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LO SVILUPPO ALTERNATIVO ECO-SOCIO-COMPATIBILE

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Paradigmi del conflitto: capitale-natura dentro capitale-lavoro
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Paradigmi del conflitto: capitale-natura dentro capitale-lavoro

ENZO DI BRANGO

L’ultimo libro curato da Luciano Vasapollo, Capitale, Natura e Lavoro -L’esperienza di Nuestra América, non è solo una denuncia dello scempio ambientale messo in atto dalle dinamiche sviluppiste delle politiche neoliberiste, ma soprattutto un appello alla sinistra mondiale per la costruzione del Socialismo del XXI secolo

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1. Dalla parte della natura Inserire il sostantivo “Natura” tra “Capitale” e “Lavoro”, o meglio, nel conflitto capitale-lavoro, rappresenta un elemento aggiuntivo per comprendere a fondo le dinamiche sviluppiste di questo ultimo quarto di secolo. Una chiave di lettura coerente con la traiettoria politica di Luciano Vasapollo, ma anche assolutamente aderente alla realtà che viviamo. Via via che si scorrono le pagine di questo libro, ci si delinea uno scenario più che nitido del possibile atroce approdo dell’umanità: la distruzione di ogni forma di vita sul pianeta. Come una scala reale a poker, se dal conflitto riuscisse vincitore il capitale, non solo non ci sarebbe più spazio per il lavoro, con il lavoro stesso verrebbe meno anche la natura, mentre la sconfitta del capitale lascerebbe immutate le capacità di vita del lavoro e della natura; altresì inserita la natura come contendente vincente, sconfitto sarebbe il solo capitale. È anche per questo motivo che, schierarsi con la natura, battersi per una migliore qualità della vita, oggi coincide, essenzialmente, con la lotta contro il capitale.

2. Sviluppo e progresso non sono due facce della stessa medaglia Tra la fine del XX secolo e l’inizio del nuovo millennio la tendenza allo sviluppo fuori dalle regole essenziali poste alla base della qualità della vita, ha fatto definitivamente tramontare l’ipotesi di un avanzamento del modello di capitalismo renano, sicuramente più temperato anche se sempre di capitalismo si tratta, a vantaggio di un capitalismo selvaggio, latore di sciagure sia dal punto di vista sociale che ambientale. Un modello di sviluppo che poggia essenzialmente sull’allargamento del sottosviluppo per larghi strati della società; sviluppo e sottosviluppo rappresentano le due facce del processo di dominio e di espansione del capitalismo selvaggio1. Al proposito, da tempo lo stesso Vasapollo parla di sviluppismo quantitativo, ossia di politiche di sviluppo tendenti a creare una enorme quantità di beni aldilà non solo dei reali bisogni delle popolazioni ma soprattutto della stessa sostenibilità ambientale: un crimine deliberato messo in atto da un’oligarchia di potenti mercanti che nel suo correre sfrenato verso la conquista del massimo profitto non fa altro che rappresentare il proprio interesse. Questo avviene perché “Durante la storia l’idea dello sviluppo è stata concepita nella sua dimensione essenzialmente economica; la teoria dello sviluppo rimase legata alla sua concezione neoclassica della crescita economica, cioè alla sua identificazione con la crescita della ricchezza”2. E così, partendo da tale sconsiderato teorema, l’idea di sviluppo viene a confondersi, a coincidere con quella di progresso che, invece, al proprio interno contiene tutta una serie di valori non sempre assimilabili al concetto di sviluppo. Come correttamente scrive Hosea Jaffe se si confondono sviluppo e progresso il concetto stesso di progresso diviene una parodia di se stesso quando lo si intende solo come un “procedere sempre più veloci, produrre sempre di più in un anno, in un giorno, o perfino in un secondo, conquistare sempre più spazio e, il più pericoloso ed erroneo dei significati, l’idea che la specie umana possa ‘controllare’, finanche ‘dominare’, la propria fonte originaria, la preistoria e l’ambiente, la ‘natura’ stessa”3. Se appare un’idea dominante quella del progresso insito automaticamente nello sviluppo (come pratica dello sviluppismo quantitativo) appare fin troppo ovvio che l’uso spropositato delle risorse naturali necessarie, potrà determinare conseguenze nefaste per l’umanità, minando alle fondamenta la possibilità di sopravvivenza di ognuno di noi.

Già oggi (e lo si riscontra nel lessico quotidiano di politici ed economisti di impostazione neoclassica e/o liberale) l’uomo, come soggetto attivo nella società, è divenuto “capitale umano” e la natura si è trasformata in “capitale naturale”; quasi a voler segnare, da subito, non un ruolo attivo nel modo di produzione capitalistico, ma l’inevitabile destino di entrambi se il neoliberismo dovesse procedere sempre più velocemente verso il saccheggio anche dell’ultimo metro di terra disponibile, verso il risucchio dell’ultima goccia di acqua, verso l’inalazione dell’ultimo alito di ossigeno.

3. L’accaparramento mondiale di beni e servizi La tendenza alla progressiva eliminazione di ogni forma di garanzia sociale e di protezione ambientale è conditio sine qua non per favorire la corsa all’arricchimento delle poche lobbies dei paesi sviluppati, dove si stanno creando condizioni favorevoli per il supersfruttamento dell’uomo e dell’ambiente che lo circonda. Sempre più ampi settori dei servizi vengono privatizzati generando così profitti sullo sfruttamento di una forza-lavoro precarizzata e senza potere contrattuale; la sanità, i trasporti, finanche la stessa acqua potabile va vieppiù concentrandosi nelle avide mani di gente che risponde alle sole leggi del mercato, leggi, tra l’altro, emanate da soggetti ed istituzioni assolutamente complementari ed assoggettate al capitale che non rappresentano mai un ostacolo (o magari solo un condizionamento) ai processi di accumulazione. “Il fenomeno delle privatizzazioni - scrive Vasapollo - che ha caratterizzato questi ultimi vent’anni si è manifestato nei vari paesi europei con diversa modalità e intensità, proprio come necessità dei diversi modelli di capitalismo internazionale di mettere in discussione le conquiste del movimento operaio, iniziando dal considerare come incompatibili le politiche di mediazione economico-sociali di stampo keynesiano. Si comincia così a configurare un ruolo dello Stato non più in funzione di regolatore e mediatore del conflitto, ma uno Stato-Impresa, che abbatte pian piano il Welfare State, che distrugge con le privatizzazioni il ruolo dell’economia pubblica; un Profit State che trasmette in tutto il tessuto sociale l’idea-forza delle compatibilità d’impresa, della competitività del mercato, del profitto”4. E quand’anche si dovessero generare vincoli nazionali la strada della delocalizzazione rimane la via privilegiata, specie per quelle aziende prive di scrupoli che, oltre a poter contare, fuori dagli ambiti nazionali, su manodopera a basso costo e su spazi più ampi (magari anche incontaminati), risolve contestualmente anche il problema dello smaltimento dei rifiuti industriali e l’emissione di gas a effetto serra, riversandoli in aree di paesi in via di sviluppo la cui legislazione è ancora poco attenta alla conservazione e protezione ambientale. Non esiste, per altro, un contraltare positivo in altri settori produttivi. Se i servizi finiscono inevitabilmente, magari con un processo lento ma continuo, nelle mani di singoli o joint venture appositamente costruite per accaparrarsi le “fette ricche” del sistema produttivo, il settore agricolo denota tutta una serie di problemi che vanno sommandosi nel tempo. Conta già svariati anni la pratica ignobile dell’uso sconsiderato di pesticidi e fertilizzanti tossici, che oltre ad alterare la qualità dei prodotti spesso finiscono per inquinare corsi d’acqua e terreni una volta fertili ed intonsi; ad essa, in questi ultimi tempi, si va ad aggiungere una sorta di politica neo-colonizzatrice legata all’acquisizione di coltivazioni utilizzabili per la produzione di agro-combustibili. L’idea massmediatica della globalizzazione, che ha stregato anche alcuni settori della sinistra non solo italiana, rappresenta quotidianamente un mondo che si avvia a generare ricchezza e benessere per tutti, un mondo che in breve tempo si affrancherà dal bisogno. In realtà il sistema capitalistico, per poter sopravvivere e rigenerarsi, i bisogni deve crearli continuamente attraverso l’introduzione sui mercati di merci il cui valore di scambio spesso sfora i parametri di spesa di lavoratori vieppiù precarizzati, di interi settori della società emarginati, finanche di coloro che, fino a pochi anni fa, si ritenevano legittimamente assunti nell’alveo della borghesia contando su un impiego sicuro e su salari assolutamente sufficienti ad assolvere il compito della quotidiana sussistenza.

4. Sotto la minaccia di una catastrofe naturale Solo davanti ai sempre più allarmanti richiami del mondo scientifico e di enti ed associazioni che si occupano della salvaguardia dell’ambiente, il mondo politico sembra orientato, se non a ridiscutere i parametri attuali di sviluppo, almeno a prendere in considerazione quanto sta avvenendo sul pianeta. Ma spesso la preoccupazione per la sostenibilità ambientale dei paesi a capitalismo maturo coincide con una serie di pseudo-rimedi o protocolli (spesso inapplicati) che lasciano intatto il modo di produzione attuale teso al massimo profitto. Ne sono esempi il protocollo di Kyoto del 1997 e l’ultimo vertice Ocse a Parigi del giugno 2008. Nonostante le belle parole, gli impegni e le promesse, nei 15 anni che vanno dal 1990 al 2005 la Spagna ha avuto una variazione del 53,3% in più nell’emissione dei gas serra, seguita dall’Australia e dal Canada con poco più del 25%, da Stati Uniti e Gran Bretagna con il 16,3% e dall’Italia con il 12,1%. Nel rapporto dell’UNDP5 del 2007 si legge testualmente: “Se gli abitanti del mondo in via di sviluppo avessero prodotto emissione di anidride carbonica pro capite pari a quello degli abitanti del Nordamerica, avremmo avuto bisogno dell’atmosfera di nove pianeti per affrontarne le conseguenze”. L’aria, l’acqua, la terra ed il mare sono indicatori (purtroppo insostituibili) del livello di inquinamento generato dal modo di produzione capitalistico ai tempi della globalizzazione neoliberista. Se continueremo ai ritmi attuali tra poco meno di 25 anni la metà della popolazione mondiale patirà la mancanza di acqua, mentre il livello del mare è già aumentato tra i 10 ed i 20 cm. negli ultimi 100 anni. Anche il riscaldamento globale non fa sconti ed è la principale causa della recrudescenza di uragani e mortali ondate di calore (nel 2003 si registrarono 4.900 morti in Italia e 35.000 in tutta l’Europa proprio per il caldo). Nel frattempo la spesa pubblica tocca il suo picco alla voce “guerre umanitarie” che in realtà rappresentano la nuova faccia del colonialismo: petrolio, diamanti, uranio e materie prime per agro-combustibili da accaparrarsi ad ogni costo.

5. L’esperienza di Nuestra América Gli anni ’70, tristemente noti come “gli anni della triade Nixon-Kissinger-Ford”6, rappresentarono il periodo di massima sperimentazione e sviluppo delle politiche neoliberiste in America Latina, favorite da governi compiacenti insediatisi a seguito di golpe militari assecondati dai governi centrali nordamericani. Una sagace vignetta dell’epoca definiva Henry Kissinger “L’impiccione viaggiatore” proprio per i suoi frequenti viaggi in lungo ed in largo per il continente sudamericano tesi a consolidare, sotto l’egida del Washington consensus, i rapporti di sudditanza dei paesi del sud con il “padrone yankee”. Era la prosecuzione, su vasta scala, della politica di feroce repressione dei movimenti di lotta, condita dall’eliminazione fisica dei ribelli, avviata con l’uccisione di Ernesto Che Guevara in Bolivia (1967). Nel 1970 viene assassinato in Cile il generale Schneider nell’infruttuoso tentativo di evitare la ratifica della nomina a presidente eletto del socialista Salvador Allende. Nel 1972 truppe statunitensi prendono parte attiva nella repressione delle proteste in Salvador contro i brogli elettorali del colonnello Molina. Nel 1973 e nel 1976 la Cia ed il governo Usa sono in prima fila nel favorire ed aiutare i golpisti militari in Cile ed in Argentina. Questo solo per citare gli eventi salienti. Il ciclo produttivo fordista, già a regime negli anni ’50, diventa quindi motore di transizione alla economia neoliberista. Attraverso gli interventi di intellettuali da sempre organici alle lotte sociali, Luciano Vasapollo ricostruisce così in questo libro, un percorso che va dalla resistenza attiva alle trasformazioni capitalistiche, alla attuazione di piani e programmi che rappresentano i prodromi di quello che oggi va consolidandosi come il Socialismo del XXI secolo. A parlare sono per lo più professori universitari di Cuba e del Brasile, del Venezuela e del Messico, dell’Argentina e della Bolivia, della Colombia e di Portorico; non mancano poi interventi di intellettuali europei spagnoli, inglesi e del nostro Cestes (lo stesso Vasapollo e Rita Martufi). Attraverso le lotte in atto che hanno portato all’avanzamento complessivo della sinistra ed a una sostanziale e generalizzata affermazione di governi progressisti, gli attori in campo, i poveri delle metropoli, i contadini, gli operai, gli impiegati ed i disoccupati vanno ridelineando una composizione di classe necessaria per riempire di contenuti le battaglie giornaliere contro le privatizzazioni, contro l’accaparramento sconsiderato delle materie prime. “Lavorare su questa ricomposizione internazionale - scrive Vasapollo - sfruttando la dimensione globalizzante del capitale, acutizzandone tutte le contraddizioni insite anche nello stretto collegamento internazionale della produzione e della creazione del profitto, è un obiettivo strategico che bisogna avere ben presente e sul quale bisogna orientare la coscienza dei lavoratori, partendo dal fatto che le lotte sindacali e sociali, come la dimensione della produzione, hanno ormai un ambito internazionale che travalica i confini di ogni singolo paese; questo significa concretizzare e internazionalizzare la proposta del socialismo del XXI secolo”7. 6. Conclusioni: rilanciare il conflitto sociale per l’alternativa di sistema Una chiara indicazione sui lineamenti del Socialismo del XXI secolo ci giunge proprio dalle lotte in corso in America Latina soprattutto per il ruolo ispiratore di paesi come Cuba, che hanno fatto della resistenza alle aggressioni nordamericane e del rispetto dei diritti umani ed ambientali attraverso politiche attive della formazione dei cittadini, la loro battaglia delle idee. Di paesi come il Venezuela, che dopo aver avviato politiche di recupero della ricchezza nazionale, soprattutto attraverso le nazionalizzazioni delle aziende legate alla lavorazione delle materie prime interne, hanno messo in atto una specifica attività di formazione popolare che in meno di dieci anni le ha permesso di raggiungere il titolo di paese libero da analfabetismo. Di paesi come la Bolivia che, attraverso l’elezione del primo presidente indio della storia di tutta l’America Latina, hanno proposto la centralità politica, sociale ed economica delle comunità residenti, attraverso politiche di restituzione dei beni alla collettività. Nonostante tutto, però, l’Europa (e la sinistra europea) continua a guardare questo continente solo per le opportunità di mercato che offre e non per i messaggi politico-sociali che invia; perdendo, ancora una volta, l’occasione di aprire gli occhi sul contenuto pratico di quella economia che abbiamo definito “socio-ecologica politica”, basata sulla centralità dell’uomo e della natura e, quindi, di chiara impostazione socialista. Un socialismo rimodellato sulle esigenze che questo XXI secolo pone davanti a noi e di cui “Cuba, il Venezuela, la Bolivia e l’Ecuador forniscono chiari esempi di come prendere e tentare con determinazione di difendere nel tempo il potere politico, con una netta configurazione di classe, con la contaminazione tra cultura marxista e cultura indios e rivoluzione bolivariana, nella costruzione di un’armonia solidale, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, contro la distruzione della natura”8. Va quindi avviato un percorso di rafforzamento delle relazioni tra le lotte sociali, le lotte italiane, per il diritto allo studio, alla sanità, contro la precarietà, con quelle francesi per il diritto di cittadinanza, con quelle del continente rebelde per la proprietà dei beni comuni, con quelle dei palestinesi per il diritto alla terra ed allo Stato, con quelle dei popoli africani ed asiatici. “È ora che le associazioni di base, le organizzazioni di base e i movimenti di classe e indios, gli emarginati, gli sfruttati del sistema del capitale analizzino perché senza un forte connotato anticapitalista le proteste di massa, anche sul terreno del drammatico problema modelli di sviluppo e impatto socio-ambientale, non sono state efficaci nell’invertire la marcia verso la società del profitto, dello sfruttamento mercantile dell’uomo e della natura; questo purtroppo è stato l’approdo sempre più moderato della sinistra europea e a questo si oppongono i grandi movimenti dell’alternativa al capitalismo in Nuestra América”9. È per tutti questi motivi messi insieme che Vasapollo, nella prefazione, scrive: “Una riorganizzazione della società che tenga conto del problema ecologico non può coesistere con un’economia capitalistica che tende al raggiungimento massimo del profitto, della rendita, della produttività e del rendimento a profitto”10; e per gli stessi motivi va poi a concludere che “sosteniamo sul piano teorico e della realtà pratica [...] che la contraddizione capitale-natura può essere interpretata e affrontata a partire dalla contrapposizione tra sviluppo delle forze produttive e relazioni di produzione, quindi solo dentro il conflitto capitale-lavoro, dentro le dinamiche del conflitto di classe”11.

Comitato di Redazione e Programmazione di PROTEO

Cfr. Bell Lara, J., La prospettiva dipendenza-sistema mondo, in Nuestra América, Rivista di analisi socio-politica e culturale sull’America Latina, n. 2-3/2006.

Vasapollo, L., Trattato di Economia Applicata, Jaca Book Ed., 2006, pag. 111.

Jaffe, H., Progresso e nazione, economia ed ecologia, Jaca Book Ed., 1990, pag. 25.

Vasapollo, L., Trattato di Economia Applicata, cit. pp. 139-140.

United Nations Developed Program (Programma di sviluppo delle Nazioni Unite)

Cfr. al riguardo AA.VV. America Latina e Caraibi: mezzo secolo di crimini e impunità (1948-1998). Zambon Editore, pp. 55/74.

Vasapollo, L., Capitale, Natura e Lavoro, Jaca Book Ed., 2008, pag. 49.

Ibidem 431.

Ibidem pag. 433.

Ibidem pag. 14.

Ibidem pag. 434.