3. Quantità e qualità
Il Regolamento in materia di autonomia didattica degli
Atenei, approvato recentemente, prevede il cosiddetto 3+2. Ciò significa che in
tempi rapidi le università dovranno rilasciare titoli di primo e di secondo
livello, ossia la laurea e la laurea specialistica. Sono previsti anche il
diploma di specializzazione e il dottorato di ricerca, quest’ultimo per coloro
che vorrano dedicarsi all’attività scientifica nell’università o in un’altra
istituzione.
Prima di esaminare brevemente qualche esempio di laurea
universitaria e gli obiettivi formativi che essa si propone di raggiungere,
permettetemi di tornare sui cosiddetti crediti (ne avevo già parlato negli
articoli su Contropiano). Innanzi tutto, diciamo che alla base della
nozione di credito sta l’idea della monetizzazione non tanto del sapere, ma
del tempo per ottenere un certo sapere. Secondo il già citato Regolamento,
infatti, al credito formativo universitario corrispondono 25 ore di lavoro per
studente; in questa prospettiva <<La quantità media di lavoro di
apprendimento svolto in un anno da uno studente impegnato a tempo pieno negli
studi universitari è convenzionalmente fissata in 60 crediti>>.
Tale impostazione non può che suscitare in chi faccia
seriamente il mestiere dell’insegnante due perplesse domande: perché questo
trasferimento in ambito didattico ed universitario di termini presi dal
linguaggio della finanza? È possibile ed utile stabilire convenzionalmente il
tempo di apprendimento?
Alla prima domanda possiamo rispondere illustrando la
filosofia che sta alla base di questi provvedimenti. L’apprendimento non è
più inteso come un processo formativo, nel corso del quale non si trasmettono
solo nozioni, ma anche strumenti e metodi per guardare criticamente le prime;
esso è inteso come un processo di accumulazione, simile a quello con cui si
accumula il denaro in banca; proprio per questa sua caratteristica le nozioni
devono essere trasmesse già confezionate, mantenendo nascosta allo studente la
loro genesi, che forse avrebbe riacceso in lui un barlume di atteggiamento
critico. Ma quest’ultimo sarebbe un elemento di disturbo, che avrebbe reso
più difficoltoso l’apprendimento e meno malleabile lo studente.
Possiamo aggiungere che questo trasferimento del linguaggio
finanziario e bancario alla didattica universitaria è anche una grande
operazione ideologica, il cui scopo è quello di farci accettare totalmente l’idea
che il sapere, giacché è un credito a sua volta spendibile sul mercato del
lavoro, deve essere monetizzato e si può dunque aver accesso ad esso solo
pagando. Tutto ciò giustifica pienamente lo sviluppo di università private, le
cui rette possono esser pagate solo da pochi, ed il ritorno netto e chiaro alla
selezione basata sull’appartenenza di classe.
Alla seconda domanda (è possibile ed utile stabilire
convenzionalmente il tempo di apprendimento?) debbo rispondere con una
banalità. Evidentemente questi consulenti del ministro, profumatamente pagati,
non hanno mai studiato, nel senso che non si sono mai fatti prendere
appassionatamente da un problema teoretico e scientifico. Non sanno che l’apprendimento
è per sua natura sempre perfettibile, e che ogni sua fase ne prepara un’altra
più complessa ed articolata. Non sanno neppure che l’apprendimento è un
processo strettamente legato alla formazione della personalità dell’individuo,
e in questo senso è un processo qualitativo, delicato e assai complicato, che
pertanto non può essere quantificato in termini convenzionali.
Ma passiamo ad un altro argomento, in un certo senso
divertente, se non avesse esiti drammatici per i nostri figli. Mi riferisco alla
cosiddetta Determinazione delle lauree universitarie di primo livello. Ne
esaminerò alcune, limitandomi per la mia competenza a quelle umanistiche.
Vediamo ad esempio la laurea in discipline letterarie. I suoi
obiettivi sono quelli che sempre ha avuto: possedere una solida formazione di
base, metodologica e storica, negli studi linguistici, filologici e letterari...
essere in grado di svolgere compiti professionali di vario livello in enti
pubblici e privati nei settori dei servizi culturali (es. giornalismo)... A ciò
si aggiunge quanto ogni madre preoccupata del futuro di suo figlio sa: conoscere
un’altra lingua europea oltre l’italiano e sapersela cavare col computer.
Obiettivi ugualmente ovvi si ritrovano nella laurea di
scienze della comunicazione: possedere una buona formazione di base e un ampio
spettro di conoscenze e di competenze nei vari settori della comunicazione
linguistica, culturale e delle relazioni pubbliche... conoscere almeno due
lingue moderne oltre l’italiano... essere capaci di lavorare in gruppo...
Queste dovrebbero essere lauree professionalizzanti e che
quindi dovrebbero garantire l’entrata nel mondo del lavoro. Che le cose siano
un po’ più complesse lo mostra la crisi del mondo editoriale, in cui è ormai
possibile trovare - se si è ben supportati - solo contratti di collaborazione
esterna.
Se queste osservazioni sono corrette, l’operazione che sta
dietro le varie riforme universitarie presenta varie sfaccettature: da un lato,
costituisce uno sforzo per adeguare l’università alle esigenze dell’attuale
fase capitalistica (trionfo del sapere nozionistico, crisi di quello critico,
finalizzare l’apprendimento solo all’attività pratica e lavorativa e non
anche all’ampliamento delle conoscenze); dall’altro è anche una grande
operazione ideologica e demagogica, la quale mira a fare dell’ideologia del
mercato la chiave interpretativa del mondo in tutti i suoi aspetti, spingendoci
anche a nutrire aspettive difficilmente realizzabili in questo contesto.
Vorrei concludere questa parte con una breve osservazione
sull’utilizzazione dei quiz a risposte multiple, che stanno entrando
prepotentemente nell’università a sostituzione del vituperato esame
tradizionale. E’ stato notato che, nei casi in cui la risposta non è
chiaramente univoca (es. la data della battaglia di Waterloo), la scelta tra una
delle risposte indicate comporta sia la perdita di complessità della
spiegazione del fenomeno esaminato (che viene così ricondotto ad un’unica
causa), sia il surrettizio invito a cercare di compiacere il compilatore del
quiz, rispondendo come avrebbe fatto lui. Come si vede, una ben riuscita
manipolazione intellettuale.
4. Università e medioevo
In un’intervista al giornale britannico The
Guardian (14 luglio 1998) Federico Zeri osservava che in Italia esistono tre
istituzioni che la rodono come un cancro. A suo parere la prima sarebbe l’università,
la seconda la burocrazia; quanto alla terza, invece, con sottile ironia egli
dichiara che preferisce non menzionarla esplicitamente per paura di offendere i
credenti.
Lasciamo da parte la burocrazia e analizziamo, invece, l’analogia
tra la prima e la terza istituzione non menzionata dal noto storico dell’arte.
Mi pare ovvio che Zeri, nella sua dichiarazione, facesse un implicito
riferimento alla chiesa cattolica, sviluppando così un tacito parallelismo tra
chiesa e università. Tale parallelismo - a mio parere - è sensato e si fonda
sui caratteri medioevali e gerontocratici di entrambe le istituzioni. Caratteri
gerontocratici che la riforma dello stato giuridico dei docenti addirittura
accentuerà, seppure tenendo presente la politica dei tagli alle istituzioni
pubbliche e della precarizzazione del posto di lavoro, quanto mai attuali oggi.
Il risultato sarà molto probabilmente qualcosa di simile a
quei film kitch di fantascienza, in cui si cerca bizzarramente di coniugare la
scoperte scientifiche del futuro con un ambiente arcaico e medioevale, nel quale
si muovono orribili mostri semiumani.
D’altra parte, è abbastanza evidente che l’attuale fase
capitalistica richiede trasformazioni politiche in senso autoritario, come ad
esempio l’abolizione totale della proporzionale a vantaggio del sistema
maggioritario, i cui esiti sono stati l’ampliamento dell’astensione dal
voto; atto minimale di partecipazione politica. Se la riforma dello stato
giuridico dei docenti sarà approvata, un’analoga trasformazione autoritaria
sarà imposta all’università, che non ha certo mai brillato per
democraticità, essendo sempre stata organizzata in caste impermeabili tra loro.
Era difficile pensarlo, eppure nell’università del futuro vi sarà ancora
meno spazio per la democrazia, e questo processo è presentato dai suoi
sostenitori come un necessario utilizzo delle “politiche premiali” e il
tanto atteso trionfo della cosiddetta meritocrazia.
Molto brevemente dirò che il nuovo stato giuridico prevede
in primo luogo l’ulteriore gerarchizzazione delle figure universitarie
(professori ordinari e professori tout court), stabilendo che per passare
da una classe all’altra (tre per gli ordinari e sei per i professori) si
dovranno superare procedure quadriennali di valutazione, i cui meccanismi
restano alquanto oscuri. Superata la valutazione si avrà un avanzamento nella
carriera e un aumento di stipendio. Le cariche elettive sono attribuite solo
alle classi più alte. Avremo un’università zarista, nella quale ogni docente
sarà inquadrato in una certa fascia e sottoinquadrato in una certa classe.
Ma l’elemento che lascia più perplessi è il meccanismo
stesso della valutazione, il quale sarà gestito ovviamente dai professori
giunti all’apice della loro carriera. Dal momento che il “merito” non è
una cosa, ma il risultato di un giudizio sempre opinabile, tutto ciò lascia
temere il dominio dell’arbitrio, o peggio il dominio delle varie lobby e
cordate, sempre pronte ad escludere o a mortificare un docente non allineato. Si
può aggiungere anche il sospetto che, in tali condizioni, la libertà di
ricerca e di insegnamento condurranno vita stentata.
La nuova legge, tuttora in discussione in Parlamento, pervede
anche che i ricercatori siano trasformati in professori di terza fascia
(evidentemente gli esperti del ministero hanno sempre in mente la figura della
piramide costituita da più strati), i quali saranno però messi immediatamente
ad esaurimento.
Ciò significa due cose: una generazione di studiosi (certo
non tutti brillanti) entrati all’università subito dopo il 1968, ormai
autonomi anche per la loro età ed esperienza scientifica, è buttata a mare
senza tanti complimenti. In realtà, questa epurazione - fatta in nome della
necessità di ringiovanire il corpo docente - ha un senso politico-economico ben
preciso. I vecchi ricercatori dovranno lasciare il posto ai giovani dottori di
ricerca, che anche durante il dottorato potranno fare attività didattica, e che
poi attenderanno circa otto anni (i contratti di tirocinio) per entrare nell’università,
se mai vi riusciranno.
Insomma, si prospetta un’università leggera, in cui nel
futuro ci saranno pochi docenti di ruolo, che però avranno in mano tutte le
leve del potere, e una massa di docenti precari ricattabili e certo non nelle
condizioni di svolgere in piena libertà le loro ricerche. Il risultato sarà un’università
oligarchica e gerontocratica, perché se i vecchi ricercatori saranno via via
eliminati, i vecchi ordinari resteranno quasi rianimati dalla linfa vitale, che
la riforma dello stato giuridico immette nei loro non più scattanti organismi.
Inoltre, non posso fare a meno di citare un piccola perla, la
quale riguarda la possibilità che avranno le università di stabilire contratti
di diritto privato con personalità di alto rilievo culturale; il che ovviamente
significherà che pochi potranno impadronirsi di una parte significativa degli
stanziamenti per l’università, in una fase in cui le risorse per la ricerca e
per il reclutamento sono state tagliate.
Ma anche alcuni professori di ruolo potranno stipulare con le
università un contratto individuale di diritto privato, che riguarderà il
trattamento economico accessorio. Per ottenere tale vantaggio il docente dovrà
però correlare gli obiettivi della sua attività con quelli relativi alla
programmazione dell’ateneo. Anche questo sembra un modo per intervenire dall’esterno
sull’attività didattica e di ricerca, incanalandole in certi percorsi
preordinati.
Altri elementi che mettono in luce la volontà di
<<rafforzare l’organizzazione piramidale della docenza, con un sempre
più ferreo controllo dal vertice>> (così si legge in un documento dell’Associazione
Nazionale Docenti Universitari) sono: l’attribuzione agli ordinari delle
cariche accademiche e il coordinamento dei gruppi di ricerca, l’esclusione
delle due seconde fasce della docenza dalla votazione sulla destinazione dei
posti relativi alla fascia superiore. Non meno pericolosa è la norma che
prevede l’equiparazione economica tra professori, che si dedicano a
professioni extrauniversitarie e professori che invece si dedicano solo all’insegnamento
ad alla ricerca. I primi, in contraddizione anche col più piatto buonsenso,
potranno addirittura accedere a tutte le cariche accademiche dalle quali oggi
sono esclusi (rettore, preside, direttore di dipartimento etc.).
5. La cultura e la scienza della nuova università
Quest’ultima norma ci consente di tornare al discorso
sviluppato da Simone e riportato in precedenza. Come si vede, infatti, la
categoria dei Professori-Professionisti-Presidenti si rafforza e si impadronisce
direttamente dell’organizzazione universitaria, per subordinarla a fini
politico-economici ad essa esterni.
Si realizzerà così una più stretta interpenetrazione tra
mondo delle aziende (non del lavoro), politica e attività universitaria.
Interpenetrazione, che proprio per le sue caratteristiche, provocherà fenomeni
più ampi e diffusi di corruzione di quelli già accaduti in passato.
Se tale scelta politica è deleteria per questa ragione
pratica e morale, essa lo è ugualmente sul piano teoretico. Come è stato
scritto da più parti - ma gli anonimi consulenti del ministro non lo hanno
recepito - la scienza non può essere identificata con la tecnologia, e pertanto
se si volesse legare la ricerca scientifica strettamente a risultati
immediatamente pratici, essa finirebbe con l’esserne paralizzata. Ogni
applicazione tecnica di certi risultati scientifici deriva dalla sviluppo della
cosiddetta ricerca di base, la quale nasce dai vari tentativi che fanno i
ricercatori di risolvere determinati problemi teorici, che fanno parte della
storia di una certa disciplina.
Se dunque dimentichiamo l’esistenza di tutte queste
mediazioni, finiremo col distruggere la stessa ricerca scientifica. A queste
osservazioni, c’è da aggiungere un’altra questione. La maggior parte della
ricerca svolta nelle facoltà umanistiche ha come fine il cosiddetto “ampliamento
delle conoscenze”, e quindi è lontanissima dal produrre qualcosa di
appetibile economicamente. Mi pare sia legittimo chiedersi che fine farà questo
tipo di ricerca? Chi la finanzierà?
E’ abbastanza ovvio che anche questo tipo di ricerca ha
tutta una serie di finalità pratiche e morali, che cercherò di illustrare
brevemente. Lo scopo fondamentale delle ricerche storiche, sociologiche,
antropologiche letterarie è quello di allargare le nostre conoscenze relative
ai fenomeni storico-sociali del passato e del presente, ma nel far ciò esse
stimolano anche la nostra coscienza critica, la nostra sensibilità politica e
morale verso le attuali condizioni di vita. Queste conoscenze ci forniscono i
mezzi per sviluppare forme di coscienza più raffinate, più vicine agli
effettivi sviluppi del sapere scientifico e filosofico, per dare un significato
più pieno e più denso alla nostra vita individuale e sociale. In definitiva,
tali ricerche, trasformando fatti oscuri e sconosciuti in conoscenze acquisite
ma pur sempre revocabili, mettono gli individui nelle condizioni di agire da
protagonisti nella vicenda storica, e non di essere meri oggetti travolti dalle
trasformazioni sociali piovute improvvisamente dall’alto.
Come si vede, la ricerca umanistica dà un apporto
significativo e qualitativamente importante al modo di concepire il mondo nel
quale viviamo, valorizzando al massimo le potenzialità trasformatrici dell’uomo
e le sue possibilità conoscitive. Probabilmente essa potrebbe far riscoprire
all’uomo il senso ormai smarrito - si dice - della sua storia, che egli va a
ricercare nelle più svariate forme di irrazionalismo filosofico e religioso
oggi diffuse. E quest’ultime sono proprio il segno dello stato di abbandono e
di emarginazione dorata, nel quale si trova la ricerca umanistica a cui non è
dato sviluppare a pieno le sue capacità critiche; essa riesce ad uscire allo
scoperto solo quando si trasforma in mistificante ideologia ed accetta di
alimentare il piatto ma disperante conformismo attuale, per il quali il mondo di
oggi è il migliore dei mondi possibili.