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TEORIA E STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO PER INDAGARE SUI PROCESSI DI TRANSIZIONE

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I doveri futuri.Crisi del capitale e transizione al socialismo

ISTVAN MESZARÓS

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Domanda: “In “Beyond the capital” lei analizza il continuo aggravarsi della crisi capitalista e parla di una possibile fine del genere umano. Questa crisi economica globale può segnare un cambiamento qualitativo verso questa direzione?”

Mészáros: “L’attuale crisi è sicuramente molto grave e in un certo senso differente da quelle scoppiate anni fa. Possiamo dire che ha mantenuto la stessa struttura che abbiamo sperimentato sin dalla fine degli anni ’60 o agli inizi dei ’70, ma è diversa nel senso che ora la crisi è davvero globale. Io sono sempre stato convinto che quanto successe durante il Maggio parigino del 1968 sia stato l’inizio della crisi strutturale. Alla fine del 1967 - in una conversazione con il mio amico Lucien Goldman, che in questi giorni continua a credere, come Markuse, che “il capitalismo organizzato” risolverà i problemi delle “crisi capitaliste” - io dissi che la fase peggiore della crisi deve ancora venire, è davanti a noi. Il cosiddetto “capitalismo organizzato” non ha mai risolto le crisi. Al contrario, affermavo al tempo, la crisi che stiamo per vivere sarà molto più grave di quella che ha provocato la Grande Depressione tra il 1929 e il 1933, poiché il suo carattere è davvero mondiale”. Ho sempre contrapposto duramente la crisi strutturale del capitalismo con le crisi economiche e cicliche del passato. Il periodico sopraggiungere di crisi cicliche è una caratteristica predominante dello sviluppo congiunturale del capitalismo. Però, nella nostra epoca storica, dobbiamo parlare di una crisi più profonda - unitasi alle crisi cicliche - che colpisce tutte le forme capitaliste, non solo il sistema capitalista. La crisi strutturale fa emergere i limiti del capitale come un modo di riproduzione metabolica sociale. Per questo il sistema capitalista di tipo sovietico - che non va confuso con l’estrazione economica del surplus lavorativo - è imploso sotto le crescenti contraddizioni dello sviluppo globale. Questo aspetto deve essere messo in evidenza soprattutto per evitare le illusioni più negative e i conseguenti vicoli ciechi del passato, così da riuscire a portare avanti le grandi sfide del nostro futuro. In Beyond Capital ho affermato che “la modalità di estensione” della crisi strutturale “dovrebbe essere chiamata strisciante - in contrasto con le più spettacolari e drammatiche crisi del passato -, inoltre le condizioni più violente non possono essere escluse: il complesso macchinario coinvolto nella ‘crisi dell’amministrazione’ verrà sostituito dalle contraddizioni”2. Le drammatiche manifestazioni dell’attuale crisi - dai cosiddetti “scioperi selvaggi” nelle zone più avanzate del capitalismo, alle rivolte per il cibo avvenute in 35 paesi, il tutto riportato da un organo dell’establishment come The Economist - indica che le risposte alle grandi masse di persone colpite gravemente dalla crisi finanziaria sono state smentite dal buon senso capitalista del recente passato. Dai lavoratori, bloccati dai limiti difensivi delle loro organizzazioni - strettamente legate ai sindacati e ai partiti - venivano attese per agire come “una gattina che faceva le fusa” e non in modo selvaggio. I cosiddetti “scioperi selvaggi” (e i relativi scioperi in solidarietà) sono stati resi illegali dalla legislazione Thatcher e le leggi anti-sindacati non sono state solo mantenute ma sono state rese ancora più severe dal governo “New Labour”. Quindi, possiamo dire che la crisi è differente nel senso che ha iniziato a produrre risposte radicali su vasta scala. Allo stesso tempo, le misure adottate, con dubbi risultati, dai governi capitalisti dominanti - partendo dalla nazionalizzazione del capitalismo in bancarotta attraverso somme di miliardi di dollari - rendono evidente che nulla potrebbe essere più assurdo che descrivere l’attuale crisi come un normale ciclo di crisi della produttività, risolvibile nel giro di pochi anni, così come i “pugilatori a pagamento” del capitale (con le parole di Marx) continuano a caratterizzarla. L’attuale crisi è strutturale poiché è impossibile arginarla anche con le operazioni finanziarie adottate dai governi. Di conseguenza, la grave crisi strutturale del sistema - oltre al fallimento dimostrato dalle misure militari e finanziarie - rende ancora più probabile l’auto-distruzione umana. A causa di questi pericoli, falliranno anche le forme e gli strumenti di controllo. Non deve sorprendere, quindi, che il potere imperialista dominante, ossia gli Stati Uniti, ha rivendicato apertamente “il diritto morale” ad usare armi nucleari ogni qual volta lo decideranno, anche contro quei paesi non armati a livello nucleare.

Domanda: “Esiste una soluzione capitalista per la crisi (attraverso misure di stampo neo-keynesiano, come la regulation e il protezionismo)? Cosa ne pensa delle affermazioni di alcuni Governi (come quello di Lula) per cui sarebbe possibile mantenere alcuni paesi al di fuori del caos?”

Mészáros: Una delle incomprensibili illusioni di auto-distruzione da cui guardarci è qualsiasi forma di neo-keynesismo, anche il cosiddetto keynesismo di sinistra. Le speranze di un suo ritorno sono incomprensibili poiché corrispondono alla linea di minima resistenza che il capitalismo potrebbe accettare temporaneamente, a causa delle gravi circostanze. Il capitale è pronto ad adottare le misure dello Stato keynesiano interventista per ristabilire i sistemi precedenti fino a tornare allo status quo. I portavoce dei leaders del capitalismo stanno apertamente richiedendo la nazionalizzazione di alcune tra le maggiori banche e sono anche impegnati nel rafforzamento delle suddette proposte in una forma consona ai loro interessi. A dire il vero, in Gran Bretagna hanno da poco istituito la più ipocrita forma di “nazionalizzazione” per quasi tutte le grandi banche in bancarotta. Questi portavoce hanno aggiunto, senza vergogna, che “le banche ricapitalizzate del settore pubblico ritorneranno presto nel settore privato”. Lo possono dire apertamente perché, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, hanno nazionalizzato le banche in fallimento per poi “ri-privatizzarle” grazie alle ingenti risorse pubbliche. E sono convinti di poterlo fare nuovamente nel momento in cui la crisi finisca. Per la verità non stanno sbagliando totalmente con le loro disposizioni “pro-keynesiane”. Questo perché i loro strumenti dipendono dalle organizzazioni della classe lavoratrice. Storicamente le opportunità promesse per una trasformazione radicale non avvengono ogni tanto ma possono anche fallire. A questo proposito ho scritto in un articolo - pubblicato dapprima in Brasile nel 1983 e ripubblicato nella Parte 4 di “Beyond the capital” - che: “i tempi delle più grandi crisi economiche aprono delle considerevoli brecce nell’ordine stabilito. Queste fratture si possono allargare, ad esempio nel servizio della ristrutturazione sociale o possono durare per poco o per lungo tempo nell’interesse della sopravvivenza del capitalismo che dipende dalle circostanze storiche e dalle relazioni di forza nella scena politica e sociale... Comunque, sin dall’inizio le manifestazioni della crisi sono state di tipo economico: l’inflazione, la disoccupazione, la bancarotta delle industrie locali e di quelle commerciali e il potenziale collasso del sistema finanziario internazionale; la pressione esercitata dalla base sociale ha portato a definire le risposte economiche più urgenti. Le definizioni economiche di ciò che sia doveroso fare così come ciò che può essere fatto in questa situazione di “emergenza economica” - degli esempi sono: “stringere la cinghia”, “accettare i sacrifici necessari”, “creare lavoro vero”, “investire in nuovi fondi finanziari”, “favorire la produttività e la competitività”, ecc. - hanno imposto la premessa sociale dell’ordine stabilito (in nome degli imperativi economici) sull’iniziativa politica socialista favorita dalla crisi, per la la nuova adozione di politiche economiche sociali. Di conseguenza, la ristrutturazione potenziale delle politiche rivoluzionarie è stata annullata, oltre ad essere stata dissipata nel corso della lotta con i compiti economici - indipendentemente dai costi dei suoi supporters - all’interno della struttura portante del sistema; perciò, come un’amara ironia, finisce con il rivitalizzare il capitale contro le intenzioni originali. Quindi, per portare a termine questo obiettivo i politici più radicali devono trasferire al vertice della crisi le loro aspirazioni - come effettivi poteri decisionali a tutti i livelli e in tutti i settori, incluso quello economico - verso il sociale da cui vengono emanate le domande politiche. Questo è l’unico modo in cui i politici radicali potranno sostenere le loro strategie, al posto di combatterle. Il trasferimento del potere politico, che incide sulla struttura socio-economica, è praticabile solo con una gravissima crisi strutturale: le tradizionali promesse del metabolismo dominante socio-economico devono essere messe in discussione... Comunque, se la messa in discussione rimane all’interno dei confini strettamente istituzionali dell’azione politica, sarà sconfitta dal riemergere delle istituzioni economiche e politiche passate. L’alternativa è l’utilizzo delle potenziali politiche socialiste per tornare agli obiettivi radicali di una dimensione sociale duratura. E bisogna farlo affermando e diffondendo lo stesso potere fugace come un effettivo trasferimento di poteri al settore dell’auto-funzionamento di massa.”3 Stiamo vivendo in un periodo storico caratterizzato da una crisi strutturale che potrebbe aprire una breccia nell’ordine stabilito, poiché questo ordine non è più adatto a garantire il necessario. Anche oggi i rimedi neo-keynesiani alla crisi possono solo arginare la rottura e rivitalizzare, temporaneamente, il capitale nell’interesse della sua sopravvivenza, così come è avvenuto nel periodo post-bellico dell’espansione del capitale keynesiano. Questo è lo stato delle cose, non importa come vengano intesi i pensieri di alcune persone - in contrasto con il cinico calcolo dello Stato interventista - che continuano a difendere anche dopo quanto sperimentato e dopo il fallimento della prospettiva della classe lavoratrice e delle politiche di ridistribuzione sociale della “sinistra keynesiana”. In modo rivelatore, nelle attuali condizioni di crisi del capitale, i lavoratori sono indotti - dai loro stessi rappresentanti sindacali in Gran Bretagna - a non citare il “loro” Nuovo Partito Laburista - in accordo con i concetti di “stringere la cinghia” e “accettare i sacrifici necessari” oltre ai salari congelati per due anni, per non parlare dei tagli - nell’interesse di ristabilire il sistema, attraverso vaghe promesse di miglioramento per il futuro. Nello spirito di questa linea difensiva dell’approccio laburista le possibilità di istituire un cambiamento strategico sono pressoché trascurate. Tutto è lasciato a una generica speranza nel futuro che non si potrà mai avverare se le reali opportunità di una monumentale crisi sociale ed economica non verranno prese in considerazione. In realtà, le inconsistenti “riforme redistributive” (anche quelle della sinistra keynesiana) non hanno mai - e non avrebbero - potuto funzionare all’interno dei confini del sistema capitalistico. Sono state promesse molte cose, mai portate a termine. Anche il più fedele sostenitore dell’ordine stabilito, Martin Wolf - editore associato del londinese Financial Times - ha dovuto ammettere che le disuguaglianze tra i paesi ricchi e quelli poveri sono aumentate drammaticamente nella fase capitalista e globalizzata. “Oggi questa proporzione è 75 a 1. Un secolo fa, era circa 10 a 1. In mezzo secolo, potrebbe facilmente arrivare a 150 a 1”4. Attualmente questo secolo di disuguaglianze ha preso piede su vasta scala, a dispetto delle infinite promesse di eliminazione o quanto meno di riduzione. L’intero secolo comprende gli otto anni della difesa keynesiana caratterizzati da grandi azioni riparatrici. In contrasto con le fantasie neo-keynesiane, ciò di cui si ha bisogno è un fondamentale cambiamento strutturale. Per la stessa ragione di un inevitabile fallimento in assenza di un reale cambiamento strutturale, io sono scettico a proposito dell’idea di “de¬linking” del passato e del presente del keynesismo. Non possiamo seriamente credere che l’urlo: “Fermate il mondo, voglio scendere”, possa produrre le soluzioni richieste. La globalizzazione capitalista, non importa quanto dannosa possa essere, è l’attualità e l’oggettiva necessità dello sviluppo storico del sistema capitalista, inseparabile dalle sue intime determinazioni strutturali utilizzate come un modo di controllo della riproduttività sociale. La tendenza dinamica del sistema per l’invasione globale è stato ben descritto da Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista del 1848. Quindi il “delinking” potrebbe nelle migliori delle ipotesi essere usato come una misura difensiva temporanea anche nel caso di un paese grande come il Brasile. Il grave problema che abbiamo di fronte in questa congiuntura storica non è la tendenza obiettiva dell’integrazione economica dell’umanità ma l’aspetto ancora più distruttivo della globalizzazione monopolista e imperialista. Solo questo tipo di globalizzazione è adatta al sistema capitalista. Questo significa che ciò che è in gioco nelle attuali condizioni della crisi strutturale del capitale non è un semplice modo di escogitare misure difensive e protettive contro il dominio finanziario dei principali paesi capitalisti. Questo equivale solo a una difesa ingenua per offrire regolamentazione contro gli eccessi, facendo rimanere di fatto la situazione come prima. Potrà avere successo perché l’inevitabile e difficoltoso problema è la radicale trasformazione delle determinazioni del capitale come un modo per ultimare il controllo auto-distruttivo della società. Di conseguenza, anche se l’operazione del campo “delinked” non sia fattibile, potrà risentire gli effetti così come avviene nel resto del mondo senza cambiamenti del sistema. Naturalmente, la combinazione regionale delle forze anti-imperialiste latinoamericane è un aspetto assai differente. Non può essere difeso solo con la legittimità, ma va sostenuto con determinazione inflessibile. E una strategia non può essere descritta attraverso l’insostenibile termine difensivo “delinking”. A proposito del suo successo o del suo fallimento, questi dipendono dalla sua abilità militare, non da un immaginario “altrove” ma all’interno delle strategie offensive. In questo senso la strategia in questione potrebbe sfidare i limiti del sistema finanziario capitalista che è stato dominato, per troppo tempo, dagli Stati Uniti e dal resto del mondo che sostiene debiti astronomici.

Domanda: “Poco tempo lei ha affermato che gli Stati Uniti stanno rendendo esecutiva la credit card dell’imperialismo. Cosa intendeva? Quali saranno, secondo lei, i cambiamenti economici e politici nella configurazione globale imperialista dopo la crisi?”

Mészáros: Le credit card dell’imperialismo sviluppate dagli Stati Uniti non sono una novità. Il Senatore Macgovern le ha criticate, anche se non ha usato la stessa espressione, già al tempo della guerra in Vietnam, dicendo che “stiamo conducendo questa guerra attraverso una carta di credito”. Oggi, la differenza è data “solo” dall’aumento della somma e il debito degli Stati Uniti è astronomico. E a dispetto di tutto ciò, le guerre imperialiste statunitensi continuano implacabili, ignorando completamente il fatto che non possono essere sostenute senza l’apporto del resto del mondo, compresa - in senso ironico ma farebbe comumque rivoltare Mao Tse-Tung nella tomba - la Cina. Il Presidente Obama ha recentemente annunciato che ridurrà del 50% l’1.3 miliardi di dollari annuali del deficit del bilancio durante i primi quattro anni del suo mandato. E, curiosamente, ha chiesto al Congresso, allo stesso tempo in cui ammetteva la riduzione del 50%, di approvare per il primo anno della sua Presidenza un deficit di 1.7 miliardi di dollari!!! Non è un grande inizio per le promesse presidenziali di Obama. Specialmente per il fatto che il deficit di bilancio del Governo statunitense è solo una delle tre dimensioni croniche - difficili anche da immaginare - del debito americano, oltre all’indebitamento collettivo e individuale. A questo rispetto è evidente quanto siamo aggravati dai problemi del sistema che non possono essere risolti all’interno dei confini del sistema capitalista. Per l’imperialismo non è una semplice questione delle relazioni capitaliste tra stati - insieme nelle guerre - che potrebbero abbandonare l‘umanità grazie alle “amicizie” di qualche “politico illuminato”. Al contrario, l’attuale potere egemonico imperialista è un sistema oggettivo del capitale in un’epoca di sviluppo. Quindi è assolutamente incorreggibile all’interno del sistema stesso. Il fatto che adesso non siamo coinvolti in una Guerra Mondiale è perché ora una competizione bellica del genere distruggerebbe l’intera umanità, lasciando il mondo in mano agli scarafaggi. Se non rimuoviamo le cause sistemiche che portano alla guerra, non possiamo avere la certezza di evitare una guerra mondiale di portata devastante. Quindi, proprio come un aspetto del passato storico, l’umanità non ha mai inventato macchine belliche di distruzione da usare con cattiveria o su scala proporzionata al suo potenziale. Infatti, i fervidi sostenitori della guerra parlavano apertamente nei circoli militari statunitensi, insieme al Governo, a proposito della necessità - ma facevano riferimento anche al “diritto morale” - dell’uso continuativo delle armi nucleari, rifiutando di abbandonare il preteso “diritto preventivo delle armi nucleari” anche contro quei paesi che non ne dispongono, nonostante l’appello pubblico che, circa 1800 scienziati statunitensi assai preoccupati, oltre ad un alto numero di Premi Nobel, hanno fatto pervenire all’Amministrazione Bush, nell’autunno del 20055. E il Presidente Obama non ha fatto nessuna dichiarazione contraria. Ovviamente il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ha dichiarato - durante la sua campagna per la candidatura presidenziale - che non avrebbe indietreggiato sull’uso delle armi nucleari contro l’Iran. Inoltre, un decennio fa, in uno dei circoli militari più aggressivi degli Stati Uniti non solo l’Iran ma anche la Cina veniva indicata come uno dei possibili target di guerra per aver iniziato l’armamento, che altro non era che nucleare. Il Generale Musharraf ha rivelato durante un’intervista alla televisione statunitense che il precedente Vicesegretario di Stato, Richard Armitage lo ha minacciato di “bombardare il Pakistan tanto da farlo ritornare all’età della pietra” se il suo Governo avesse rifiutato di obbedire agli ordini nord-americani. Una minaccia impossibile da realizzare in un paese grande come il Pakistan senza l’utilizzo dell’atomica. È importante sottolineare che la potenzialità della lista di morte dell’imperialismo egemonico globale, che si è imposto in modo spietato durante questi anni, è inseparabile sul piano del materiale riproducibile dall’attuale fase storica dello sviluppo economico monopolistico e dalla centralizzazione del potere che gli corrisponde. Quest’unione delle due dimensioni evidenzia che l’antagonismo è sistematico e può essere sconfitto solo dai cambiamenti del sistema capitale stesso. Di conseguenza, alcune delle peggiori manifestazioni della crisi finanziaria globale possono scemare o anche, temporaneamente essere sotto controllo, ma non la crisi strutturale in sé. La crisi infatti può scoppiare ancora, in modo grave o meno grave fino a quando non avverranno seri cambiamenti all’interno del sistema capitalista. Quindi possiamo fare riferimento alle condizioni “dopo la crisi” solo in un senso molto ristretto. Per quanto riguarda gli antagonisti del sistema economico monopolista che si trovano sotto il dominio degli Stati Uniti - con l’aggravarsi dei livello di produzione distruttrice che mette in pericolo anche le condizioni naturali in cui l’uomo vive - questi si imporranno, a dispetto della cosiddetta “rivoluzione industriale verde”. Inoltre, il materiale di fondo della politica imperialista e di quella militare non sta sparendo attraverso la forza del tono eloquente presidenziale. Non va dimenticato che i disastri prodotti dal sistema finanziario mondiale sono la rappresentazione della fase attuale dello sviluppo dei monopoli e degli imperialismi d’oggi, così come le guerre che vengono portate avanti - e quelle che devono ancora venire -, con la perdita di ingenti beni e di vite umane. Nessuno nega l’importante ruolo che gli Stati Uniti svolgono nelle loro guerre, anche se, sia in Iraq che in Afghanistan, vengono descritti “modestamente” dalla propaganda dell’ordine stabilito solo come guida della guerra (piuttosto che come invasore). Questa è una chiara manifestazione dell’attuale raggiungimento del livello di centralizzazione del potere di dominio politico e militare delle relazioni tra Stati. Comunque, tutto ciò è stato evidentemente ignorato a causa dell’asservimento complice delle “alleanze” che rivendicano “la sovranità democratica dei paesi del Mondo Libero”, in cui prevale lo stesso dominio economico e finanziario di centralizzazione del potere. Questo viene chiaramente dimostrato dalla reazione a catena internazionale causata dal collasso ipotecario e bancario statunitense, oltre che dalla politica militare. E questa relazione corrisponde al dominio generale degli Stati Uniti, nella fase attuale dello sviluppo economico monopolistico su vasta scala. Il Vicesegretario di Stato del Presidente Clinton, Strobe Talbot, ha reso ancora più chiaro, al meeting di Londra, che l’avanzamento dell’Unione Europea è accettata dagli Stati Uniti solo “fin quando non minaccerà il dominio statunitense”6. In vista della loro inseparabilità strutturale e del loro reciproco rafforzamento del potere, entrambi i sistemi monopolistici e imperialisti devono essere consegnati al passato, così come le caratteristiche del sistema capitalista e la sua fase di sviluppo, se vogliamo salvare l’umanità. Solo in questo caso potremmo parlare in modo giustificativo e speranzoso a proposito delle condizione “post-crisi”.

Domanda: “Durante gli anni ’90, abbiamo visto parte dell’intellighenzia della sinistra e parte dei militanti della sinistra adottare una visione per cui il ruolo della classe lavoratrice non era più centrale nell’analisi globale. Cosa ne pensa? L’attuale crisi, con moltissimi tagli occupazionali, potrà negare questo punto di vista in qualche modo?”

Mészáros: Dire “Addio alla classe lavoratrice” è sbagliatissimo, qualsiasi possa essere la motivazione che c’è dietro. Questa visione si basa su una concezione errata del lavoro e sul suo ruolo nella strategia socialista. Tende ad identificare il concetto di classe lavoratrice con quello di lavoratori manuali, concludendo in modo falso dalle loro altrettanto false premesse che - dal punto di vista dell’innegabile caratteristica dello sviluppo tecnologico del “capitalismo avanzato” - la forza lavoro ha perso la sua importanza nel cambiamento sociale, “confutando” quindi le teorie di Marx. Comunque, anche affermare che la classe dei lavoratori manuali sia diminuita, è abbastanza sbagliato se si considera lo scenario globale. Negli ultimi cinquanta anni il numero dei lavoratori manuali è cresciuto significativamente all’interno della forza lavoro; tutto ciò è avvenuto attraverso il criminale taglio dei costi e delle misure di sicurezza di base, trasferendo le “industrie ciminiere” verso il cosiddetto Terzo Mondo e producendo, di conseguenza, catastrofici disastri come quello avvenuto a Bhopal, in India. Ciononostante, il problema centrale è differente. Concerne non nel vario strato sociologico che costituisce la totalità della classe lavoratrice ma nell’intera forza lavoro - in termini teorici strategici, la sua categoria generale - che rappresenta l’unica alternativa fattibile al sistema capitalista di riproduzione sociale. Per quanto riguarda l’ancor più distruttiva logica del capitalismo che comanda, con feroce autoritarismo, il nostro intero sistema di riproduzione sociale e metabolica - un esempio sono le parole dell’ex primo Ministro Conservatore britannico, Margaret Thatcher: “Non ci sono alternative” - deve essere contestato (e può essere solo effettivo), in termini globali, abbracciando tutti gli aspetti della vita umana, la fattibilità produttiva, l’emancipazione sostenibile storicamente e la logica auto-emancipatoria del lavoro. Ai suoi tempi Marx parlava dell’inarrestabile processo di proletarizzazione (non lavoro manuale) che sarebbe avvenuto nella società capitalista. Tale proletarizzazione danneggerà tutti i settori della forza lavoro derivante dalla perdita di controllo anche oltre gli aspetti limite della loro vita. Questa perdita di controllo era evidente agli inizi del XX secolo, come è stato dimostrato dalla totale insicurezza che dominava qualsiasi lavoratore. Marx si opponeva a questa proletarizzazione alienante che deriva dalla logica del lavoro auto-emancipatorio, estesa a tutti i membri della società nelle loro capacità di decisione, e contro la pratica pseudo-democratica di legittimare “l’autoritarismo del capitale” e la “tirannia nei mercati”, usando, in quattro o cinque anni, il proprio voto nelle cabine elettorali. L’istituzione di successo e lo sviluppo costante orientato positivamente dell’alternativa egemonica della manodopera rispetto al sistema capitalista, rimanda alla fondamentale strategia orientata su di noi. Agli inizi di marzo del 2009 è stato reso pubblico negli Stati Uniti il numero dei disoccupati che è cresciuto nel solo mese di febbraio fino ad arrivare a 651.000: una cifra sbalorditiva per qualsiasi standard. Curiosamente, la Borsa ha ricevuto questa notizia come un segno di ripresa. Ancora più curiosamente, gli apologeti d’ufficio del sistema - sia finanziari che politici - hanno affermato che questa cifra è la prova che “la recessione sta raggiungendo il livello più basso” e quindi possiamo vedere i “germogli della rinascita” apparire di nuovo. La “prova” rivendicata non era niente del genere. Piuttosto, il rapporto di crescita della borsa ha prodotto una reazione noncurante - una sorta di riflesso capitalista di Pavlov - in accordo con il buonsenso che accoglie le masse espulse dal processo lavorativo. I sostenitori in questione non sembrano accorgersi che (1) uno svantaggio di 651.000 persone negli Stati Uniti non può essere sostenuto anche con le migliori condizioni economiche e (2) che ora non stiamo vivendo un periodo florido per l’economia, anzi stiamo sperimentando una crisi senza precedenti. Inoltre, questo svantaggio è una strategia assurda. Può essere sostenuto, temporaneamente, dalle unità di capitale più potenti a discapito dei più deboli, ma è totalmente insostenibile per la sicurezza del sistema. È un’auto-contraddizione come le determinazioni sistemiche interne. È da tenere in custodia con la natura del capitale che è l’ordine riproduttivo sociale delle contraddizioni. Il capitale ha bisogno non solo dei lavoratori per una produzione proficua ma anche per la produzione di consumatori. Lo “svantaggio” generalizzato visto come una panacea è assolutamente irrazionale. Se si estende oltre la forza lavoro, farebbe implodere lo stesso capitalismo come conseguenza del fallimento dell’accumulazione capitalista, a causa dell’assenza di una produzione che può essere realizzata attraverso la produzione di consumo di massa. Il mondo della speculazione finanziaria e le remunerazioni miliardarie dei banchieri venute alla luce recentemente a causa dello scandalo della crisi, non potranno provvedere a un’alternativa sostenibile dando potere al ridimensionamento della forza lavoro. I giornalisti finanziari hanno iniziato subito ad usare l’espressione: “economia reale”. Prima avevano affermato che la parte più importante della “moderna” economia era proprio il settore finanziario a rischio che sembrava in grado di produrre un’espansione del capitale senza limiti. La non remunerazione potrebbe essere considerata troppo forte anche se il capitale producesse espansione attraverso speculazioni finanziarie e bancarie. Tutto ciò è stato facilitato dalla corrotta relazione simbiotica tra il sistema finanziario stesso e la produzione capitalista. Attualmente il concetto di “economia reale” è tornata ad essere interessante senza comunque identificare le connessioni casuali tra il disastro creato nel sistema finanziario globale e la reale produzione di manodopera. La speculazione finanziaria in questi tempi di monopolio finanziario capitalista7, ha fatto sì che solo Bernie Maddoff, al vertice del NASDAQ, si sia impossessato di 65 miliardi di dollari8. Ora, “chi semina vento raccoglie tempesta”: è il risultato della grave contraddizione tra la reale attività produttiva e la finanza parassitaria. La gravità dell’attuale crisi non sarà superata senza soluzioni drastiche su base stabile e quindi non attraverso la bancarotta. Va ricordato anche il drammatico fallimento dell’industria automobilistica statunitense, dalla Ford alla General Motors, fino alla Chrysler. Pertanto, la manodopera produttiva in questa fase dello sviluppo è più che mai rilevante, non importa in che modo i capitalisti e i loro intellettuali “combattenti dei prezzi killer” cerchino di negarlo in nome di un “capitalismo avanzato”.

Domanda: “Quale è la sua valutazione circa le alternative al capitale degli anni ’90? E ora? L’attuale crisi potrà aprire nuove possibilità alla classe lavoratrice e ai progetti socialisti?”

Mészáros: L’ex Primo Ministro Margaret Thatcher non ha solo reso popolare lo slogan “non ci sono alternative” al neo-liberismo aggressivo e alla varietà dei monetaristi delle regole del capitale. La Thatcher si è anche vantata - in seguito allo stato di repressione e alla partecipazione attiva di Neal Kinnock del Partito Laburista che le ha permesso di sconfiggere lo sciopero durato oltre un anno dei minatori britannici - di “aver cacciato completamente il socialismo”. La sua auto-delusione sembra essere confermata non solo dal modo in cui ha portato avanti “gli affarri con il Signor Gorbacev” - come lei ha introdotto, elogiando, il Presidente sovietico e Segretario di partito - ma anche dalla totale trasformazione del Partito Laburista inglese nel “Nuovo Laburismo” di Tony Blair. Gli anni ’80 hanno rappresentato il successo dell’aggressione - e del fallimento socialista - neoliberista in tutto il mondo. Attualmente, a livello piuttosto unilaterale, molti commentatori indicano la “de-regulation” come la causa della crisi finanziaria, ipotizzando allo stesso tempo dei rimedi poco efficaci per sviluppare un “sistema di regolamentazioni finanziarie globali”. Comunque, continuano a schivare la domanda più imbarazzante: perché la deregulation del sistema finanziario globale, sotto il dominio statunitense, arriva al primo posto e quali sono le opportunità del vago sistema di regolamentazioni se le determinazioni strutturali all’origine dell’attuale crisi non verranno alterate profondamente? La deregulation in Gran Bretagna - un paese che un tempo era in prima fila nella Rivoluzione Industriale ed ora ha un settore finanziario molto inflazionato - è andata di pari passo con un grado spaventoso di de-industrializzazione, soprattutto negli anni ’80 e ’90. In queste circostanze sia i politici che i “i capitani d’industria”, oltre ai banchieri, hanno smantellato una vasta parte dell’economia produttiva, dalla costruzione delle navi all’ingegneria fino all’industria dell’auto, con la giustificazione deludente che nel “valore aggiunto dell’economia moderna, i settori dei servizi e la finanza internazionale rappresentano l’avanguardia del progresso”. Pratiche simili sono state adottate anche in altri “paesi sviluppati capitalisti”, trasferendo non solo le “industrie ciminiera” ma anche attività produttive di manodopera verso il Terzo Mondo, attraverso l’assurdo concetto per cui “ora viviamo nella società post-industriale”. Sfortunatamente, negli anni ’80 e ’90 ma anche nei primi anni del XXI secolo, la sinistra internazionale ha proceduto con queste trasformazioni. È stato messo in evidenza non solo dal crollo del blocco sovietico, sotto Gorbachev, ma anche dai cambiamenti di alcune figure tra i maoisti orientali e dai partiti socialdemocratici e laburisti in tutto il mondo. In un discorso fatto da Tony Blair il 1 aprile del 1995, il leader del “Nuovo Partito Laburista” - che è stato Primo Ministro per un decennio, dal 1997 al 2007 - ha dichiarato che il nuovo partito - che ha abbandonato qualsiasi impegno di trasformazione, togliendo quindi la Clausola 4 della Costituzione che richiama alla proprietà pubblica dei mezzi di produzione - è ora “il Partito del business moderno e dell’industria”. Scrissi al tempo, due anni prima della vittoria elettorale di Blair, che in questo modo la classe lavoratrice del “Nuovo Partito” avrebbe avuto una “vittoria di Pirro”, ma il problema rimane ancora oggi: “per quanto tempo la forza lavoro si può permettere di essere minacciata come ha fatto Blair nell’aprile 1995 e per quanto tempo la strategia di capitolare ai grandi affari sia intrapresa oltre la prossima vittoria di Pirro”9. Per quanto riguarda la profonda crisi globale solo un pazzo potrebbe negare che la strategia del neoliberismo è miseramente fallita. Ovviamente sono fallite anche le proposte della sinistra mondiale. La risposta alla seconda parte della sua domanda può essere solo: “dipende”. Da un lato, non ci sono dubbi che - data la gravità della crisi e la ferocia delle misure adottate dagli uomini del capitale contro la classe lavoratrice e in netto contrasto con i miliardi investiti per salvare le istituzioni in bancarotta (per entrambe deve pagare in un modo o nell’altra la forza lavoro) - esistano possibilità per la classe lavoratrice e per quei paesi fedeli al progetto socialista. Comunque, rimangono solo possibilità, nonostante la gravità della crisi. Dipende dall’abilità e dalla determinazione delle forze socialiste impegnate a sviluppare una strategia coerente, estendendo la loro influenza fino alle masse nell’interesse della trasformazione socialista. L’unica certezza è che la risoluzione riformista del passato non potrà avvenire su una base durevole. Solo una cambiamento strutturale radicale che danneggi i parametri dell’ordine stabilito, potrà dare una soluzione sostenibile. Ma a dispetto di ciò, in un momento di crisi maggiore la tentazione di optare per “una linea di resistenza più debole” è comprensibile e diffusa. Attualmente, l’accettazione del congelamento degli stipendi per due anni oltre ai tagli, voluti dai politici e dai sindacati in accordo al concetto di “stringere la cinghia”, punta verso questa direzione. La saggezza governativa - sbandierate nei mezzi di comunicazione controllati a livello monopolistico dall’ideologia dominante - parla di regulation, tuttavia da stabilire sulle rovine prodotte dalle deregulations passate. Tutto ciò è in linea con la resistenza debole. I problemi strutturali possono essere risolti solo con cambiamenti radicali. Le forze socialiste, a questo proposito, rappresentano una via nuova che può essere portata avanti solo attraverso l’organizzazione e l’educazione.

Domanda: “In ‘Socialism or barbarism’ lei ha affermato che la nuova articolazione tra i sindacati e i lavoratori nel XXI secolo è differente rispetto al XX secolo. Quale potrà essere il ruolo dei sindacati e quello dei lavoratori, ossia i loro doveri programmatici per rendere possibile il superamento del capitale?”

Mészáros: forse il concetto guida dell’ordine dominante, concetto espresso dagli Antichi Romani molto prima del capitalismo, rimane questo: dividi et impera. Inoltre, le divisioni all’interno della forza lavoro sono evidenti, in qualsiasi paese. Ciò che rende questi problemi difficili da superare è il fatto che queste divisioni non caratterizzano solo l’aspetto politico ma anche quello sociale. Questo spiega perché la frase dividi et impera potrebbe in apparenza avere successo. Adottando questa linea di approccio, alcune differenze di obiettivi di interesse materiale e culturale tendono ad essere trascurate o totalmente ignorate, aggiungendo ancora problemi invece di facilitarne la rimozione. In passato ho citato un fatto scandaloso ma non eccezionale: la Ford nelle Filippine paga ai lavoratori della catena di montaggio un salario venticinque volte minore rispetto ai colleghi della Ford di Detroit. Basta anche ricordare che alcuni gruisti che caricano le navi container sulla costa Ovest degli Stati Uniti guadagnano annualmente circa 160.000 dollari, mentre milioni di persone nel mondo devono sopravvivere con meno di due dollari al giorno. La crescita della disoccupazione, diretta conseguenza della crisi, può essere arrestata solo con misure drastiche. La grande difficoltà è la contraddizione tra le domande legittime immediate, le pressioni e la strategia portante. Sono d’accordo con Fernando Silva quando afferma che: “Le lotte salariali e le azioni settoriali sono importanti per far svegliare la coscienza di classe, ma se non sono supportate da un progetto di potere politico, di superamento del capitale e del suo stato, per quanto possano essere radicali, sfumano in enormi dispendi di energia che possono essere relativamente tollerate e assimilate (persino contenute o represse) dal sistema sempre se non mettono in discussione l’ordine, il potere e la proprietà del capitale”10.

Le stratificazioni esistenti non hanno solo radici storiche ma anche il supporto di forze aggiuntive nel loro ruolo importante composto dai diversi settori, in queste condizioni di crisi. Questi fattori non possono essere più ignorati o superati in breve tempo, non importa quanto possa essere desiderato. Lo sviluppo storico è caratterizzato dalle complesse relazioni tra continuità e discontinuità. Possiamo ignorarlo solo a nostro rischio e pericolo. Ma riconoscendo la relazione dialettica tra la continuità e la discontinuità, che non può essere ignorata, non vuol dire che noi ci adattiamo a un modo scorretto. Potrebbe avvenire a spese della struttura necessaria strategica in cui la contraddizione paralizzante resuscita la stratificazione che può essere risolta nell’interesse generale della realizzazione dell’alternativa egemonica della forza lavoro all’ordine di riproduzione sociale del capitale. Le parti che compongono la stratificazione non sono immuni dalla crisi capitalista. La crescente disoccupazione danneggia tutte le classi sociali ed è per questo che se ne parla ad alta voce. Ai giorni nostri l’articolazione difensiva del movimento della classe lavoratrice - caratteristica del XXI secolo - non può essere mantenuta a lungo se vogliamo cercare delle soluzioni sostenibili alla crisi del sistema del capitale. La divisione dell’articolazione organizzativa tra il “settore industriale” (i sindacati) e il “settore politico” (i partiti) del movimento della classe lavoratrice non riesce a far realizzare la strategia del movimento socialista. Consentendo alle azioni industriali di limitare i miglioramenti nel salario, che significa rinunciare al bisogno vitale di acquisire controllo sui mezzi di produzione, si indebolisce l’azione politica dei partiti della classe lavoratrice. Quindi la riproduttività del capitale e i conseguenti diktat prevarranno sulla “democrazia parlamentare”. Tale democrazia ha condannato il movimento della forza lavoro. Il controllo radicale della dimensione materiale della riproduzione sociale ha governato il potere a disposizione della classe lavoratrice subordinata, emarginata. Uno dei più gravi aspetti di questo problema, da risolvere al più presto, riguarda il concetto di responsabilità. Per sua natura l’ordine socio-economico capitalista è un sistema di irresponsabilità istituzionalizzata sul piano sociale. Come sistema basato sulla competizione è in grado di assegnare responsabilità solo a domini limitati, ma non alla società che deve essere divisa e gestita. Molti capi di governo hanno recentemente affermato che nessuno di loro può essere responsabile di quanto successo e di quanto succederà a causa della crisi. E questo assolve tutti coloro i quali erano coinvolti nelle speculazioni - tranne Maddoff, preso sul fatto - dalle loro responsabilità. È praticamente impossibile trovare soluzioni alla crisi senza l’assunzione di responsabilità ma è ovvio che gli speculatori che seguono il loro perverso sistema, non lo faranno mai. Solo un modo alternativo di riproduzione sociale del lavoro può rispondere a quesiti così seri. È altrettanto stressante che questa responsabilità, senza una reale presa di decisioni, possa essere un’imposizione dall’alto, non fattibile in breve tempo. L’implosione delle società dell’attuale socialismo esistente - a causa dell’avanzamento del movimento lavorativo controllato dall’alto - offre una conclusione evidente a ciò. Non è possibile credere che l’intensificazione delle misure autoritarie di controllo capitalista possano risolvere questo problema. I devastanti tentativi falliti adottati nel passato - il fascismo di Mussolini, il nazifascismo di Hitler, fino alle dittature latinoamericane volute dagli Stati Uniti, come quella di Pinochet in Cile o in Brasile - hanno chiaramente confutato la fattibilità di questi progetti. L’articolazione difensiva del movimento lavorativo nel XX secolo risulta inconveniente anche a questo rispetto. La solidarietà tra i membri della forza lavoro ad assumersi la responsabilità dell’alternativa è minata dalle azioni dirette al miglioramento degli interessi settoriali. Il capitale così può mettere un settore contro l’altro, rendendo l’unità lavorativa un miraggio. Senza la solidarietà di classe e senza una visione condivisa della strategia alternativa non sarà possibile superare la crisi. C’è la necessità di confinare nel passato le divisioni e gli interessi settoriali poiché è l’unico modo per assumersi davvero la responsabilità di risolvere la crisi strutturale. Sarà inconcepibile senza una forte solidarietà di classe che servirà come propulsore per una differente riproduzione sociale. Bisogna avere un reale potere decisionale condiviso equamente con tutti i membri della classe lavoratrice: queste sono le caratteristiche dell’alternativa al modello capitalista. In questo senso sia i sindacati che i partiti che fanno capo alla forza lavoro devono essere combattivi a livello industriale e politico. La loro emancipazione avverrà solo attraverso un principio di orientamento principale. Quindi le richieste immediate potranno essere realizzate all’interno della strategia di lavoro alternativa. Questa inoltre è anche l’unica condizione per uscire dalla crisi in cui ci troviamo. Le negoziazioni sui salari e le politiche di risanamento della tradizione riformista possono solo aggravare questa crisi globale.

Domanda: “Quali possono essere le misure che adotterà il movimento della forza lavoro? E quali saranno le loro relazioni con le istituzioni statali, come i governi e i parlamenti? I sindacati e i partiti come potranno supportare questi cambiamenti e come potranno aiutare a far rinascere la coscienza socialista, specialmente nei paesi imperialisti?”

Mészáros: A questo proposito dobbiamo citare Markuse che io considero un compagno, nonostante le differenze. Ha identificato alcune delle sfide che ci troveremo davanti, anche se le sue spiegazioni possono essere messe in discussione. Due concetti, espressi da Markuse nel periodo post-bellico sono molto importanti e sono vincolati l’uno all’altro. Il primo è la sua convinzione per cui il capitalismo è riuscito a risolvere le crisi passate e ora ci stiamo confrontando con un potente capitalismo organizzato, al posto della crisi capitalista. Il secondo va di pari passo con il primo: parla del successo del capitalismo organizzato. Afferma che la classe lavoratrice deve essere inserita nel sistema capitalista post-crisi, insieme a dei soggetti storici diversi, come gli “outsiders” e il movimento studentesco. Sfortunatamente, dopo la delusione subita per le sue aspettative sul ruolo degli “outsiders”, ha iniziato ad adottare, verso la fine della sua vita, una prospettiva totalmente pessimistica, concettualizzata nel suo libro “La dimensione estetica”. Come sappiamo, il successo del capitalismo organizzato è stato congiunturale, esteso oltre il periodo di ricostruzione post bellica. Quindi, la crisi prima o poi tornerà con molta violenza, in vista dell’antagonismo globale del sistema capitalistico. Comunque, l’altra sfida presentata da Markuse ha ulteriori problemi. Gli svantaggi per la forza lavoro sembrano predominare in qualsiasi paese capitalista, anche nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo che sperimenta processi industriali dominati dalle multinazionali. I tentacoli soffocanti del capitale finanziario internazionale, anch’esso dominato dalle multinazionali capitaliste, degli Stati Uniti, dell’FMI e della Banca Mondiale, danno un’ulteriore dimensione a questo processo regressivo. La domanda è: la forza lavoro da sola è l’unica via per costruire un’alternativa al capitalismo? Se la risposta fosse un enfatico sì, come pensa Markuse, la prospettiva pessimistica è inevitabile. Questo è il contesto in cui il ruolo dei sindacati e dei governi della classe lavoratrice richiede un’analisi critica. Le rimanenti forze extraparlamentari dominate dal capitalismo cercano di diventare un interlocutore. La divisione tra il settore politico e quello industriale voluta dalle regole parlamentari è l’incarnazione istituzionale di questo processo di reale smobilitazione. Ora i sindacati e i riformisti politici devono integrarsi al sistema, staccandosi dalla forza lavoratrice in nome del business e dell’industria. Questo processo ha trascinato anche i due partiti comunisti più importanti d’Europa, quello italiano e quello francese. La classe lavoratrice non viene integrata al processo. Per farlo, si dovrebbero cancellare tutti gli antagonismi strutturali. E ad essere sinceri, la forza lavoro è stata privata della sua leadership, il tutto messo a tacere per un lungo periodo. I movimenti socialisti sono una grande opportunità per il nostro tempo; come diceva Marx creano una coscienza comunista di massa. Le forze extra parlamentari distruttrici del capitale non possono essere sconfitte con le regole istituzionali. Le forze extra parlamentari devono mobilitarsi in massa per aiutare le politiche radicali della classe lavoratrice. Tutto ciò implica un cambiamento ulteriore nel settore industriale della classe lavoratrice. Il Brasile ha sviluppato un importante movimento radicale che ha radici nella massa popolare: il Movimento dei Senza Terra. Questo movimento si è sempre rifiutato di entrare nella logica dell’ordine prestabilito e questo aspetto è una speranza davvero importante per il nostro futuro. Allo stesso modo, un’altra grande opportunità è rappresentata dalla mobilitazione di milioni di disoccupati la cui cifra potrà aumentare nel futuro. Questo movimento di disoccupati potrà diventare fondamentale per i processi socialisti. Infatti la solidarietà è sia un valore socialista che un modo per rafforzare il potere d’emancipazione. L’alternativa al capitalismo non funzionerà senza spirito di solidarietà. I lavoratori dei paesi capitalisti hanno impiegato troppo tempo a capire questo concetto. Comunque ci sono buoni segni anche per le zone sotto il controllo capitalista.

Domanda: “Secondo noi un elemento importante sulla valutazione della sinistra brasiliana del XXI secolo è stato il tragico svantaggio dell’educazione marxista. Quale è, per lei, il ruolo degli studi marxisti all’interno del settore lavorativo? Quali armi alternative si possono usare nella lotta ideologica per la creazione di una coscienza di classe?”

Mészáros: La mancanza di una educazione marxista è presente anche nei paesi sviluppati capitalisti. Non solo a causa del potere istituzionalizzato dell’ideologia imperante, dominata dai mass media, ma anche dalla tradizionale politica riformista conforme all’ideologia prestabilita. L’unica educazione politica rilevante per i partiti riformisti è il processo di preparazione elettorale, ossia la richiesta di voti o anche l’operazione chiamata “focus groups”: si basano sull’informazione e sulla falsa informazione per ingannare la popolazione e mantenere lo status quo. La prima funzione dei governi è confinata a creare una relazione pubblica di facciata con l’elettore. Quando si ripensa alla storia dei movimenti socialisti, il contrasto è sorprendente. Durante le prime fase l’educazione marxista era molto importante. Per fare solo un esempio, Rosa Luxemburg non è stata solo una grande leader della classe lavoratrice ma anche una maestra negli organi educativi del Partito: ha scritto moltissime cose importanti - a proposito della teoria politica ed economica marxista - adatte a creare la coscienza sociale per il militante socialista. Attività simili hanno caratterizzato la vita di molti partiti socialdemocratici - e ovviamente anche comunisti - per un periodo molto lungo. Il paradossale consenso allo slogan “Non esistono alternative” ha messo fine a tutto questo distruggendo anche il maggiore Partito Comunista dell’Est. Questo è quanto avvenuto con Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista di Pietro Nenni: ha dovuto lasciare il suo paese e andare in Tunisia per corruzione, mentre il suo “seguace” Silvio Berlusconi è stato letto, non una ma ben tre volte, Primo Ministro italiano. Questo succede in Italia, paese in cui il Partito di Antonio Gramsci una volta rappresentava una forza politica combattiva con l’obiettivo di cambiamenti radicali. Ovviamente, nessuno sforzo di emancipazione potrà essere portato a termine senza cambiamenti a rispetto. Nessun partito si potrà dichiarare radicale senza che si occupi dell’educazione politica radicale. Una domanda da porsi è come si farà a far capire alle masse quale sia il compito da svolgere senza una strategia definita. L’educazione non avviene come nelle accademie, in cui le persone devono imparare ciò che è scritto su un libro creato da “esperti” e da “autorità”. L’educazione politica avrà successo solo se coinvolgerà i cittadini nello sviluppo della coscienza socialista. La miglior forma di educazione è “l’auto-educazione”. Solo così le persone diventeranno parte del processo di trasformazione. Un partito radicale socialista, coinvolto nella realizzazione del processo, è la struttura portante dell’auto-educazione. In questo modo si può contribuire a risolvere la crisi attuale, sempre all’interno di una prospettiva socialista. L’espressione “partito di massa” è usata molto spesso in modo inappropriato. Significa, in realtà, non solo la totale assenza del coinvolgimento attivo delle persone nella risoluzione dei problemi ma anche la mancanza di un’organizzazione che appartiene al partito in questione. I membri attuali del presunto partito di massa del “Nuovo laburismo” in Gran Bretagna sono assolutamente irrisori. Si chiamano partiti di massa per la loro dubbia funzione di legittimazione dell’elettorato. Tutto ciò ci indica una distanza abissale tra l’educazione politica e la consapevolezza dei riformisti socialdemocratici. La necessità di un’educazione politica che coinvolga le masse di lavoratori è ancora più importante ora che prima, proprio a causa della crisi. Ma tutto ciò sarà impossibile senza lo sviluppo di un movimento radicale che si opponga al sistema capitalistico. Questo avverrà solo con l’unione del settore industriale con quello politico, nello spirito di un progetto di emancipazione. Traduzione Violetta Nobili

1 Intervista fatta da “Debate Socialista” a István Mészáros e concessa a CESTES per pubblicazione in Italia (grazie anche alla collaborazione di R. Antunes).

2 Capitolo 18, Sezione 2. In Para além do capital, Boitempo Editorial, p. 796.

3 “Radical Politics and Transition to Socialism”, Beyond Capital, pp. 949-51, Para além do capital, pp. 1076-78. Prima pubblicazione in Escrita Ensaio, Año V, No. 11-12, São Paulo, 1983.

4 Citato a pagina 397 del mio libro: The Challenge and Burden of Historical Time.

5 Vedere la documentazione di questi problemi in “The Structural Crisis of Politics”, Capitolo 10.3 del mio libro: The Challenge and Burden of Historical Time, soprattutto le pagine 399-406.

6 Citato a pagina 131 del mio libro, The Challenge and Burden of historical time.

7 A questo proposito, vedere uno dei più perspicaci libri di John Bellamy Foster e Fred Magdoff, The Great Fiancial Crisis: Causes and Consequences, Monthly Review Press, New York, 2009.

8 65 milioni è la cifra pubblicata il giorno dopo del suo processo. Prima era pari a “solo” 55 milioni. La cosa più importante a questo proposito è che il caso Maddoff è solo la punta dell’iceberg, come rivela l’esposizione dell’impero finanziario speculativo del “Signor” Alan Standford che opera soprattutto in America Latina. Non è possibile che tali speculazioni finanziarie siano state fatte da poche persone. Nessuno è in grado di dare delle cifre esatte delle somme investite su scala globale.

9 Citato a pagina 730 del mio libro, Beyond Capital, London, 1995.

10 Vedere l’articolo di Fernando Silva su “Crise mundial recoloca necessidade de projeto de poder dos trabalhadores,” pubblicato il 25 novembre 2008.