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La transizione difficile

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Alessandra Ciattini
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Docente Fac. Lettere, Università “La Sapienza”, Roma

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Il ruolo dell’università nell’attuale fase economico-sociale

Alessandra Ciattini

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1. Premessa

 

Ri pare che per comprendere cosa sta effettivamente accadendo all’università italiana, per valutare in maniera adeguata i progetti di riforma di questa istituzione, in parte realizzati e in parte da realizzare, bisogna distinguere due ordini di problemi. Da un lato, si deve collocare il problema ‘università’ nell’ambito delle profonde trasformazioni economiche, innescate da questa nuova fase capitalistica, instauratasi anche a causa del disfacimento dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati.

Molto brevemente si può dire che, in questa nuova fase, si sta realizzando un gigantesco trasferimento di risorse, messe insieme dal cosiddetto Stato sociale essenzialmente prelevandole con la tassazione dei redditi da lavoro, da quelle istituzioni sociali che forniscono servizi alle industrie grandi e piccole, che si trovano a competere in un mercato sempre più “globale”.

Che questo sia un processo internazionale e che esso riguardi direttamente l’università, a cui lo stato darà sempre meno risorse, lo ho già illustrato in due precedenti articoli (cfr. Contropiano n° 4 e n° 5), sottilineando come ciò significhi anche escludere dalla formazione universitaria gran parte dei figli dei lavoratori a reddito fisso e dei disoccupati (evito volutamente di utilizzare l’espressione neodarwiniana e mistificante “fasce deboli”).

L’altro aspetto della questione, che cercherò qui di trattare, è invece di ordine culturale e scientifico. Esso contiene la seguente domanda: una università trasformata dalle riforme già messe in atto o in via di realizzazione, ossia in sostanza non più aperta alle masse, e non più in grado di avvalersi in toto del finanziamento pubblico, che tipo di cultura e di scienza produrrà?

Cercherò di illustrare questo secondo aspetto, analizzando per quanto è possibile i provvedimenti legislativi che sono stati presi negli ultimi anni, e che stanno per essere approvati nel prossimo futuro.

Naturalmente questo secondo aspetto è di fondamentale importanza per il ruolo strategico che ha la ricerca scientifica nella società industriale, ma anche per un’altra questione, che a chi si occupa di scienze sociali non può apparire di secondaria importanza.

Come è ovvio ogni sistema sociale elabora un proprio sistema di valori e di credenze, un’ideologia, il cui scopo fondamentale è di creare consenso, di elaborare una visione del mondo che renda accettabile il sistema in vigore (in questo senso, ogni sistema sociale è tendenzialmente omologante). Tale visione del mondo nasce sicuramente dai gangli della vita sociale, ma uno di questi gangli è sicuramente rappresentato dalle elaborazioni culturali prodotte nelle università. Gran parte della ideologia quotidiana è il risultato impoverito e semplificato, diffuso attraverso i mass media, i grandi giornali nazionali, di queste ultime. In questa forma le elaborazioni culturali contribuiscono, dunque, alla costruzione del cosiddetto senso comune, filtro attraverso il quale volenti o nolenti finiamo col vedere le cose. Il senso comune può essere sia uno strumento di sviluppo della coscienza sociale, sia uno strumento del suo ottundimento. Da questo punto di vista la funzione dell’università non è solo quella di un’istituzione specialistica; essa ha anche una funzione più generale, ossia, di dare un contributo fondamentale al modo critico o acritico in cui un certo sistema sociale vede se stesso e si giudica. Per questa ragione la “questione università” non è di esclusiva pertinenza degli addetti ai lavori, ma è piuttosto un problema fondamentale per chi voglia trasformare le forme attuali di coscienza sociale.

Ma c’è anche un’altra ragione per la quale la funzione dell’università è stata e resta centrale. Mi sia concesso spendere qualche parola sull’argomento, troppo spesso trascurato dalla pubblicistica anche di sinistra. L’università è stata e resta ancora oggi il luogo della riproduzione della classe dirigente. Basti un dato per mostrare quanto sia vera questa affermazione: circa il 10% dei parlamentari sono professori universitari. Se ciò non sembrasse sufficiente, potremmo far riferimento ad un articolo di Raffaele Simone, il quale - pur essendo lui stesso docente universitario - descrive in maniera polemica il ruolo politico-sociale dei professori universitari. Egli sottolinea giustamente che questi ultimi occupano al contempo posizioni-chiave nelle istituzioni statali e private (industrie, banche, authorities, ecc.) [1], riescono anche a diventare ministri, consulenti ben pagati dell’amministrazione pubblica, se non addirittura capi di governo come Prodi in Italia e Jospin in Francia.

Simone definisce questi personaggi con l’efficace espressione Professori-Professionisti-Presidenti ed osserva con amarezza che, per dispensare le proprie energie nello svolgere questo faticoso e complicato ruolo, i docenti finiscono col trascurare l’insegnamento e la ricerca, dedicandosi invece a tempo pieno ad attività assai più lucrose e, sicuramente dal loro punto di vista, più gratificanti.

Proprio perché l’università ha la funzione di riprodurre la classe dirigente, coloro che si collocano al vertice della struttura debbono essere accuratamente vagliati e giudicati.

Non a caso proprio recentemente è stata approvata una nuova legge sui concorsi universitari, i cui meccanismi più o meno velati di cooptazione di studiosi “non meritevoli” avevano già in passato suscitato un vivace dibattito. Questa nuova legge taglia la testa al toro e rende la cooptazione esplicita e dichiarata. Infatti, il bando del concorso locale - non più nazionale come in precedenza - indica quali dovranno essere le caratteristiche “didattiche e scientifiche” del vincitore. Di modo ché la facoltà che bandisce il concorso, o meglio i professori ordinari che la governano, potranno stabilire in anticipo chi vincerà, indipendentemente da come i candidati supereranno le prove concorsuali.

Nonostante sia evidente il carattere mistificante di tale concorso molti docenti di fama, e che si considerano democratici e di sinistra, hanno plaudito una legge, la quale a loro parere moralizzerebbe la vita universitaria e renderebbe più rapidi i concorsi.

Il loro atteggiamento diventa del tutto chiaro se si comprende che il docente universitario - di sinistra o di destra - quasi sempre si identifica con i fini dell’istituzione cui appartiene, ed è quindi interessato al mantenimento degli attuali equilibri di potere al suo interno.

 

 

2. Polemiche

 

In questi ultimi tempi i giornali hanno dedicato un qualche spazio alla questione ‘università’, generalmente considerata un problema specialistico non interessante per la massa dei lettori. Ciò è avvenuto in occasione della discussione e della quasi approvazione di una legge riguardante lo stato giuridico dei ricercatori, la figura che sta alla base della piramide universitaria. Non affronto qui il tema per dare un qualche spazio alle rivendicazioni dei ricercatori (categoria cui appartengo), ma per fare un quadro delle diverse posizioni assunte da uomini di cultura appartenenti sia alla destra che alla sinistra. Dirò solo brevemente che la legge, affossata in seguito ad una violenta campagna di stampa, riconosceva ai ricercatori la funzione docente - da essi svolta pienamente di fatto - e li faceva partecipare agli organi collegiali da cui sono stati sempre esclusi. Il capofila di questa battaglia è stato Angelo Panebianco, che ha scritto un fondo sul Corriere della sera (13-12-1999), in cui denunciava indignato l’ope legis. Ma più avanti affermava chiaramente qual’era l’obiettivo vero della sua rabbia: i ricercatori immessi nei consigli di facoltà avrebbero sicuramente messo a rischio delicati equilibri e - se mi è consentita un’interpretazione
 costituito un ostacolo al modo in cui i docenti dei ranghi più elevati hanno fin’adesso governato la vita universitaria, con la relativa distribuzione di posti. Questione quest’ultima assai rilevante, dal momento che - come si è visto - chi giunge all’apice della carriera universitaria, diventerà al contempo membro della classe dirigente.

Il riconoscimento della funzione docente ai ricercatori deve essere inserito nell’ottica della riforma dell’università partita con la legge sull’autonomia, su cui avremo modo di soffermarci, e sulla conseguente trasformazione dell’insegnamento universitario contenuta nel Regolamento dell’autonomia didattica negli atenei. Trasformazione praticabile se sarà disponibile un numero maggiore di insegnanti, giacché essa si fonda sull’istituzione di diplomi universitari di vario livello, i quali dovrebbero avere inoltre la caratteristica di essere professionalizzanti.

Possiamo dire che grosso modo esistono due schieramenti, nei quali si trovano fianco a fianco uomini di destra e di sinistra (ammesso che nel panorama politico odierno queste parole abbiano ancora un significato). Il primo schieramento, capeggiato per la sua notorietà da Angelo Panebianco, ma in cui troviamo anche Giorgio Manacorda (Corriere della sera 7-1-2000), osteggia la riforma universitaria sia per il metodo (l’utilizzazione del collegato alla Finanziaria per leggi importanti come lo stato giuridico dei docenti), sia per il merito. In particolare, si sottolinea giustamente che i nuovi provvedimenti non prendono in considerazione l’attività di ricerca e il suo fondamentale rapporto con la didattica; rapporto che fa ovviamente dell’insegnamento universitario qualcosa di totalmente diverso da quello scolastico. Si ribadisce anche che si finirà col trasformare l’università in una scuola secondaria professionalizzante, anche se poi non si aggiunge che gran parte delle professioni previste dal nuovo ordinamento esistono solo sulla carta.

D’altra parte anche la Confindustria non ha sempre plaudito le riforme, ora che ci è accorti che anche le multinazionali hanno bisogno di laureati con formazione umanistica, che sono sempre stati la nostra specialità.

Anche se queste critiche hanno un fondamento, non dobbiamo dimenticare che esse sono espressione soprattutto delle preoccupazioni dei professori universitari, i quali temono di perdere gran parte dei loro privilegi. Ad esempio, si legge nell’organo del CIPUR (un‘associazione di docenti universitari) che, proprio la peculiarità delle funzioni di questi ultimi (tra la quali si annovera la formazione della classe dirigente) rende inaccettabile la contrattualizzazione, sia pure parziale, del trattamento economico, un altro dei punti cardine dei progetti di riforma.

Certo, in un’università che dovrà sussistere in grande misura grazie ad investitori privati che faranno pesare i loro pareri, in cui la ricerca di base sarà relegata in un ghetto, in cui bisognerà insegnare a tutti i costi agli studenti a saper fare qualcosa, in modo da poterli inserire in qualche modo del mondo del lavoro, il docente perderà la sua specificità, la sua autorevolezza e non potrà più pontificare dall’alto delle testate di prestigio. Non avrà più le carte in regola neppure per fare il consulente dei politici. Non a caso Manacorda, che si dichiara di sinistra, lamenta il pericolo di veder trasformato il docente universitario in maestro delle elementari e considera di destra i progetti di riforma dell’università.

Aggiungo a margine che è stato osservato come, nella maggior parte dei casi, le sovvenzioni private sono pura fantasia; esse sono immaginabili per ricerche che siano di immediata utilità (le quali sono a loro volta assai rare) e non certamente per le spese fisse. Inoltre, dal momento che il budget versato dal MURST non contempla le spese per gli avanzamenti di carriera del personale, se questo denaro non sarà ricavato dalle sovvenzioni private o dalle tasse degli studenti, è evidente che le università - come scrive Cesare Segre (Corriere della sera, 27-1-1999) - sono destinate ad un lento declino, non potendo assumere nuovi lavoratori al posto di chi va in pensione. Oppure - come prevede il Rettore della Sapienza di Roma - a chiedere dei prestiti per inserire nell’organico quanti sono risultati idonei negli ultimi concorsi.

L’altro schieramento, tra i cui esponenti possiamo inserire Guido Martinotti, che ha coordinato un gruppo di lavoro sull’innovazione dell’insegnamento universitario, parte da un’analisi assai superficiale dell’attuale situazione dell’università, considerata antiquata, e dei suoi mali. E sulla base di questa analisi sostiene la necessità di un cambiamento i cui punti centrali: 1) la cosiddetta autonomia, violata in varie occasioni, che significa sostanzialmente l’ingresso di denaro di privati nell’università; 2) la riforma dei contenuti didattici e dei sistemi di valutazione degli studenti; 3) l’istituzione di sistemi di valutazione a vario livello dell’attività del docente universitario; 4) la riforma dello stato giuridico del personale docente.

L’analisi dei fautori della modernità si basa sostanzialmente sul dato di fatto rappresentato dallo scarso numero dei laureati in Italia, e dalla loro lunga permanenza nelle strutture universitarie.

Se si vuole cambiare il dato di fatto, bisogna interrogarsi sulle sue cause. Cosa che i fautori della modernità non possono fare a fondo altrimenti verrebbero alla luce fatti come: la totale crisi della scuola italiana che produce (ahimé) studenti semianalfabeti, la dilagante disoccupazione e sottoccupazione, le quali inducono gli studenti a iscriversi senza una reale motivazione all’università, l’estrema difficoltà in cui si trova il docente universitario che deve trasformare uno studente semianalfabeta in un individuo dotato di una cultura medio-bassa. A ciò dobbiamo aggiungere il basso livello di molti docenti universitari, che sono stati arruolati con un sistema clientelare e lobbistico, sul quale esiste un’ampia letteratura.

Naturalmente non è mia intenzione scaricare le colpe della cattiva preparazione degli studenti sugli insegnanti della scuola; sarebbe ingiusto e semplicistico. La causa di questa grave carenza si trova nei contenuti dell’ideologia pervasiva, di cui si nutre la nostra stessa società. Sarebbe necessario analizzare questo punto in profondità, ma non mi è possibile in questa sede. Mi limito perciò a sottolineare che i nostri giovani hanno spesso personalità narcisistiche, e sono pertanto incapaci sia di affrontare gli inevitabili smacchi sia di sottomettersi ad un impegno serio e duraturo, fondato sulla autodisciplina. Tutto ciò si può dire con una semplice battuta: è stata tolta ai nostri figli quella piccola dose di super-io, che li avrebbe dotati di ambizioni e di progettualità.

Per concludere la riflessione su questo tema mi pare si possa dire che, se l’analisi dei fautori della modernità è effettivamente superficiale, non produttivi saranno certamente i rimedi da loro proposti. Perciò è assai probabile che il risultato sarà - come gridano i “reazionari”
 l’abbassamento di qualità delle nostre università e la loro trasformazione in licei più o meno professionalizzanti, ammesso che esistano effettivamente le professioni per le quali dovremo preparare gli studenti.

Bisogna aggiungere che l’università tradizionale ha funzionato sempre in un altro modo, non certo difendibile. In generale gli studenti veramente seguiti dai docenti sono sempre stati solo quelli che hanno una preparazione seria, derivante in molti casi dalla tradizione familiare o dalla collocazione sociale. Gli altri studenti sono stati assai spesso lasciati a se stessi e, se giungono a laurearsi, è semplicemente perché ormai i docenti non se la sentono di mostrarsi troppo esigenti, o perché sarebbe troppo faticoso impedir loro di avanzare negli studi.

 


[1] Ricordo che recentemente il Prof. Cassese è stato nominato presidente del Banco di Sicilia. L’articolo di Simone è intitolato “Professore e presidente. Un problema italiano e qualche proposta di soluzione”, e sta ne Il Mulino (luglio-agosto 1998).