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L’identità negata e l’identità creata nel bel libro di Cinzia Nachira
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L’identità negata e l’identità creata nel bel libro di Cinzia Nachira

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1. I presupposti della ricerca e dell’analisi

La specificità della ricerca storica e dell’analisi che Cinzia Nachira propone nel suo lavoro “Identità e conflitto - Il caso israeliano-palestinese” (Shahrazad Edizioni), sta nella capacità di mettere a fuoco un aspetto che ben pone in luce, nella sua postfazione al libro, Michael Warchawski: a fronte di qualunque semplificazione legata a uno scenario che vede da una parte un movimento coloniale e dall’altra un popolo colonizzato in lotta per la sua indipendenza, nel caso israelo-palestinese «ciò che fa della soluzione di questo conflitto una posta in gioco complicata, è l’identità degli attori». E’ attorno a questo nodo che si articola quella che Edward Said definisce «una storia di estremi, di opposti in senso hegeliano»; ed è attorno a questo nodo che Cinzia Nachira raccoglie e cita le sue fonti, scandendo così le tappe di un percorso storico. Proprio perché, come afferma l’autrice, è «impossibile guardare alle dinamiche storiche, pur vivendole nel corso del loro sviluppo, come a dei compartimenti stagni», ogni tentativo di comprendere a fondo il conflitto israelo-palestinese non può prescindere dalla comprensione del contesto entro cui nasce e si sviluppa il sionismo come movimento politico e progetto coloniale. A partire dalla «cesura culturale introdotta dalla Prima Guerra Mondiale, dalle “nuove” concezioni di “nemico totale” e dalle teorie razziste su cui si basano il colonialismo e l’imperialismo», il sionismo come movimento politico non nacque con l’appoggio delle masse ebraiche d’Europa; «il sionismo», come afferma Hannah Arendt, «non è mai stato un vero movimento popolare». Al contrario, la sua base sociale, a cominciare dalla nascita di un’intellighentia ebraica che nel XIX secolo si faceva espressione di una cesura generazionale, fino alla fondazione dello Stato d’Israele e di lì ai giorni nostri, è sempre stata al suo interno complessa e contraddittoria nei suoi riferimenti identitari.

«[...] mentre l’identità israeliana [...] si struttura sulla negazione dell’esilio, soprattutto cercando una soluzione a questo imperativo di difficile raggiungimento attraverso la propria collocazione nell’alveo del colonialismo europeo, lo stesso settore ebraico-israeliano della società israeliana è ben lungi dal poter essere amalgamato, ancora oggi, rispetto all’obiettivo di costruzione identitaria imposta dal Sionismo». La mancanza di una costruzione identitaria armonica, mancanza che secondo Cinzia Nachira è «la vera base tanto della crisi della stessa società israeliana quanto dello scontro, violento e mortale, con il popolo palestinese», sta nel mancato superamento, nella coscienza collettiva ebraica, di una definizione nazionale che «è fondata sulla coniugazione di teologia e colonialismo». Sarà anche per questo motivo che tra le conclusioni cui giunge l’analisi di “Identità e conflitto” c’è la constatazione che «il progetto coloniale sionista è un progetto sociale complessivo che non può essere disarticolato dall’interno [...] questa disarticolazione, infine, non può che passare attraverso la messa in discussione dello sfondo politico, sociale e culturale che ne ha consentito lo sviluppo».

La storia della costruzione della società israeliana è anche la storia dell’internamento di migliaia di immigrati che ne avrebbero costituito il «capitale umano»; ed è la storia dello sfruttamento di quegli ebrei arabi che andavano a costituire forza-lavoro a basso costo subendo su di sé gli stessi effetti derivanti dall’ «apparato colonizzatore sionista». La Histadrut, il sindacato di riferimento del partito laburista al potere all’indomani della proclamazione dello Stato, lungi dal garantire la difesa dei diritti dei lavoratori sfruttati era «parte integrante del sistema economico israeliano», e agiva affinché «la politica di inglobamento del capitale da parte dello Stato [...] fosse sempre sotto il controllo del partito di governo». E’ dunque dalla sua fondazione che il rafforzamento dell’apparato statale israeliano ha sempre ruotato attorno al consolidamento di un’economia “di guerra”, incentivata ed alimentata fino ad oggi da un flusso continuo di investimenti esteri e di finanziamenti, come quello che ogni anno viene erogato dagli Stati Uniti per circa 3 miliardi di dollari. Un rubinetto che nemmeno l’apparente impegno del democratico Obama per il “piano di pace” minaccia oggi di chiudere. Quale il ruolo della religione? Ben Gurion e l’establishment sionista ne fecero, attraverso un patto con i religiosi e i tradizionalisti, il collante di una situazione sociale esplosiva e contraddittoria. In tal senso si intende il sionismo come un movimento non di recupero di un’identità etnico-religiosa, ma come movimento politico sostenuto peraltro dai paesi imperialisti. E’ in questo quadro che le alleanze della leadership sionista, prima con la Gran Bretagna e poi con gli USA, fanno propri gli interessi ottenuti dalla colonizzazione dell’area e, negli anni, dalle mire imperialistiche delle potenze occidentali e dalla strategia di controllo complessivo delle risorse energetiche che vanno dall’Arabia Saudita al Kazakistan, dall’Iraq al Pakistan. Proprio quegli interessi economici, militari e strategici che Israele condivide con il mondo occidentale hanno garantito fino ad oggi l’immunità-impunità ad uno Stato, come quello israeliano, che sull’ apartheid, sul furto delle risorse dei territori occupati e sull’ aggressione militare ha basato la sua politica interna ed estera; e proprio in nome di quegli interessi strategici assistiamo oggi al mantenimento di un sistema di appoggio al progetto coloniale sionista che a livello internazionale ha portato alla stipula di numerosi accordi di cooperazione nel campo economico-commerciale, militare e scientifico-tecnologico che continuano a rendere gli USA e gran parte dei paesi dell’Unione Europea (compresa l’Italia, il cui panorama politico ha sempre sostenuto trasversalmente la politica israeliana), complici più o meno silenziosi dell’occupazione della Palestina. Una data rappresenta secondo Cinzia Nachira una «vera e propria svolta epocale [...] che coinvolgerà tutti gli attori in campo, i palestinesi, gli israeliani, i Paesi arabi e il contesto internazionale»: il 1967, anno in cui con la Guerra dei Sei giorni Israele occuperà ampie porzioni di territori palestinesi con il controllo su una popolazione molto numerosa. Occorreva decidere fra il carattere ebraico (rifiutando la cittadinanza ai palestinesi) o il carattere democratico dello Stato di Israele. Questione bypassata dalla soluzione dello «Stato a maggioranza ebraica preponderante sul piano nazionale e democratico, sul piano politico, sociale e culturale» previsto dal piano del laburista Allon; questione oggi “dimenticata” dall’attuale governo della cosiddetta “ultradestra” israeliana, che per bocca del suo Ministro degli Esteri, il razzista Avigdor Liebermann, e del suo Primo Ministro Benjamin Netanyahu, pretende il “riconoscimento” da parte dei cittadini arabo-israeliani del “carattere ebraico” dello Stato di Israele. E’ in questo senso che oggi la natura dell’identità israeliana resta discriminante rispetto all’obiettivo di una pace che sia anche, inequivocabilmente, giusta.

2. 1967: l’equivoco Proprio dal 1967 prende piede un «equivoco di fondo» che, invertendo la causa e l’effetto, «tende a collocare l’inizio della colonizzazione con la guerra del giugno 1967 [...] In altri termini , si dice: se Israele non avesse occupato i territori di Gaza, Cisgiordania, Golan Siriano e Gerusalemme Est [...] la democrazia israeliana non sarebbe stata intaccata nella sua “giustizia di fondo”». Vero è che “vedere” gli arabi produsse una cesura, a 19 anni dalla Nakba: si prese «coscienza dell’esistenza dell’Altro, che poneva il problema del che fare». Negli ambienti “progressisti” israeliani ci si interrogò sul senso di “destra” e di “sinistra”, come fece Israel Shahak sulla rivista Matzpen: «quali sono le vere forze di opposizione? Ossia, [...] con chi si può e si deve cooperare?». Ci si pose queste domande in un’epoca in cui «le lotte di liberazione nazionale che attraversavano gran parte del mondo coloniale, portavano una generazione di giovani, nati nell’immediato secondo dopoguerra, a prendere coscienza del proprio “essere colonizzatori” spingendoli ad un impegno diretto». Ma proprio a partire dall’equivoco di fondo che Cinzia Nachira indica come prima conseguenza della “svolta” del ’67, a caratterizzare il dibattito interno a «ogni sorta di organizzazioni progressiste”, “socialiste” o “rivoluzionarie”» c’era una «doppia morale»: si criticava il fatto che l’occupazione “snaturava” l’immagine del progetto sionista e insieme ci si rifiutava di collaborare con gli arabi per un obiettivo comune, in sintesi «l’approccio verso Israele era [...] tutto interno alla vulgata dominante». Non si smise di dare «per scontato che il destino del giovane Stato dovesse essere quello di uno stato di perenne autodifesa». E così fu unanime l’appoggio internazionale, anche a livello di opinione pubblica, nei confronti di uno Stato in cui l’esercito è la «colonna vertebrale dell’intera società». Emblematico diventa il carteggio «tra pubblico e privato» fra Ralfh Miliband e Marcel Liebman, che tra il maggio e il luglio del ’67 mette sul piatto gli interrogativi che all’epoca poteva porsi chi, come il primo, da ebreo e socialista, sentiva profondamente di potersi esimere da una «solidarietà aprioristica» all’occupazione, o chi, come il secondo, rifletteva su ciò che aveva significato l’impegno al fianco della lotta di liberazione algerina: «per gli uomini di sinistra in Francia, l’affare algerino è stato fondamentale e ha permesso di contarsi e soppesarsi. E non dimenticherò che tutti i pro-israeliani di sinistra (iniziando dai rappresentanti ufficiali del Mapam) non hanno voluto fare alcunché per aiutare gli algerini. Né politicamente, né umanamente». Gli anni successivi al ’67 videro, da un lato, il consolidamento dell’economia israeliana e la stabilizzazione dell’appoggio internazionale, dall’altro l’esplosione delle contraddizioni latenti. Quest’ultimo fattore portò alla nascita di quel «flusso dissidente» che produsse esperienze ancora oggi attive, come quella del gruppo Matzpen o, successivamente al 1982, il fenomeno dell’obiezione di coscienza tra le file dell’esercito di occupazione israeliano. Ma vide anche la deriva cui giunse quella che Cinzia Nachira definisce la «generazione di Oslo», cioè quella parte del movimento per la pace secondo cui, come affermano Warschawski e Sibony, «la lotta contro l’occupazione e per la pace israeliano palestinese si è conclusa il giorno in cui Ytzhak Rabin ha accettato di stringere, con aria imbarazzata, la mano a Yasser Arafat». Di fatto, l’“istituzionalizzazione dell’occupazione” conseguente alla ratifica degli Accordi di Oslo nel 1993, ha portato alla nascita della cosiddetta “lobby della pace”, cioè di quella parte del movimento della solidarietà internazionale al popolo palestinese che oggi aderisce acriticamente alla logica dell’equidistanza, o “equivicinanza”. Un atteggiamento che non fa che favorire evidentemente chi ha, dalla sua, il potere militare e l’appoggio internazionale.

3. L’identità negata Ma ogni analisi sulla nascita e lo sviluppo del sionismo non può viaggiare separatamente da un altro interrogativo altrettanto fondamentale: «la coscienza nazionale palestinese si forma in risposta al movimento sionista che si fa Stato?». Sulla scorta di una riflessione di Elias Sanbar, Cinzia Nachira afferma che «l’identità negata dei palestinesi, il suo riemergere, si intreccia con l’identità costruita ad arte e, questa sì funzionale ad un progetto politico, della comunità ebraica di Palestina, che dal 1948 diventa nazione, privilegio negato ai primi». Ma l’identità nazionale palestinese è anche la storia della resistenza, che diede vita nel 1936 al «più lungo e duro sciopero della storia» antibritannico e antisionista, poi alla rivolta armata, fino all’essere uccisi non perché si combatteva ma perché si restava nelle proprie case: «la resistenza dei palestinesi, che come nel caso del 1967 era rappresentata dal solo fatto di non fuggire dalle proprie case come nel 1947, fu l’elemento che pose in primo piano la vera natura dello scontro». D’altro lato il popolo palestinese si trovò a dover pagare il prezzo di una direzione politica la cui doppiezza era fonte di aspre discussioni all’interno dello stesso movimento di liberazione e che non avendo una chiara strategia perdeva di vista la barra degli obiettivi. Attualmente la lotta per l’autodeterminazione palestinese paga il prezzo di una strategia più che chiara della leadership al potere, rappresentata dall’Anp di Abu Mazen e dalla dirigenza di Al-Fatah (riconfermata in gran parte dopo l’ultimo Congresso), la quale sulla svendita delle rivendicazioni storiche sta basando i “colloqui di pace” con l’occupante; tale svendita ha portato al consolidamento dei settori della resistenza direttamente legati all’ “Islam politico”, quindi all’ascesa di Hamas, e all’ulteriore separazione politico/territoriale tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, che dividendo tra loro i palestinesi non fa che rafforzare l’agibilità del progetto coloniale sionista. Di certo nel graduale ritiro dalle posizioni più “massimaliste” e nell’adesione del movimento palestinese alla “piattaforma del ‘67”, ossia alla “rinuncia” alla liberazione di tutta la Palestina, pesa un dato: «nessun accordo che sia stato negoziato fra israeliani e palestinesi, a partire dagli accordi di Oslo del 1993, è mai stato sottoposto alla consultazione del popolo palestinese». Anche come conseguenza della “debolezza” e frammentazione politica di cui sopra, ogni ragionamento sull’ipotesi dello Stato Unico resta oggi limitato al livello di pochi intellettuali e degli attori politici più attenti, senza essere ancora adottato come obiettivo strategico della politica e della resistenza palestinesi. L’indagine approfondita sulla nascita e l’evoluzione delle due identità, palestinese e israeliana, ci offre oggi la possibilità di trovare una chiave di lettura il più possibile realistica della complessità insita nel «sanguinoso circolo vizioso di occupazione-resistenza-repressione» legato alla questione israeliano-palestinese, e di definire una piattaforma valida per l’attività della solidarietà internazionalista di contrasto al colonialismo sionista e all’imperialismo occidentale. Perché anche a partire dalla seconda Intifada, e passando per l’11 settembre 2001, la costruzione del Muro e l’ampliamento delle colonie, l’attacco israeliano del 2006 al Libano, e a Gaza, ancora adesso sotto assedio; fino ad arrivare alla cosiddetta “Operazione Piombo Fuso” perpetrata in nome del continuo finto-alibi della difesa, alle grandi manifestazioni nel mondo al fianco del popolo palestinese, e all’assenza di un impegno concreto per il diritto al ritorno dei milioni di profughi, «nelle storie collettive di ebrei e palestinesi [...] dal momento dell’avvio alla conquista coloniale sionista» ancora non c’è «nulla di simmetrico».