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SOCIETA’ E PROCESSI IMMATERIALI

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Filippo Viola
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Professore di Sociologia, Fac. di Sociologia, Univ. “La Sapienza”

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Ideologia della crisi e ristrutturazione capitalistica

Filippo Viola

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1. Ideologia e realtà della crisi La lettura della crisi che viene fatta sui giornali e in Tv è sempre sospesa tra interpretazione della realtà - se pure dal punto di vista dell’attuale assetto della società - e vera e propria ideologia. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, quanto più grave è la crisi, tanto più la lettura “ufficiale” pende dalla parte dell’ideologia. E si capisce perché. Quanto più vasto è l’impatto sociale della emergenza economica, tanto più ampia dovrà essere l’azione ideologica volta a farne pagare il prezzo ai ceti popolari. Parlare di ideologia della crisi non significa sostenere che la crisi è pura invenzione, mero pretesto, senza alcun fondamento di realtà. Parliamo di ideologia della crisi nel senso che c’è un uso ideologico della realtà della crisi. Del resto una ideologia si regge se ha una base di realtà. Per essere credibile, deve essere un impasto di realtà e invenzione. Deve essere realtà mistificata. La crisi, dunque, è reale ed è molto profonda. Ma quale crisi? Non - si badi - la crisi della società, ma la crisi dell’accumulazione capitalistica. Una mannaia, che si abbatte sulla classe subalterna e attacca anche le condizioni di vita della classe media. Una vera e propria tragedia sociale. Per questa via, la crisi del processo di valorizzazione si traduce in crisi generale, in crisi tout court, con una pesante ricaduta sulla coscienza collettiva. La gente finisce per convincersi che la valorizzazione del capitale è il vero motore della vita sociale e, quando il motore perde colpi, la macchina della società non può non rallentare, con altissimi prezzi per la collettività.

2. La crisi come opportunità La crisi in atto è, come è noto, internazionale. Ma in Italia essa viene usata, in chiave ideologica, per avviare un piano sistematico di ristrutturazione complessiva del rapporto fra capitale e società. Il padronato italiano, con istinto di classe, fa della crisi una occasione per cercare di affrancare il processo di valorizzazione dai condizionamenti sociali. L’obiettivo è chiaro: comprimere le condizioni e i diritti dei ceti popolari, per dare spazio al libero corso della logica del profitto. La crisi come pretesto per un attacco alle conquiste di anni di lotte, attraverso una ristrutturazione capitalistica del sistema politico, economico e sociale. Del resto, non se ne fa mistero. Una tesi ricorrente, sostenuta pubblicamente da opinionisti ed economisti accreditati, è quella che prospetta la crisi come opportunità. Opportunità per che cosa? Lo si dichiara esplicitamente: per mettere mano alle riforme di struttura. Dunque, la crisi come occasione per la riorganizzazione della società a misura delle nuove esigenze del capitale. L’approccio operativo alla congiuntura deve attaccare le difficoltà strutturali. Operare nella congiuntura per ridare respiro al funzionamento strutturale del sistema capitalistico. La crisi passa, la struttura resta. Analogo uso della crisi come opportunità viene fatto anche all’interno del sistema aziendale. In questo ambito, l’emergenza economica generale serve a ottenere benefici e a far passare riorganizzazioni e dislocazioni della produzione, con conseguenti riduzioni del personale. Operazioni già programmate da tempo e adesso presentate come ricadute ineluttabili della crisi.

3. L’agire capitalistico nella crisi Tutto ciò non rimanda a un piano capitalistico della crisi. Il capitalismo non è una associazione segreta, sorta per tramare congiure economiche. Al di fuori di una ottica cospiratoria, il nostro compito specifico sta nel tentare di ricostruire - e, al limite, di prefigurare - l’agire capitalistico nella crisi. Per una analisi dell’agire capitalistico nella crisi, è fuorviante un approccio di tipo “orizzontale”, un approccio cioè che tagli orizzontalmente il sistema economico e guardi nei suoi squilibri interni. Un taglio orizzontale dell’analisi della crisi finirebbe con l’accreditare, sul piano esplicativo, tutto l’armamentario dell’economia borghese. A questo livello, i ragionieri del capitale possono contabilizzare il quadro economico senza sporcarsi la mente con i rapporti di produzione. Occorre dunque un taglio “verticale” dell’analisi. Partiamo dalla realtà della crisi. E’ sì una crisi internazionale, ma viene “caricata”, al nostro interno, di tutte le irrisolte contraddizioni strutturali del sistema. Al fondo c’è la speranza che la mobilitazione sociale operata dalle forze politiche “per fare uscire il paese dalla crisi” serva non solo a dare uno “sbocco positivo” alla congiuntura, ma anche una prospettiva favorevole alla valorizzazione. Non importa semplicemente sbloccare il processo di accumulazione. Si vuole approfittare dell’emergenza per assicurarsi una prospettiva capitalistica relativamente stabile. La crisi economica dunque da un lato si definisce come sintesi delle contraddizioni del capitale, dall’altro come sintesi delle risposte del capitale alle proprie contraddizioni. Il progetto è chiaro: affrontare la congiuntura del rapporto tra produzione e consumo con interventi che modifichino la struttura del rapporto tra capitale e lavoro. Nel quadro della fenomenologia della crisi, i due rapporti sono, come è noto, fortemente intrecciati, in una sorta di reazione a catena. La dinamica perversa della valorizzazione del capitale provoca una sorta di cortocircuito tra la condizione del soggetto in quanto lavoratore e il suo comportamento in quanto consumatore. Attraverso la compressione salariale, il livello di vita di chi lavora viene abbassato al limite della sussistenza, con una forte riduzione delle possibilità di consumo. A lungo andare, questo processo porta ad un crollo delle vendite dei beni prodotti, provocando la chiusura di larghi settori della produzione, con una pesante ricaduta sulla occupazione. Il cerchio si chiude. Masse di donne e uomini si vedono prima, nella sfera del lavoro, ridotte alla miseria e poi, per la miseria dei loro consumi, messe in mezzo alla strada, con la perdita del posto di lavoro. Il capitale prima schiaccia le persone in quanto lavoratori e poi, in quanto pessimi consumatori, le sbatte fuori. Per questa via, il rapporto fra produzione e consumo, da fenomeno prettamente economico, si trasforma in problema sociale. Con la chiusura in serie di aziende, viene a mancare il terreno in cui si misurano i rapporti di forza tra padroni e operai. Ma rischia anche di oscurarsi la credibilità sociale del sistema capitalistico. Solo bassi interessi di classe possono indurre a non mettere quantomeno in discussione un sistema in grado di produrre i drammi sociali che sono sotto gli occhi di tutti. L’ideologia borghese ha interesse a scindere la vicenda della crisi dal destino del capitalismo. In questo senso, la crisi deve essere congiunturale. Deve cioè essere risolvibile entro i confini del sistema. Una crisi non risolvibile nell’ambito del sistema non è più crisi nel capitalismo, ma crisi del capitalismo. Difronte ad una tale prospettiva, risolvere la crisi significa, in ultima analisi, per i rappresentanti del sistema istituzionale, riaffermare il principio costitutivo della sussunzione reale della società al capitale: il destino della società deve coincidere con la sorte del capitale.