informa sulle risorse disponibile per l’investimento, la sua caduta, nella misura in cui il capitale cresce, deve per forza impattare negativamente sulla massa di profitto.39 Per contenere la caduta del tasso e incrementare la massa di guadagno, i capitalisti, lasciando da parte le altre forze che agiscono contro, ricorrono all’aumento del plusvalore. In parte la stessa macchina contribuisce a questo, nella misura in cui incrementa l’intensità del lavoro. Questo metodo sarà molto più efficace se si riescono a contenere le esigenze lavorative circa la rettifica del valore della forza lavoro, o semplicemente annullare l’esito di queste domande attraverso altri meccanismi, come ad esempio, l’inflazione. In questo modo, la stessa massa lavorativa, o anche solo una massa lavorativa ridotta produce per i capitalisti più valore. La centralizzazione dei capitali produce, inoltre, un impatto simile. Ad esempio, se due capitalisti, la cui composizione è 20c+20v+20p si fondono e portano a termine la riorganizzazione corrispondente del lavoro, riducendo il carico salariale, la nuova composizione potrebbe rimanere così: 40c+30v+40p, questo aumenta il tasso di plusvalore così come il tasso di guadagno, mentre mantiene la massa di guadagno. Mentre si aumenta lo sfruttamento di chi continua a lavorare, il licenziamento dei lavoratori ha dei limiti. Marx lo spiega nel seguente modo. Lo sviluppo della forza produttiva si manifesta, in termini di forza lavoro, da un lato, come aumento del pluslavoro e, dall’altro, come diminuzione della quantità di forza lavoro che si richiede per mettere in movimento un capitale dato. Entrambi influiscono, in maniera inversa, sul guadagno; il primo positivamente e il secondo, negativamente. Però il plusvalore, in quanto somma globale, è determinato, in primo luogo, dal suo tasso, ma in seconda istanza dalla massa di lavoro simultaneamente impiegato con questo tasso o, che è lo stesso, della grandezza del capitale variabile. Da una parte aumenta uno dei fattori, il tasso di plusvalore e, dall’altra, diminuisce (relativamente o assolutamente) l’altro fattore, il numero degli lavoratori. Mentre lo sviluppo della forza di produzione fa diminuire la parte pagata del lavoro impiegato, aumenta il plusvalore perché aumenta il suo tasso; tuttavia, nella misura in cui fa diminuire la massa globale di lavoro impiegato da un dato capitale, fa diminuire il fattore del numero per il quale si moltiplica il tasso di plusvalore per ottenere la sua massa. Due operai che lavorano 12 ore al giorno non possono produrre la stessa massa di plusvalore di 24 operai che lavorano solo 2 ore ciascuno, perfino se potessero vivere di aria, per cui non dovrebbero lavorare in assoluto per se stessi.40 Quello che è in gioco, nella logica della produzione capitalista è la stessa produzione di plusvalore come risultato della tendenza del capitale a disfarsi della forza creatrice dello stesso. In un dato punto, la caduta nel numero di operai non può essere più compensata con un aumento nel grado di sfruttamento. L’introduzione di innovazioni, che tenderanno a generalizzarsi, non fa altro che peggiorare le cose. I rapporti di produzione cessano di agire come forme di sviluppo delle forze produttive e piuttosto si trasformano nel loro lavoro. Le une e le altre entrano in conflitto irrisolvibile. Se rivolgiamo la nostra attenzione nella direzione in cui dobbiamo farlo, cioè, verso i paesi sviluppati per verificare se quegli sviluppi logici trovano supporto nell’evoluzione storica, si dovrà dire, da un lato, che non siamo arrivati al punto in cui la contraddizione tra rapporti e forze è irrisolvibile; dall’altro, tuttavia si può constatare che la produzione di una popolazione in eccesso avanza lenta ma incontenibile. Questa evoluzione è così ovvia che ha portato alcuni autori a dichiarare la “fine del lavoro”. Si possono discutere i dati di J. Rifkin come l’uso che se ne fa, tuttavia a volte capta perfettamente bene le tendenze in opera. Per esempio: “La riduzione degli impieghi nel settore secondario è parte di una tendenza a largo raggio per la quale si può vedere la sostituzione crescente di esseri umani con macchine nei posti di lavoro. Rispetto alla decade degli anni ’60, il numero di impieghi produttivi è sceso al 30%, mentre negli anni ’80, a 20%”.41 Certamente, l’aspettativa di K. Marx non era quella per cui “l’automatizzazione conducesse, vertiginosamente, l’economia globale verso un futuro industriale senza lavoratori”, come nel caso di J. Rifkin, ma al contrario si aspettava che lo sviluppo creasse le condizioni necessarie per la riduzione della giornata lavorativa e la creazione del tempo libero per ciascun lavoratore, e in realtà è tutt’altro lo sviluppo che si percepisce. Non sono i macchinari a creare disoccupazione ma l’uso che ne fa il capitalismo e anche all’interno di questo uso esiste lo spazio per la diminuzione dell’orario giornaliero di lavoro, a costo dell’impoverimento del lavoratore e/o anche del guadagno. La nozione di sovrappopolazione consolidata può essere riferita solo alla presenza permanente di una parte della popolazione che non è necessaria per il processo di valorizzazione, indipendentemente dal ciclo di produzione. Si tratta di una popolazione assolutamente ridondante rispetto alle necessità della produzione. La stessa logica descritta da Marx suggerisce che la crescita (permanente) della sovrappopolazione deve superare, ad un certo punto, le necessità dell’accumulazione. Marx, comunque, la tratta come parte della sovrappopolazione “relativa” e per questo il punto richiede una breve discussione. Secondo quanto diceva Marx, l’accumulazione produce, in “proporzione alla sua energia e al suo volume”, una “... popolazione operaia relativamente in avanzo, questo è, in modo eccessivo per le necessità medie di valorizzazione del capitale ed è quindi superflua”.42 Questa sovrappolazione costituisce “un esercito industriale di riserva a disposizione del capitale” e crea (contiene) “... per le tante necessità di valorizzazione del capitale, il materiale umano sfruttabile e sempre disponibile, indipendentemente dai limiti dell’aumento reale sperimentato dalla popolazione”.43 Il suo carattere relativo proviene dal fatto che anche quando questa popolazione non appare direttamente coinvolta nel processo di accumulazione, è sempre disponibile a servire il capitale, ogni qual volta si crea una nuova industria o quando viene richiesta per l’espansione di industrie che invece sono già in funzione. Quindi, l’espressione “eccessiva per le necessità medie di valorizzazione del capitale e quindi superflua” devono essere intese in riferimento a una sovrappopolazione che è in relazione con il capitale in funzione. In Marx, la sovrappopolazione relativa, costituisce il materiale umano imprescindibile per il capitale in fiore, questo è, per il capitale che si dovrà muovere dopo l’espansione dei rami dell’industrie esistenti, nella misura in cui questa espansione lo richieda, o creandone altre. Così come acquisisce senso la sua affermazione per cui anche una “... condizione di esistenza del mondo capitalista di produzione”. Riassumendo, diremo che per l’autore una sovrappopolazione relativa è una popolazione lavorativa eccessiva per le necessità del capitale in funzione, ma necessaria per l’espansione della produzione. La sua grandezza cresce nei periodi di ristagno e si riduce nei periodi di espansione. Così, il concetto di sovrappopolazione relativa equivalente all’esercito industriale di riserva, appare, nel principio, perfettamente coerente e non offre nessuna difficoltà. Comunque, al momento di definire le sue forme ci sono verificati alcuni intralci. Consentitemi di dire solo di passaggio che quello che fa l’autore, in questo caso, è descrivere situazioni del suo tempo. Marx riconosce e segnala alcune forme: la Fluttuante include i lavoratori espulsi e tornati nella produzione industriale. La Latente si riferisce ai lavoratori licenziati dalla produzione a causa dell’introduzione del capitale nell’agricoltura, senza che il licenziamento sia ricompensato con la loro inclusione nel campo, e di conseguenza il loro destino più probabile è quello di emigrare nelle città. La sovrappopolazione stagnante, la terza forma, ha delle difficoltà. Secondo Marx, “... costituisce una parte dell’esercito lavoratore attivo, ma la sua occupazione è assolutamente irregolare”. Però si tratta di un settore attivo, coinvolto direttamente nella valorizzazione del capitale, quindi, per quale ragione deve far parte della sovrappopolazione relativa? Marx sostiene che la figura principale della popolazione stagnante è l’industria a domicilio e sottolinea: “Recluta, in modo incessante, i suoi membri tra i tantissimi dell’industria e dell’agricoltura e specialmente nei settori industriali in decadenza”.44 Se la sua fonte sono gli innumerevoli creati dall’accumulazione, sembrerebbe trattarsi di movimenti all’interno della sovrappopolazione relativa che si traducono in cambiamenti di forma. Però non è questo il caso, perché per Marx, l’industria a domicilio è una “... sfera capitalista di sfruttamento eretta nel cortile della grande industria...”45 Costituisce, quindi, un’estensione, o “il dipartimento esterno alla fabbrica, alla manifattura o alla grande industria”,46 direttamente oggetto dello sfruttamento capitalista. Per questo, dovrebbero essere considerati come membri, non della sovrappopolazione relativa, ma dell’esercito lavoratore attivo. Naturalmente, qui ci limitiamo al caso in cui l’industria adegui i mezzi e i materiali di produzione, mentre i lavoratori apportano solo la loro capacità di lavoro. Ne Il Capitale viene inserito un quarto gruppo: “Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa si trova, infine, nella sfera della povertà”.47 Vengono inclusi tre settori: a) indigenti adatti al lavoro; b) figli di indigenti, orfani. Fino a qui sembrerebbe che si tratta di figure la cui inclusione nella sovrappopolazione relativa non comporta problemi, nella misura in cui possono essere coinvolti nei processi di produzione. Però in realtà, si tratta di un altro aspetto del problema. L’impoverimento, si deve notare, non è una categoria che si può inserire nello stesso livello di analisi delle tre precedenti, ovvero quelle che Marx ha annunciato quando si propose di definire le forme della sovrappopolazione relativa. L’impoverimento può esserci tra la popolazione fluttuante, quella latente e quella stagnante. Ossia, nella disoccupazione e nel lavoro precario. Quest’ultimo concetto può adottare, come in realtà adotta, forme non capitaliste di organizzazione. Un po’ diverso è il caso del terzo gruppo all’interno dell’impoverimento: c) “persone disagiate, inadatti al lavoro”, per cui non si tratta di una semplice situazione di indigenza. Per l’autore, anche questi sono prodotti dell’accumulazione. La difficoltà sta nel fatto che si tratta di persone che non soddisfano le necessità della valorizzazione, presenti e latenti, e non si capisce come possano essere considerati “una condizione della produzione capitalista”. Lo stesso Marx li definisce come un peso per il capitale, mentre entrano nelle “varie spese della produzione capitalista”,48 dando origine a una deviazione delle risorse che altrimenti sarebbero potute servire alla valorizzazione. In realtà si tratta di elementi di una sovrappopolazione assoluta. Naturalmente, nessun essere umano è in assoluto in eccesso, infatti questo concetto si riferisce alla posizione di un settore di proletari rispetto alle necessità della valorizzazione del capitale, ovvero, ciò che significa per il capitale, mettendo in rilievo la scarsa attenzione che proprio il capitale presta alle necessità umane. Se questi elementi erano già visibili nella mappa sociale del capitalismo dei tempi di Marx, lo sviluppo dell’accumulazione lo dovrebbe far crescere progressivamente. In effetti, visto che la tendenza generale del capitale culmina con la creazione di una sovrappopolazione consolidata che deve nascere in una fase avanzata della produzione, come risultato dell’estensione della sovrappopolazione relativa oltre il punto in cui, davvero, costituisce una necessità per la valorizzazione. Marx ha spiegato anche questa evoluzione: “L’incremento dei mezzi di produzione e della produttività del lavoro più veloce di quello della popolazione produttiva si esprime, capitalisticamente parlando, nel suo contrario, per cui la popolazione lavoratrice cresce sempre più rapidamente rispetto alle necessità di valorizzazione del capitale.49 Si tratta di un caso tipico in cui i cambiamenti quantitativi producono modifiche qualitative, in questo caso, dall’eccedenza relativa a quella assoluta. Le forme di esistenza di una sovrappopolazione assoluta dovranno moltiplicarsi e crescere oltre l’ambito di quelli a cui mancano i mezzi per sopravvivere, dei delinquenti e dei vagabondi, con il fine di includere modalità di lavoro parallele, diversi modi di crearsi un reddito, dettati dalla necessità e dall’immaginazione sociale. La sua esistenza o meno, attualmente, così come risulta dalla logica descritta, può e deve essere oggetto di discussione e proprio su questo torneremo fra poco. Non c’è dubbio che non è stato un tratto permanente dell’imperialismo nei paesi sviluppati. Nei paesi sottosviluppati, al contrario, la sua presenza è visibile, ma il suo chiarimento dovrà superare anche altri ostacoli teorici. Inoltre, non potremo andare avanti senza risolvere il fastidio che ancora provoca il concetto di sovrappopolazione relativa. Se quest’ultimo si riferisce a un esercito di riserva che è imprescindibile affinché l’accumulazione possa avanzare, una condizione del modo di produzione, perché chiamarla “sovrappopolazione”? La nostra soluzione, per la quale ci riferiamo al capitale in funzione, non soddisfa completamente, perché l’esercito di riserva non costituisce una popolazione in eccesso, tantomeno rispetto all’espansione capitalista. Tendiamo a pensare che le opzioni di Marx hanno a che vedere con il suo metodo. Lui studiava il capitalismo come un sistema chiuso in cui tutto sembra organizzato attorno alla relazione capitale-lavoro salariato e in cui questa relazione è la determinazione ultima; è un sistema che presenta la produzione di plusvalore come la forza che spinge il capitalismo al suo sviluppo e che provoca anche la sua decomposizione. Si tratta di una relazione attiva, in movimento, che non si trova in contraddizioni che non siano le sue. Questo metodo, che gli ha permesso di costruire la più straordinaria rappresentazione del capitalismo come modalità di produzione, gli chiede di sottomettersi a proposizioni che sono insostenibili quando si tratta di analizzare le società nei suoi processi storici concreti, come quella di trattare il produttore che opera con i propri mezzi di produzione, contemporaneamente, come lavoratore e capitalista. Se si appropria della sua eccedenza è perché è il proprietario dei mezzi di produzione, in questo senso, può essere considerato capitalista, allo stesso modo in cui può essere visto come un lavoratore salariato mentre si appropria del suo lavoro necessario. Il presupposto fondamentale è che la separazione e non l’unità dei produttori diretti e dei mezzi di produzione è la relazione normale vigente nel capitalismo. Inoltre pensava che la tendenza dell’artigiano e del contadino era quella di diventare un capitalista o un lavoratore salariato. Così, “... considerando le relazioni essenziali della produzione capitalista si può, di conseguenza, presumere che l’intero mondo delle merci, che tutte le sfere della produzione materiale - la produzione di ricchezza materiale - sono (formalmente o realmente) subordinate al modo capitalista di produzione”.50 In questo contesto, risulta logico chiamare “sovrappopolazione” solo il settore della società che non possiede i mezzi di produzione e che si ritrova disoccupato. Altrove, Marx spiega i suoi postulati nel seguente modo: il proprietario della forza lavoro, “In quanto lavoratore, può vivere solo nella misura in cui scambi la sua capacità di lavoro dalla parte del capitale che costituisce il fondamento del lavoro (...). Dato che, inoltre, la condizione della produzione fondata nel capitale è che lui produca ogni volta più pluslavoro, liberando sempre più lavoro necessario (...). All’interno di differenti modi di produzione sociale, differenti leggi dominano l’aumento della popolazione e della sovrappopolazione; l’ultima è identica alla povertà. Queste diverse leggi si possono ridurre semplicemente alle differenti maniere in cui l’individuo si relaziona con le condizioni di produzione (...). la dissoluzione di queste relazioni, nei confronti di qualsiasi individuo o una parte della popolazione, li mette al margine delle condizioni che riproducono questa base determinata, quindi in qualità di sovrappopolazione e non solo come individui privati delle risorse, ma come incapaci ad appropriarsi dei mezzi di sussistenza attraverso il lavoro; di conseguenza come poveri”.51 Si può notare anche che altre forme dell’organizzazione lavorativa non sono interessanti per l’analisi specifica che porta a compimento l’autore. Chi non partecipa attivamente al movimento del capitale si trova al margine della relazione fondamentale, vivendo di elemosine e diventando di fatto elementi della sovrappopolazione. Il fatto è che una volta che Marx ha introdotto la teoria dell’esercito industriale di riserva, nei termini de Il Capitale, non si può più parlare di un settore che sta “al margine delle condizioni che riproducono questa base determinata”, in questo caso, quella del capitalismo; al contrario, sono una condizione necessaria. Nel processo reale della società del capitale, la popolazione lavoratrice non solo si barcamena come lavoratori stipendiati dal capitale, ma a volte lo fa sotto forme non capitaliste del lavoro, e queste, a loro volta, possono spiegarsi o no in relazione ai processi di valorizzazione. Al fine di eludere le difficoltà segnalate, chiameremo popolazione necessaria quel settore costituito sia dai lavoratori che si occupano direttamente della valorizzazione del capitale, sia dall’esercito di riserva. Limiteremo il concetto di quest’ultimo alle sue forme fluttuanti e latenti. Chiameremo popolazione eccedente tutto il resto, ossia questa, a rigor di termine, è la sovrappopolazione, e distingueremo, da un lato, un eccedente relativo, per riferirci ai lavoratori che al di fuori della relazione capitale-lavoro stipendiato realizzano attività che contengono dei vincoli con l’accumulazione e, dall’altro, un eccedente assoluto, in cui vengono inclusi i lavoratori la cui attività non ha vincoli con la valorizzazione. Ora possiamo tornare alla teoria marxista della marginalità. Un fatto notevole della evoluzione storica, che ci sembra dovutamente registrato in queste analisi, è che, nei paesi sviluppati, l’accumulazione è andata avanti costantemente rilassandosi sulla immigrazione, ovvero, ha richiesto non solo la sua forza lavoratrice ma anche contingenti provenienti da altri paesi. Ai movimenti migratori che hanno luogo costantemente all’interno di differenti categorie dei paesi (sviluppati e sottosviluppati) e che corrispondono alle mutevoli necessità della crescita nei distinti paesi, si aggiunge l’immigrazione dal “Sud” verso il “Nord” e che, nel caso dell’America Latina, sin dagli anni ’50 del secolo passato è diventato un movimento consolidato, ossia, una migrazione praticamente unilaterale. L’Organizzazione Internazionale per il Lavoro (ILO) calcola che verso il 1998 i lavoratori migranti dai “paesi sviluppati” sono arrivati al 4,2% del totale della forza lavoro nei paesi dell’OCDE, arrivando a costituire, negli anni ’90, il 57,8% dei lavoratori migranti all’interno dei paesi che fanno parte di questa organizzazione. Inoltre, si può constatare che gli spostamenti dei lavoratori verso paesi industrializzati, negli ultimi anni, sono aumentati, essendo gli Stati Uniti il principale recettore (81% dei nuovi immigrati), seguiti dal Canada e dall’Australia (11%), mentre Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna si distribuiscono tutto il resto. Questa questione non è irrilevante a livello teorico. Non solo chiama in causa la presenza di un polo marginale, ma soprattutto, ci informa dell’esistenza di difficoltà nell’operazione della legge dell’esercito industriale di riserva nei paesi sviluppati. Si tratta, quindi, di una sfida per la teoria dell’accumulazione che va affrontata partendo dai propri propositi.

Prof. Scienze Politiche Universidad Autónoma de Zacatecas, Messico “Il termine (settore informale) è stato coniato da J. Keith Hart nel 1970, per descrivere la moltitudine di strategie economiche, molto spesso temporali, adottata dai lavoratori che migrarono in Ghana di fronte a un mercato del lavoro marginale che, nel suo complesso, rispondeva a reali necessità sociali.” John C. Cross, “The informal sector”, Informal Cyberspace, http://www.openair.org/cross/infdef2.htm. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT) ha definito il concetto nel suo documento, del 1972, sul Kenia.

Così ad esempio, la OIT, nella sua Conferenza del 1993 (la XV) non ha potuto definire lo status dell’impiego domestico e ha lasciato direttamente ai paesi la decisione di inserirlo o meno come lavoro informale.

Si può riscontrare un’ampia esposizione delle teorie di W. A. Lewis in Mark Gersovitz, Carlos F. Díaz-Alejandro, Gustav Ranis e Mark R. Rosenzweig (Comps.), Teoría y Experiencia del Desarrollo Económico. Ensayos en Honor de Sir W. Arthur Lewis, Fondo de Cultura Económica 1985, México

H.C.F. Mansilla, “Las teorías y sus implicaciones socio-políticas: el caso de la economía informal boliviana”, http://www.tau.ac.il/eial/VII_1/mansilla.htm.

Ibid.

Hernando de Soto, El otro sendero, Editorial Diana, México, 1987, pp. 313-314.

Ibid. P. 312.

Ibid. P. 304.

John C. Cross, “The State and Informal Economic Actors”, http://www.openair.org/cross/subecon4.htlm.

In effetti, aggiunge: “Lavori o impieghi non assicurati (...), pagati in contanti evadendo le tasse e/o i contributi di sicurezza sociale; contrabbando di merci; atti illegali; lavoro degli immigrati clandestini; traffico di droga, tabacco e alcol; operazioni di baratto di beni e servizi; prostituzione illegale (...); Prestiti al di fuori del mercato finanziario (di solito a tasso usurari e non registrato); Transazioni di beni e servizi non segnalati alle autorità fiscali (automobili usate, terreni, case, lavori domestici); Sotto fatturazione o sovrafatturazione delle esportazioni e delle importazioni; Corruzione; ecc. CEESP, La economía subterránea en México, Diana, 1987, México, pp. 14-15.

Ibid. P. 16.

Carlos Abascal Carranza, poi Presidente della Confederación Patronal Mexicana, El Sol de Zacatecas, 3 de Julio de 1996.

Dati e proiezioni en PREALC, Dinámica del subempleo en América Latina, Naciones Unidas, Santiago de Chile, 1981.

PREALC, op. cit.

Norberto E. García, “Reestructuración económica y mercado de trabajo en América Latina” in Instituto Internacional de Estudios Laborales, Reestructuración y regulación institucional del mercado de trabajo en América Latina, OIT, Ginebra, 1993.

CEPAL, Estudio económico de América Latina 1949, Naciones Unidas, Nueva York, 1951, p. 68.

Ibid.

Aníbal Pinto, “Acumulación y financiamiento del desarrollo”, in José Valenzuela Feijöo (Seleccionador) América Latina: Una visión estructuralista, UNAM, México, 1991.

A. Pinto, “Desarrollo y pobreza en América Latina. Un enfoque histórico estructural”, in J. Valenzuela F. op.cit., p. 564.

A. Pinto, “La CEPAL y el problema del progreso técnico”, en J. Valenzuela F. op. cit., p. 331.

Ibid. Pp. 330-331.

Ibid, Pp. 337-338.

CEPAL, Transformación productiva con equidad”, Naciones Unidas, Santiago de Chile, p. 16.

Ibid. P. 70.

CEPAL, Política para mejorar la inserción en la economía mundial. Naciones Unidas, Santiago de Chile, 1995, p. 6.

CEPAL Panorama de la inserción internacional de América Latina y el Caribe 2005-2006, LC/G.2310-P, Sept. 2006, http://www. eclac.org.

CEPAL, Transformación... op. cit. P. 66.

CEPAL, Anuario estadístico de América Latina y el Caribe 2005, http://www.eclac.cl/publicaciones

Ibid. Dati per 1980-1985 in CEPAL, Anuario estadístico de América Latina y el Caribe 1999, Naciones Unidas, Santiago de Chile, 2000.

Carlos Filgueira, Andrés Pérez, América Latina: los rostros de la pobreza y sus causas determinantes, CEPAL, Serie Población y Desarrollo No. 54, junio de 2004. http://www.eclac.cl

Aníbal Quijano ha pubblicato una raccolta dei suo scritti in cui è possibile seguire l’evoluzione del suo pensiero nell’arco di un decennio, Imperialismo y “Marginalidad”en América Latina, Mosca Azul Editores, 1977, Lima. Recentemente, José Nun ha fatto la stessa cosa in Marginalidad y exclusión social, Fondo de Cultura Económica, Buenos Aires, 2001.

J. Nun, op. cit., pp. 31-33.

Nel 2005 il tasso di disoccupazione nei paesi citati da J. Nun è salito in Svezia fino al 5.8%, 4.6% in Norvegia, 5,9% in Austria, 4.3% in Svizzera e 4.4% in Giappone.

K. Marx, op. cit. T. I, Vol. 3, p. 803.

A. Quijano, op. cit., p. 21.

Ibid.

Ibid. P. 15.

Come è noto, questo concetto dell’opera principale di Marx è stata discusso in dettaglio da Roman Rosdolsky in The Making of Marx’s “Capital”, Pluto Press, 1980. La nostra opinione è che il concetto di “capitale in generale” dovrebbe essere esteso al tomo III della suddeta opera.

In un altro lavoro spiegavamo questa proposizione nel seguente modo: “Se il tasso è più alto, più drastica dovrà essere la sua caduta per danneggiare la massa. Per esempio, un tasso del 20% dovrà scendere al 16%, ossia, di quattro punti. Mentre più basso è il tasso di guadagno minore è la caduta assoluta richiesta. Supponiamo che un tasso del 5% scenda, non di quattro punti ma di uno, diventerà del 4%. Per un capitale di 10.000 la massa scenderà da 500 a 420. Per mantenere la stessa massa che precipitava al 5%, il capitale dovrà essere incrementato del 25%, a 12.500, o 2.500 addizionali. Però, come potrebbe essere possibile con una massa di capitale per i reinvesti menti che sale solo fino a 420, supponendo anche che il capitalista in questione non consumi? Víctor M. Figueroa, La identidad perdida del socialismo, UAZ-UAM, México, 1989, p. 38).

K. Marx, El Capital, op. cit. T 3, Vol. 6, pp. 317-318.

Jeremy Rifkin, El fin del trabajo, Paidós Mexicana S.A. México 1996, p. 28.

K. Marx, ibid. T. 1, Vol. 3, p. 784.

Ibid. P. 786.

Ibid. P. 801.

Ibid. T. I, Vol. 2, p. 567.

Ibid. P. 562.

Ibid. T. I, Vol. 3, p. 802.

Ibid. P. 803.

Ibid. P. 804.

K. Marx, Theories of Surplus Value, Part I, Lawrence & Wishart, 1969, London, p. 409.

K. Marx, Elementos fundamentales para la crítica de la economía política. (Grundrisse) 1857-1958, Vol 2, Siglo XXI 1972, México, pp. 110-111.