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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO

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Crisi del sistema capitalista: come e quando se ne esce?

Julio Gambina

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1. Crisi e relazioni di classe

Per molti anni all’interno della sinistra si è parlato di crisi del capitalismo, anche quando non era ancora un dato rilevante come lo è nella fase attuale che va dal 2007 fino ad oggi. Non ci sono dubbi sull’esistenza della crisi “nel” capitalismo, ma è oggetto di discussione il fatto che sia una crisi del regime del capitale o una crisi del ciclo stesso del capitale. Gli interrogativi da risolvere, nel dibattito sul carattere della crisi, sono se il capitalismo riuscirà a superare questa crisi, così come è già successo in altre occasioni; se continuerà per lungo tempo; o se, alla fine, è arrivato il momento di superare l’ordine capitalista. La crisi rimanda alle difficoltà generali del capitale per la sua valorizzazione, senza dimenticare la continua produzione di plusvalore anche in un periodo di crisi e la sua appropriazione da parte del capitale. Le difficoltà nella riproduzione e nell’aumento del capitale non impediscono la valorizzazione dei capitali privati. Nel segno della competizione capitalista, nonostante la crisi, i capitali privati hanno condizioni favorevoli per sviluppare il processo di centralizzazione e concentrazione, rianimando, di fatto, il ciclo di accumulazione capitalista. In realtà, costituiscono la parte del capitale che si sta preparando a riemerge dalla crisi con una rinnovata forza e per un nuovo ciclo economico di espansione delle relazioni sociali capitaliste. La crisi presuppone distruzione e creazione di capitali. Come dicevamo, la crisi comporta distruzione di capitali (lavoro accumulato) e nascita di altri (nuovi) processi di sfruttamento del lavoro vivo. Attualmente è possibile notare una tendenza al ribasso dei profitto delle imprese (banche, industria dell’auto, ecc.); allo stesso tempo, però, i settori associati alla biogenetica e all’industria alimentare ottengono profitti altissimi, anche durante la crisi economica mondiale. Tra le imprese per la commercializzazione del grano, Cargill1 nel 2008 ha ottenuto profitti pari a 3.951 milioni di dollari, superiore del 69% rispetto alle entrate del 2007. Tra le industrie che producono fertilizzante, l’impresa statunitense MOSAIC, sempre nel 2008, ha dichiarato 2.682 milioni di dollari, 430% in più dell’anno precedente. Per quanto riguarda i semi e i pesticidi, nel 2008 la Monsanto ha guadagnato 2.926 milioni di dollari, 120% in più del 2007. Nel settore delle macchine agricole, John Deere2 ha dichiarato profitti pari a 3.214 milioni di dollari, 17% in più rispetto al 2007. Sono argomentazioni molto importanti poiché i capitali danneggiati ricorrono all’aiuto dello Stato capitalista - prodotto storico del capitale - per rendere sostenibile il ciclo economico e per recuperare funzioni produttive e riproduttive del capitale. È ovvio che si tratti di una lotta con altri settori che non avvertono allo stesso modo la crisi, dando così vita a una competizione inter-capitalista per l’appropriazione dell’apparato statale e delle capacità di orientare le risorse pubbliche con fini privati. In alcuni casi, buona parte della battaglia per il superamento della crisi delle imprese e per il ripristino dell’accumulazione, passa per l’appropriazione privata delle risorse pubbliche destinate alla salvezza, all’interno di un sistema economico in crisi. Il capitale ha dato vita allo Stato capitalista e quest’ultimo si è costituito in un campo di lotta per la produzione e la riproduzione del ciclo capitalista. Stiamo parlando di relazioni di classe, in questo caso, tra diversi settori della borghesia locale, regionale e mondiale. È il fenomeno della trans-nazionalizzazione e della ricerca di commercializzare le relazioni economiche in ambito globale. Questa disputa all’interno del modello capitalista di produzione opera sulla relazione di sfruttamento che si allargano rapidamente sotto nuove condizioni, in tempi di mondializzazione o globalizzazione. Per questo, il capitale non agisce competitivamente solo sullo Stato, ma vuole colpire il lavoro condizionando a proprio favore tutte le richieste per un salario migliore e per condizioni lavorative degne. È un’iniziativa estremizzata dalla crisi per diminuire il costo di produzione. Dobbiamo sottolineare che la crisi è una fase dello sviluppo capitalista in cui i capitali con diversa composizione organica e inserimento nella dinamica dell’accumulazione, si contendono un posto nella creazione delle condizioni adeguate per ricondurre il lavoro, la natura e la società all’interno delle regole del capitale.

2. Cause e andamento della crisi In questo processo di crisi vengono stabiliti limiti per materializzare l’accumulazione capitalista e il processo di dominio, sia per i fattori interni del processo di produzione e riproduzione - di cui la sovrapproduzione di beni e di capitali costituiscono il fondamento principale -, sia per il conflitto salariale, lavorativo o per la lotta del reddito generato da rivendicazioni di ampi settori popolari (lavoratori informali, piccoli contadini, artigiani, comunità indigene, organizzazioni territoriali, ecc.). È una lotta per il salario, per la casa, per la salute, per l’educazione e per l’appropriazione sociale dei valori culturali e storici. Questi aspetti sono le cause della crisi in corso. Esistono problemi all’interno del capitalismo a causa della lotta all’egemonia del dominio e di conseguenza si presenta, sullo scenario sociale, un conflitto di classe tra i dominati e dominanti. In entrambi i casi si pensa alla crisi come ad una opportunità dai significati contradditori. I dominanti cercano di stabilizzare l’andamento capitalista e i sottomessi cercano di ostacolare il processo di accumulazione, di ottenere condizioni di vita migliori e di intraprendere un percorso che porti dal capitalismo al socialismo. In questo processo si realizza la dialettica tra riforma e rivoluzione. Visto che la crisi è ormai un dato reale e non è solo una diagnosi della sinistra, si rende necessario, quindi, un processo aperto di lotta politica, ideologica ed economica per l’andamento dell’organizzazione della società contemporanea. Quale è la direzione esposta nel dibattito della sinistra? Accettare così come è la crisi, intesa come problema della valorizzazione del capitale, senza vedere il ruolo dei capitali privati e la loro articolazione nello Stato capitalista? Immaginare e sperare il crollo del capitalismo? Disporre di tutte le politiche anticrisi possibili, anche quelle che derivano dai centri del potere mondiale? Adeguarsi alle nuove condizioni o cercare di rivoluzionarle? Dopo secoli di capitalismo e varie crisi, è doveroso non ripetere le stesse discussioni relative alle soluzioni magiche di trasformazione rivoluzionaria. È imprescindibile riconoscere le caratteristiche della crisi attuale: bisogna conoscere le forme che assume lo sfruttamento capitalista e potenziare la forza soggettiva e cosciente che lotta contro questo sistema economico e per il socialismo. Insistiamo su questo aspetto perché esistono delle particolarità nella crisi del 1873, in quella del 1930, in quelle degli anni ‘60 e ‘70 e ovviamente anche in quella presente. Gli aspetti specifici includono l’analisi dell’epoca, la situazioni delle classi sociali e la forza dei loro progetti. L’offensiva dei lavoratori definita ne Il Manifesto del partito Comunista (1848) e messa in atto nella Comune di Parigi3, non è riuscita a risolvere la definizione di un processo di trasformazione rivoluzionario; così il capitalismo, durante la crisi del 1873, è cambiato grazie alla concentrazione e alla centralizzazione del capitale, dirigendosi verso una fase imperialista dominata dai monopoli. La prospettiva capitalista, all’uscita dalla crisi della fine del XIX secolo, non era l’unica possibile. In seguito, con la Rivoluzione russa del 1917, l’offensiva dei lavoratori sottomessi ha dato vita alla difesa dello Stato sociale, alle politiche keneysiane (per salvare il capitalismo) sviluppate in un periodo di guerra e sulla scia della Grande Depressione. Il limite del riformismo era presente nell’offensiva dei lavoratori e delle popolazioni nella lotta di classe resa manifesta dopo la seconda guerra mondiale e dopo la crisi della fine degli anni ‘60. Da questo momento si costituisce l’ideologia neoliberale contro i lavoratori e il potere popolare che minacciava il regime del capitale. Suggeriamo di pensare in termini di crisi e di iniziativa politica delle classi costituitesi in soggetti attivi che definiscono l’andamento sociale. Quindi, non esiste solo la crisi, la recessione, l’inflazione, i bassi tassi di profitto, la disoccupazione, l’emarginazione e qualsiasi altra manifestazione o effetto dei problemi del ciclo di valorizzazione, ma, nella società, sono presenti anche soggetti in grado di affermare l’andamento del capitalismo. Questi soggetti fanno parte del settore economico e politico. È necessario, in questo senso, prendere atto del carattere offensivo della strategia delle classi subalterne, sin dalla sua formazione originaria, dai classici del socialismo fino al crollo del blocco sovietico. Questa situazione ha generato un cambiamento importante nell’immaginario popolare mondiale, danneggiando la prospettiva di una svolta anticapitalista. La nostra ipotesi ritiene che a 20 anni dalla caduta del “muro” appaiono nuovamente condizioni soggettive per attuare una possibile offensiva per il socialismo. In qualsiasi caso, si tratta di un percorso da costruire, ripensando la critica al capitalismo per rifondare un ciclo di impegno popolare che renda attuabile il cambiamento dal capitalismo al socialismo. Tutto ciò presuppone anche un bilancio critico sull’esperienza socialista e una rinnovata ricerca per la costruzione di una società senza più sfruttamento. Non è un’utopia né una fantasia, specialmente in America Latina, in cui si stanno vivendo, negli ultimi venti anni, processi di massa che affrontano le politiche egemoniche neoliberali partendo da una dinamica della mobilitazione sociale che vuole costruire nuove relazioni sociali nell’economia, nella politica e nella società. Stiamo parlando di due decenni che hanno avuto inizio con il Caracazo4 (nel febbraio del 1989) che dà origine a ciò che oggi chiamiamo Rivoluzione Bolivariana; un altro esempio sono le lotte indigene dopo cinquecento anni di dominio (1992) che sostengono i processi di cambiamento in Bolivia e in Ecuador; oppure le lotte dei lavoratori organizzati in Brasile, Uruguay e Argentina per dar vita ad aspettative e critiche nei confronti dell’egemonia neoliberale degli anni ‘90. È il cammino sviluppato in Paraguay, Nicaragua e in El Salvador. Ciascuno partendo dalle proprie possibilità, ma tutti uniti in una prospettiva di cambiamento nazionale e di ricerca, a ritmo differenziato, dei processi di innovazione, sulla scia dello scontro con la strategia imperialista di integrazione subordinata al programma di liberalizzazione dei trattati commerciali, la cui più grande scommessa è stata l’ALCA.

3. Dati e pronostici sulla crisi La recessione dell’economia mondiale è un dato conclamato, specialmente nei paesi capitalisti sviluppati. Nel primo trimestre del 2009, gli Stati Uniti hanno registrato una caduta del 5.7%; la media della “zona euro” ha avuto un crollo del 6.2%; e il Giappone del 12.1%. Le previsioni per il 2009 sono di recessione per tutti i paesi, secondo le informazioni date dal giornale The Economist durante la prima settimana di maggio 2009, eccetto per l’India che ha una prospettiva di crescita pari al 5% e la Cina al 6%, cifre molto più basse rispetto alla media di crescita di entrambi i paesi negli ultimi anni. La CEPAL5 ha avvertito che la crescita nel 2009 per l’America Latina sarà sotto l’1.7%, ossia un valore molto più basso rispetto al ciclo economico vissuto dalla regione che aveva una media superiore all’economia globale. Una caratteristica sottolineata dall’organismo regionale è che il problema non è finanziario ma danneggia l’economia reale in modo molto serio. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha corretto al rialzo le stime sulla disoccupazione: da 50 milioni, secondo quanto sosteneva nel 2008, a 59 milioni di lavoratori danneggiati dalla crisi.

“In America Latina, più di un milione di persone, durante la fine del primo trimestre del 2009, ha perso il proprio posto di lavoro a causa della crisi mondiale, secondo quanto riporta un comunicazione congiunta della CEPAL e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO)... Nella regione la disoccupazione potrebbero aumentare fino al 9.1%, asseriscono i due organismi”.

La decrescita economica coinvolge tutti i paesi, in alcuni casi è aggravata dalla recessione. Un fenomeno ulteriore è rappresentato dall’aumento dei prezzi, che genera stagnazione e incremento dell’inflazione. È un quadro della crisi dell’economia mondiale che travolge i lavoratori e i settori sociali con minori entrate. La crisi la stanno pagando già con la disoccupazione e con condizioni di lavoro sempre peggiori. Le risposte politiche sono in pieno sviluppo. Da un lato le classi dominanti promuovono politiche statali per sostenere il tasso di profitto e le condizioni per la continuità dell’accumulazione e del dominio capitalista. È ciò che avviene nei contesti internazionali, sia nelle riunioni del G20 che negli organismi finanziari internazionali. I paesi capitalisti più potenti avevano sviluppato lavoro comune attraverso il G7 e il G8 per orientare l’andamento delle politiche di Stato e ora cercano la legittimazione dei loro propositi, inserendo i “paesi emergenti” tra i quali figurano tre della regione latinoamericana, Messico, Brasile e Argentina, insieme ad altri, tra cui l’India e la Cina. Questi ultimi due, con la Russia e il Brasile, vedono aumentare la loro considerazione per il peso economico e politico che stanno sviluppando a livello mondiale. Non sorprende che la principale risoluzione del G20 di Londra, svoltosi all’inizio di aprile del 2009, abbia fatto triplicare la capacità di prestito del FMI e abbia fatto crescere le potenzialità degli organismi finanziari. Inoltre, la Cina con 50.000 milioni di dollari e il Brasile con 10.000 dollari in prestito dal Fondo vogliono incidere in una nuova struttura di potere all’interno dell’organizzazione. Una realtà che mostra il disastro delle finanze dei centri di potere globale, i limiti che esprime l’egemonia statunitense e, allo stesso tempo, un movimento in disputa egemonica dal capitalismo con nuovi attori sociali e con il rischio di avere scarse possibilità di modificare la struttura del potere globale costruito nella Conferenza di Bretton Woods6. È chiaro che i paesi esprimono il potere del capitale locale e cercano di migliorarne la posizione nella divisione internazionale del capitale. Durante gli anni ‘50 e ‘60 si credeva fattibile il passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo pieno. Si doveva seguire il modello imposto dai paesi sviluppati, così da poter raggiungere l’obiettivo. Si dimenticava o si negava la dialettica tra sviluppo e sottosviluppo, tra dominati e dominanti e si taceva sulla rivoluzione industriale, prodotto dell’accumulazione che includeva il saccheggio delle ricchezze naturali del territorio di Nuestra América e il genocidio delle popolazioni sfruttate nell’estrazione mineraria. Stiamo parlando di un tipo di accumulazione del capitale sostenuta dal saccheggio delle popolazioni. La storia si ripete per dar vita a nuovi modelli di accumulazione. Esistono strategie che vogliono inserire i paesi in via di sviluppo al vertice del potere capitalista. Partono dalle ipotesi di una crisi nel centro che non danneggia sostanzialmente la periferia. È una diagnosi errata che continua a pensare in termini di economia e politica internazionale senza ridimensionare il carattere mondiale della formazione capitalista. Questa visione si basava sull’illusione che genera la macroeconomia stabile e la crescita degli ultimi anni della regione latinoamericana. La realtà nella congiuntura degli equilibri fiscali e commerciali, delle politiche monetarie e di cambio con solide riserve internazionali, fanno apparire consistenti le condizioni dei paesi davanti alla crisi presentata nel nord sviluppato. Si dovrebbe ricordare che il ciclo di ascesa della regione è posteriore di un decennio alle ristrutturazioni regressive avvenute negli anni ‘90 e ha sperimentato diversi esempi di crisi: il Messico nel 1994, il Brasile nel 1998 e l’Argentina nel 2001. Nella nostra regione la crisi è arrivata in anticipo e la crisi del Nord sviluppato si proietta sui nostri paesi, così come asseriscono la CEPAL e l’ILO nel documento precedentemente menzionato, facendo ritornare alla realtà i governanti o gli accademici che immaginavano blindate le economie della nostra regione con dati accumulati in un ciclo di ascesa della produzione, dell’occupazione, dei profitti e dei salari, anche se non riescono a soddisfare le richieste di una maggiore qualità della vita. Il problema è l’illusione neo-sviluppista portata avanti con pretese egemoniche da correnti critiche verso i neoliberali. Queste correnti hanno dato impulso al loro credo commerciale per quattro decenni all’interno dei governi e delle accademie e la crisi attuale smaschera i limiti della teoria e della politica economica dominante. È un fatto che i neoliberisti e i loro sostenitori nella sfera politica hanno smesso di parlare e attendono momenti migliori dopo il superamento della fase critica del ciclo. Nel frattempo si proteggono dietro la prudenza dei critici che promuovono nazionalizzazioni transitorie e interventi statali, per poi tornare ad attuare politiche liberiste e di “mercantilizzazione” profonda e continuata delle relazioni sociali ed economiche. Questa è l’impronta del neokeynesismo. Dobbiamo sottolineare che il keynesismo è esistito sulla base dell’offensiva di una soggettività rivoluzionaria che metteva in discussione l’ordine capitalista vigente all’inizio del XX secolo. È doveroso anche segnalare che il keynesismo è nato nel periodo delle due guerre mondiali (1914-1918; 1939/1945) in cui regnava la distruzione completa delle forze produttive; questa dottrina si è affermata tra il 1945 e il 1975 sulla base del potere egemonico degli Stati Uniti. Ora, davanti all’assenza di una soggettività rivoluzionaria in ascesa, la crisi condiziona il pensiero egemonico degli ultimi anni (neoliberismo) e posticipa i suoi obiettivi di liberalizzazione a momenti migliori. Tutto ciò fa ritenere che si possano creare nuovamente le circostanze per ristabilire le politiche keynesiane come quelle tra il 1930 e il 1980 e, di fatto, un dato è il continuo intervento di uno Stato capitalista che non aveva mai abbandonato il programma di liberalizzazione voluto dal grande capitale. Insistiamo sui capitali “privati”, che durante la crisi, continuano ad avere profitti, ricchezza e potere. È opportuno a questo punto tornare sulle risoluzioni delle conferenze mondiali, partendo dalla ripresa del Vertice di Doha dell’OMC: questi capitali hanno bisogno di libertà di circolazione per potersi appropriare delle risorse naturali. Anche se i grandi pensatori neoliberali tacciono è ancora ben presente l’obiettivo di liberalizzazione dei capitali su scala mondiale. Le previsioni sulla crisi sono diverse tra loro: ci sono quelle che pronosticavano una breve recessione nel 2007, nel 2008 e nel 2009; e poi quelle che annunciavano una durata molto più lunga. In queste condizioni la disputa politica per riuscire ad incidere sulle decisioni degli Stati capitalisti sarà gigantesca, così come accade con i milionari fondi di salvataggio destinati ai principali paesi capitalisti. Alludiamo alla dimensione politica messa in atto durante la crisi che coinvolge il potere del capitale e le illusioni sulla contenzione.

4. È possibile pensare altrnativamente? È da considerare anche l’esistenza di una dinamica alternativa che si sta sviluppando soprattutto in America Latina e nei Caraibi, resa manifesta dalle difficoltà degli Stati Uniti durante il Vertice dei presidenti americani, tenutasi a Trinidad e Tobago il 17 e il 19 aprile, in cui, oltre ai temi previsti, il punto centrale della discussione si è concentrato su Cuba, sul blocco statunitense e sull’espulsione cubana dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) nel 1962. In pochi giorni il tema è tornato a prendere corpo nella riunione tanto che è stata sospesa l’esclusione di Cuba dall’Organismo. Il tema è molto importante, aldilà dell’interesse cubano a rientrare in un contesto che ritiene inutile, poiché ha messo in luce l’incapacità degli Stati Uniti a sviluppare il programma del dibattito. È interessante tornare sull’accadimento diplomatico e politico nei “vertici presidenziali” dell’America, convocati dal 1994 dall’OSA. Nei primi due (Miami, 1994; Santiago del Cile, 1998) il programma prevedeva un dibattito sul libero commercio e sulla proposta di costruire una zona per il Libero Commercio in America, l’ALCA, con la resistenza delle popolazioni che hanno lavorato al Primo Vertice delle Popolazioni in Cile. Erano anni di egemonia neoliberale e di applicazione delle politiche definite dal Congresso di Washington: apertura dell’economia, privilegi al mercato prima degli interventi statali, il surplus fiscale e commerciale e la liberalizzazione dell’economia. Durante la terza riunione dei presidenti, un paese, il Venezuela, ha posto delle obiezioni alla dichiarazione finali e le strade del Quebec nel 2001, sede della riunione, si sono riempite di persone che manifestavano contro l’ALCA. La mobilitazione è riuscita a far cadere il segreto sul documento in discussione e ha reso fattibile una campagna continentale di forte dissenso e rifiuto, con l’obiettivo di creare proposte alternative all’integrazione regionale. Era già iniziato il cambiamento nella correlazione delle forze politiche che agivano nella lotta di classe continentale. Nel 2003, in Argentina, era previsto il quarto incontro, ma venne posticipato, a causa delle rivolte popolari locali, al 2005, quando a Mar de la Plata si sono incontrati e l’amministrazione statunitense ha cercato di riportare sul tavolo il tema dell’ALCA, ma venne ostacolata dagli appartenenti al MERCOSUR e dal Venezuela che non era più sola in questa lotta. La mobilitazione di strada, sviluppatasi negli ultimi anni, ha perfezionato il suo modo di agire proprio durante questo vertice, riuscendo ad articolare una resistenza popolare. Nel 2009, nel quinto incontro, non si è parlato più dell’argomento, né del libero commercio; la discussione si è incentrata totalmente sull’esclusione di Cuba. La dinamica dei movimenti sociali ha dato vita a una nuova situazione e si esprime attraverso cambiamenti politici che radicalizzano i loro obiettivi, tanto da poter sperare di arrivare a mettere in atto trasformazioni rivoluzionarie. Attraverso la lotta all’ALCA e al progetto neoliberale si è costruita la prospettiva di una integrazione alternativa. Per questo insieme ai cambiamenti politici nazionali nascono differenti proposte di integrazione, con livelli diversi di radicalità e confronto con l’ordine internazionale voluto dagli organismi internazionali e dai centri del potere capitalista mondiale. Si cercano alternative nell’ALBA, ossia l’Alternativa Bolivariana per le Americhe, (oggi detta alleanza Bolivariana per i popoli di Vuestra America) che oltre agli accordi tra i suoi paesi membri svolge altre funzioni: la gestione di una banca regionale e la nascita di una moneta regionale, il S.U.C.R.E., attualmente ora per le sole operazioni commerciali tra gli aderenti al sistema. In realtà, questo percorso intrapreso da diversi paesi è reso possibile grazie alle decisioni nazionali che indirizzano verso scelte anticapitaliste; questo avviene soprattutto nel caso venezuelano, boliviano ed ecuadoriano: paesi che, attraverso cambiamenti politici espressi nel rinnovamento costituzionale, portano avanti una transizione dal capitalismo al socialismo. Ci sono altre esperienze che arrivano dal Cono Sur dell’America, come quelle che lavorano alla modificazione del significato originario del MERCOSUR, nato agli inizi degli anni ‘90 in piena fase neoliberale, in cui la ristrutturazione del capitalismo era fortissima nella regione. Sono sorti forum di discussione, articolazioni parlamentari, fondi di promozione per riequilibrare le asimmetrie tra i paesi che lo compongono. Si sono aggiunti al MERCOSUR anche altri paesi oltre ai membri fondatori (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay); ultimamente il Venezuela ha sollecitato la sua entrata come membro a pieno titolo, cosa questa che non è stata ancora risolta per la discussione parlamentare del Brasile e del Paraguay. L’iniziativa di Caracas ha debilitato la Comunità Andina delle Nazioni e ha modificato la prospettiva di integrazione regionale, soprattutto dopo che, a maggio del 2008, è nata l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), che ha come obiettivo l’unificazione dell’America Latina. In questo senso risulta molto interessante la decisione di creare la Banca del Sud, per adesso ancora in fase di definizione dopo il primo atto sottoscritto nel dicembre del 2007 da sette paesi. I ritardi hanno accelerato la nascita della Banca dell’ALBA. Ci sono anche altre iniziative tra i paesi che fanno parte degli organismi menzionati (ALBA, MERCOSUR, CAN, UNASUR), a cui però partecipano solo alcuni: è il caso di Telesur, l’iniziativa di telecomunicazioni alternativa, partita nel 2005. Va ricordato l’accordo petrolifero tra Venezuela, Cuba e i paesi caraibici; l’iniziativa per una proposta energetica regionale, Petroamérica (Petrosur, Petrocaribe, Petroandina). Per non parlare delle tante iniziative di cooperazione: il Sistema di Pagamento in Moneta Locale, SML, in funzione dall’ottobre del 2008, tra Argentina e Brasile, con il fine di compensare con la moneta locale gli scambi commerciali, anche se si compensano in valuta, cosa diversa dal S.U.C.R.E. Questa esperienza vuole espandersi anche agli altri paesi del MERCOSUR. Vogliamo sottolineare che il dibattito nato in questi momenti di crisi capitalista, soprattutto in America Latina e nei Caraibi, vuole favorire l’uscita capitalista dalla crisi oppure critica il capitalismo in crisi e tenta di rallentare la ricerca di politiche adeguate in funzione della transizione verso una società non capitalista. Un esempio sono le discussione sulle nazionalizzazioni avvenute in molti paesi. L’Argentina ha nazionalizzato la compagnia aerea Aerolíneas Argentinas e il sistema di Amministrazione dei Fondi Pensione. Il Venezuela ha nazionalizzato il complesso sidero-metallurgico, danneggiando, tra l’altro, gli interessi imprenditoriali di Technit, una multinazionale che fa molti affari in Argentina; essa è la principale fornitrice di strumenti per l’industria petrolifera mondiale e agisce come un’impresa nazionale argentina, anche se ha la sua sede nel paradiso fiscale in Lussemburgo e svolge le sue assemblee annuali in Italia. Buenos Aires ha capito subito che le nazionalizzazioni sono transitorie e in nessun modo riescono a danneggiare il carattere capitalista dello sviluppo, mentre Caracas promuove il “controllo operaio” nel segno della costruzione del Socialismo del XIX Secolo. Sono orientamenti differenti ed entrambi contribuiscono alla costituzione di soggetti e articolazioni politiche per una diversa strutturazione e modalità capitalista o per un carattere anticapitalista. In realtà, questo è un dibattito che va oltre la dimensione latinoamericana e caraibica. Se abbiamo concentrato tutta la nostra analisi su questo territorio è dovuto alle aspettative di cambiamento che danno vita alle trasformazioni politiche attuate negli ultimi due decenni, soprattutto grazie a quei governi che, durante il primo decennio del XXI secolo, hanno messo in discussione l’ideologia neoliberale. È un periodo, quello che va dalla fine del 2004, che coincide con la formulazione dell’obiettivo socialista, grazie al cammino intrapreso dalla Rivoluzione Bolivariana in Venezuela che ripropone il socialismo come via politica per la regione e per il mondo intero. È una prospettiva che si confronta con il progetto imperialista, con l’illusione neo-keynesiana o neo-sviluppista di coloro che vorrebbero la reiterazione di un ciclo del capitalismo orientato da politiche progressiste. Ribadiamo che la fase keynesiana precedente (1930/1945; 1975/1980) era condizionata dalla spinta rivoluzionaria ispirata dal pensiero marxista e dalla pratica rivoluzionaria della prima metà del XX secolo. Con la sconfitta degli anni ‘90 si è aperta una nuova fase che, nelle condizioni della crisi capitalista attuale e di cambiamento politico latinoamericano e caraibico, fa ben sperare per un cammino anticapitalista e socialista. È una dinamica che si sta sviluppando all’interno di molti paesi, avendo anche la possibilità di entrare in contatto con altri processi sociali e politici in altre parti del mondo; è ovvio che per fare tutto ciò è necessario formare una collettività che alimenti la resistenza al progetto proprio della classe dominante, che costruisca un programma socialista e che dia vita a una forza politica in grado di intraprendere il cammino rivoluzionario. Sono tre premesse che attraversano il dibattito della sinistra contemporanea. La prima è la resistenza e la costruzione di soggetti coscienti, ossia una questione importantissima quando le politiche anti-crisi, oltre ai discorsi, vengono scaricate sulle spalle dei lavoratori che perdono il lavoro o parte del salario. La formazione di soggetti coscienti è la prima condizione per far s’ che si affermi il processo socialista. La seconda premessa definisce il significato della lotta per i lavoratori e per le popolazioni coinvolte; è un significato che non può iscriversi nelle aspettative riformiste del regime del capitale, poiché si fonda sullo sfruttamento. Lo Stato capitalista sia nella creazione del capitale che nella disputa al suo interno per l’orientamento di politiche pubbliche, è un apparato per restaurare il regime capitalista in crisi. Però, anche con soggetti coscienti della lotta e del progetto socialista nella prospettiva di un’azione collettiva, risulta imprescindibile la costruzione di una forza politica. È questo uno dei punti di debolezza della sinistra globale che si esprime nel degrado politico della proposta delle sinistre storiche e nella ricerca di strumenti adeguati per la costruzione di processi con pretese rivoluzionarie, in Latino America e nel resto del mondo. A proposito di quanto detto, Atilio Borón7 afferma che:

“... è necessario chiarire che non basta una crisi di questa natura per far distruggere il sistema capitalista. Lenin lo ha detto nel 1917: il capitalismo non cadrà da solo, cadrà se ci sarà una forza sociale in grado di annientarlo. Possiamo avere anche una crisi molto grave, però se non esiste un soggetto storico che porti avanti la rivoluzione, la rivoluzione non si fa. E quindi, arriverebbe la barbarie, quella vecchia contraddizione, che rese popolare Rosa Luxemburg, tra socialismo e barbarie. O c’è una soluzione socialista alla crisi o l’uscita dal capitalismo sarà comunque un’uscita reazionaria, militarizzata, di criminalizzazione della protesta sociale”.

La Rivoluzione e il Socialismo sono proposte che vengono rilanciate con la crisi capitalista.

Traduzione di Violetta Nobili

1. Impresa fondata negli Stati Uniti nel 1865. La sede centrale si trova a Minneapolis [N.d.T.]. 2. La Deere & Company è un’impresa fondata nel 1837 [N.d.T.]. 3. Il termine fa riferimento al governo socialista che diresse Parigi dal 18 marzo al 28 maggio 1871 [N.d.T.]. 4. Il Caracazo o Sacudón è il nome dato ad una serie di violente proteste avvenute in Venezuela durante il governo di Carlos Andrés Pérez. Gli scontri hanno avuto inizio nella città di Guarenas, vicino Caracas. [N.d.T.]. 5. CEPAL: Commissione economica per l’America Latina e per i Caraibi [N.d.T.]. 6. La conferenza di Bretton Woods - che si tenne dal 1° al 22 luglio 1944 nell’omonima cittadina dello Stato del New Hampshire, USA - stabilì regole per le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo [N.d.T.]. 7. Professore nella Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Buenos Aires, ricercatore nel Consiglio Nazionale delle Ricerche Scientifiche e Tecniche e giornalista [N.d.T].