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Alessandra Ciattini
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per Proteo (10)

Docente Fac. Lettere, Università “La Sapienza”, Roma

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Alessandra Ciattini


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Società o mercato della conoscenza?

Alessandra Ciattini

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1. Premessa: Società, Stato, mercato

Qualche anno fa avevo scritto un articolo, pubblicato da Proteo1 ma anche dalla Revista Cubana de Educación Superior (2006), nel quale mettevo evidenza la presenza di due modelli di istituzione universitaria nel dibattito attuale sulla funzione e sul ruolo dell’università nella società capitalistica avanzata. La partecipazione a due importanti convegni, uno a Parigi organizzato dall’Associazione Sauvons la recherche, e l’altro a Cuba organizzato dal Ministerio de Educación Superior e dalle università di questo paese, tenutisi entrambi nel febbraio 2010, hanno confermato questa mia ipotesi, che vorrei ulteriormente articolare in questo scritto. Prima di procedere nella mia analisi, vorrei sottolineare che oggi, quando si esaminano i discorsi culturali e politici espressi e diffusi dalle istituzioni dominanti soprattutto a livello internazionale, è opportuno fare un’accurata disanima linguistica, perché il linguaggio usato è volutamente ambiguo e i persuasori se ne servono in maniera deliberata per veicolare contenuti espressi in maniera mistificata e che pertanto non vengono correttamente recepiti. Per esprimere questo concetto in maniera semplice, si potrebbe dire che le cosiddette riforme della ricerca e dell’educazione superiore, che da un paio di decenni stanno stravolgendo le nostre istituzioni tradizionali a livello europeo e mondiale, sono presentate come qualcosa di vantaggioso per le masse popolari e per la società nel suo complesso, mentre il loro scopo, che risulta dall’analisi puntuale dei loro contenuti, è quello di realizzare benefici solo per una parte del mondo sociale. Questo aspetto è messo bene in evidenza dall’Appello ad una mobilitazione europea contro la strategia di Lisbona in materia di insegnamento universitario e di ricerca, firmato da numerose associazioni culturali e sindacali europee, il quale opportunamente distingue tra la società della conoscenza e il mercato della conoscenza. A questo proposito è molto interessante osservare che nei processi comunicativi possono essere individuati almeno due livelli, uno destinato ai mezzi di comunicazione di massa, un altro che ha invece l’obiettivo di diffondere informazioni e contenuti a gruppi élitari di esperti e a membri dei gruppi dirigenti. Da questo punto di vista l’espressione “società della conoscenza” ha avuto un grande successo ed è stata diffusa e recepita come la costruzione di una nuova forma di vita sociale, nella quale un numero crescente di persone avrebbero avuto la possibilità di dotarsi di conoscenze, di migliorare la loro condizione sociale in seguito a ciò, di vivere in un mondo in cui lo sviluppo del sapere avrebbe risolto i grandi problemi del nostro tempo. Insomma, l’espressione “società della conoscenza” è stata adottata, lasciando intendere che essa fosse del tutto coerente con la prospettiva culturale e politica emancipatoria sviluppata in primo luogo dall’Illuminismo, anche se - come vedremo - tutt’altra è l’ispirazione filosofica dei difensori del neoliberismo, il cui pensiero qui esaminerò. Se invece si vanno a leggere i testi degli economisti neoliberali o dei funzionari della Banca mondiale, si comprende senza troppa fatica che essi stanno parlando di mercato della conoscenza, che è naturalmente tutt’altra cosa. Si potrebbe aggiungere che per questi autorevoli pensatori il mercato coincide con la società, nella misura in cui quest’ultima è organizzata per consentire l’estrazione del profitto da ambiti che negli ultimi venti anni si sono sempre più estesi fino a inglobare sempre più - come mai era avvenuto prima - anche la dimensione culturale e scientifica. Possiamo a nostra volta aggiungere che è del tutto plausibile il punto di vista, del resto documentabile nella storia del pensiero, secondo il quale la società non coincide con il mercato ed anzi si organizza per la realizzazione di finalità del tutto diverse da quelle mercantili. Naturalmente è quest’ultimo punto di vista che cercherò di supportare e di difendere in questo scritto e che si richiama al tema del Convegno organizzato a Cuba “L’Università per un mondo migliore”. Inoltre, non credo che la logica mercantilistica e capitalistica sia del tutto adeguata a governare il mondo della produzione materiale, mentre logiche di tipo diverso - per esempio di carattere solidaristico e non finalizzate alla ricerca immediata del vantaggio materiale - dovrebbero plasmare e dirigere il cosiddetto mondo della produzione immateriale, legato ai valori morali, all’identità culturale e politica degli individui e dei gruppi sociali. Credo che ciò sia avvenuto in passato semplicemente perché nelle fase storiche precedenti (quando esisteva ancora con tutte le sue contraddizioni e difetti il mondo socialista e pertanto in Europa era ancora forte lo Stato sociale) il capitalismo non era ancora penetrato capillarmente nella gestione delle istituzioni scientifiche e culturali. In tutti i paesi europei la relativa autonomia di queste ultime dal mercato era garantita dallo Stato, il quale le metteva nelle condizioni di portare avanti strategie di ricerca e di insegnamento improntate alle grandi tematiche e ai problemi sociali, di rivolgersi ad un pubblico sempre più vasto di studenti provenienti dalle varie classi sociali, di elaborare punti di vista critici della società contemporanea. Certo, bisogna aggiungere che queste funzioni non erano pienamente svolte per le relazioni di subordinazione con il mondo economico e politico e per la mancanza di risorse. Per esempio, non si può certo dire che in Italia ci sia mai stata un’università di massa, ossia aperta ai figli dei lavoratori appartenenti ai più bassi livelli della scala sociale. Inoltre, non bisogna dimenticare lo sviluppo dell’industria culturale nei suoi vari aspetti (sostenuta anche dallo Stato)2, che ha contribuito e contribuisce in maniera significativa alla formazione e al consolidamento del punto di vista acritico, per il quale la società attuale è il migliore dei mondi possibili oppure è priva di alternativa realistica. Per capire le complesse ragioni di questo profondo cambiamento bisognerebbe analizzarne i caratteri a livello economico-sociale, esaminare le dinamiche dell’attuale crisi, che come osservano molti studiosi, non è esclusivamente finanziaria, ma anche sociale, culturale, se non addirittura di civiltà. Naturalmente non ho né le competenze né lo spazio per fare ciò, perciò mi limito ad indicare alcuni elementi che mi sembrano indispensabili allo sviluppo del tema che intendo trattare. Un elemento che mi sembra importante e che è stato messo in evidenza da Pierre Larrouturou, che ha partecipato al convegno di Parigi, è il profondo cambiamento dei rapporti di classe avvenuto negli ultimi decenni, come si può ricavare dal fatto che, in generale nei paesi a capitalismo avanzato, la parte dei salari nel Prodotto Interno Lordo è diminuta negli ultimi 25 anni ed è al contempo aumentata la parte spettante alle rendite. Naturalmente tale processo è accompagnato dal significativo incremento della disoccupazione e dalla diffusione del lavoro precario, che riguarderebbe circa il 40% / 30% dei lavoratori europei.3 La diminuzione delle tasse a favore delle classi alte (decisa per esempio da Reagan nel 1981) e delle entrate provenienti dalle imposte sul lavoro hanno incrementato il debito pubblico; fatto che costituisce una delle ragioni per la messa indiscussione e il ridimensionamento dello Stato sociale. Naturalmente la conseguente privatizzazione dei servizi pubblici è anche dettata dalla volontà di trasformare in merce ciò che era prima elargito dallo Stato e di inserire così nel mercato quanto ne era rimasto fuori fino a quel momento.

2. Due modelli di università Per illustrare i due modelli di università, che definirei il primo imprenditoriale, il secondo democratico e di massa (più che una realtà concreta un progetto per cui battersi), utilizzerò alcuni interventi che ho avuto modo di ascoltare all’Avana e a Parigi, i quali mettono anche bene in evidenza come i sostenitori del primo tentino sempre di far credere che la realizzazione del loro progetto recherà vantaggi all’intera società. Vorrei cominciare facendo riferimento a due interventi tratti dal panel “La Educiación superior y sus perspectivas”, che ho scelto per la loro capacità di rappresentare i due modelli di università su indicati. Nel primo intervento di Asalia Borbón Roas e di María Lorenza Serna Antelo dell’Istituto Tecnologico di Sonora (Messico)4 si illustra un progetto pedagogico presentato come innovativo, il quale dovrebbe consentire un più stretto collegamento tra scuola e vita, una più stretta articolazione tra università e società. A questo scopo l’Istituto Tecnologico di Sonora (ITSON), un’istituzione pubblica situata a Ciudad Obregon nel Messico settentrionale, ha dato vita al Centro di Incubazione per l’Integrazione Organizzazionale e Sociale, il cui obiettivo è quello avviare un processo formativo che permetta agli studenti di acquisire conoscenze professionali per avviare un’attività produttiva e impresariale. In definitiva, l’Istituto Tecnologico di Sonora si propone come istituzione in grado di incubare imprese, che naturalmente possano essere sviluppate nell’ambito territoriale, dove esso opera, e che abbiano ricadute interessanti e vantaggiose sulla popolazione locale. Per ottenere questi risultati, nell’Istituto Tecnologico di Sonora, a partire dal secondo al settimo semestre di studio, gli studenti saranno impegnati soprattutto nella pratica applicativa delle scienze, ossia parteciperanno a Iniziative Strategiche, le quali dovranno promuovere lo sviluppo economico-sociale della comunità avvalendosi degli agenti educativi per garantire il raggiungimento di un alto livello di formazione professionale. Ovviamente il caso dell’ITSON non è isolato; esso fa parte del Sistema nazionale di incubazione delle imprese (2009), di cui le statistiche mettono in evidenza l’incisività. Infatti, nel 2006 in Messico sono state costituite più di 1.835 imprese e l’85% di quelle che sono state “incubate” resiste sul mercato. Non entrerò nello specifico del processo formativo proposto dall’ITSON, ma mi limiterò ad alcune considerazioni di carattere generale. Mi pare evidente che il progetto messo in pratica da quelle università, che si propongono l’obiettivo di “incubare” imprese, presenti molte sfaccettature. In primo luogo, mi sembra abbastanza evidente che si vogliono scaricare tutta una serie di spese relative alla creazione delle imprese alle istituzioni pubbliche, le quali quindi con il denaro dei contribuenti (in genere i lavoratori dipendenti) sosterranno i primi passi di un’attività, che viene sempre presentata ad alto rischio e per questo giudicata ampiamente meritevole. Questo processo di subordinazione alle imprese e/o al mercato è un fenomeno universale, i cui aspetti sono rappresentati dalla volontà di introdurre privati (leggi rappresentanti dei poteri economici) negli organismi dirigenti e valutativi delle università5 e dall’inserimento in esse di personale precario, il cui stipendio viene finanziato da un’impresa o società6. Ovviamente quest’ultimo svolgerà attività di ricerca e di insegnamento congeniale agli interessi dell’impresa che lo finanzia, la quale risparmierà tuttavia il costo dell’uso delle strutture necessarie al raggiungimento dei suoi obiettivi. Faccio osservare che tale storno del denaro pubblico è stato pagato negli ultimi anni con il mancato adeguamento dei salari dei lavoratori delle università, con l’aumento delle tasse per gli studenti e con lo stato di abbandono in cui versano molte istituzioni universitarie in Italia ed altrove. Occorre anche aggiungere un’altra osservazione. L’impostazione dell’ITSON si basa sull’idea che la soluzione della crisi economica attuale sta nel favorire la crescita produttiva; soluzione non condivisa da molti economisti, i quali invece mettono l’accento non sull’aspetto quantitativo quanto su quello qualitativo, ossia su cosa si produce, su come lo si produce, su come il lavoro viene distribuito per affrontare il problema della disoccupazione. Ma la subordinazione delle università alle imprese, come si è visto offuscata dal richiamo alla vita sociale e alla produzione di posti di lavoro, non è solo una questione di “vile denaro”, ci sono in ballo anche altre questioni ugualmente importanti. Seguendo quanto scrive Luca Marsi, docente dell’Università Paris Ouest Nanterre La Défense, nel suo intervento “Universidad, neoliberalismo y economicismo a principios del siglio XXI”, la trasformazione dell’università esaminata potrebbe essere considerata come un esempio del progetto di società, che egli definisce neoliberale e di cui si propone di indagare i caratteri e i presupposti. Marsi osserva acutamente che il capitalismo ha una struttura dinamica ed un carattere instabile, dovuto alla necessità di trasformarsi costantemente per garantirsi l’accumulazione dei profitti e per contrastare gli interessi dei lavoratori. Per questo processo dinamico il capitalismo attuale è profondamente diverso da quello del secondo dopoguerra e ha cambiato anche in parte la sua filosofia, rappresentata dal neoliberalismo. Al centro di quest’ultima non vi sarebbe più l’uomo calcolatore del vecchio capitalismo, ma l’”uomo-impresa”, ossia - come scrive Marsi - l’uomo che governa se stesso come si amministra un’impresa, come se esso stesso fosse un capitale che deve dare i suoi frutti. Si potrebbe dire che in seguito a questa innovazione il calcolo viene interiorizzato, trasformando le stesse risorse interiori in strumenti per competere economicamente con gli altri e per ottenere una maggiore quantità di vantaggi materiali. In definitiva, Marsi sottolinea - ed io concordo pienamente con lui - che le trasformazioni imposte alla funzione e al ruolo dell’università e della cultura si sono potute realizzare anche grazie all’affermazione e diffusione di un nuovo ethos, che avendolo introiettato ci fa apparire del tutto ragionevole la precarietà lavorativa, l’uso privato ed economico del patrimonio scientifico e culturale, e soprattutto ci fa sentire i soli responsabili dei nostri successi ed insuccessi. In questo contesto, l’individuo è diventato veramente solo, essendo stati recisi tutti i legami con la comunità, che dovrebbe intervenire, per esempio, per sostenerlo nella disoccupazione e nelle crisi familiari ed esistenziali. A ciò si aggiunga che in tale contesto il non intervento della comunità è del tutto giustificato sul piano ideologico, tanto che si potrebbe parlare di un neomalthusianesimo, il quale consiste nell’abbandonare a se stesso chi non ce la fa a guadagnarsi il diritto a sopravvivere. Il neoliberalismo è veramente un’ideologia totalitaria, nella misura in cui intende sottomettere tutti gli aspetti della vita sociale al suo paradigma economico. Per questa ragione ha imposto un linguaggio economico-finanziario al mondo sociale e culturale: gli studenti ricevono crediti, le università si avvalgono di capitale umano, le religioni hanno a disposizione un capitale simbolico. Come sostiene Marsi il neoliberismo ha avviato un processo di rifondazione della società per estendere a tutti gli ambiti i suoi valori e la sua concezione del mondo; da questo processo non poteva essere esclusa l’università perché luogo centrale di formazione e trasmissione della cultura, laboratorio della preparazione delle classi dirigenti. In questa prospettiva, i caratteri della nostra università - aggiungerei in particolare di quelli propri del modello franco-tedesco di università7 contrapposto a quello anglosassone - come l’idea che il conoscere debba essere legato all’emancipazione culturale e politica dell’individuo, - come scrive Marsi - l’acquisizione della capacità di mettere costantemente in questione l’esistente (quaestio), lo sviluppo dell’abilità di argomentare e difendere il proprio punto di vista in pubblici dibattiti (disputatio) sono considerati incompatibili con il progetto neoliberale. Ovviamente dal punto di vista di chi invece sostiene l’università democratica e di massa questi aspetti non solo debbono essere difesi ma addirittura potenziati, se vogliamo che la democrazia come attività critica e partecipativa sia una pratica effettiva e non solo un parola retorica, come in genere accade nelle nostre cosiddette democrazie liberali. Marsi spiega molto bene perché i caratteri su indicati sono del tutto inconciliabili con il progetto neoliberale. Esso non si pone il problema della comprensione e della critica dei fenomeni, si preoccupa esclusivamente delle “pratiche migliori” e dei “metodi migliori” per organizzarli e gestirli. La cosa importante è che il sistema funzioni e non è lecito interrogarsi sulla legittimità e validità del sistema. Il sistema è accettato senza discussione e il problema è esclusivamente quello della sua governabilità (governance), la quale permette solo di stabilire quali gruppi si susseguiranno alla sua amministrazione. Per esempio, non si possono mettere in discussione i tagli stabiliti dai vari governi all’università pubblica, si tratta semplicemente di gestire con le risorse disponibili gli atenei e le loro esigenze (sostenibilità). Ed è quello che stanno facendo i docenti delle università italiane, mostrando così da un lato di aver recepito correttamente la lezione neoliberale, dall’altro, di avere uno scarso senso della loro dignità in quanto liberi creatori di cultura. Pertanto, - come scrive Marsi - il sistema richiede esclusivamente l’operatività e il tecnicismo... «non vuole che si sviluppi il processo di emancipazione su descritto, e per questo non solo non stimola, ma anzi al contrario cerca di sopprirmere tutti i meccanismi di quaestio e disputatio, che sono in grado di sviluppare l’autonomia dello spirito». In questa prospettiva appare del tutto comprensibile il tentativo di separare l’attività di ricerca da quella didattica, proprio per separare nettamente il momento dell’elaborazione critica da quello della trasmissione del sapere. Separazione che dovrebbe concretarsi nell’istituzione di università di tipo differente: i poli di eccellenza dediti alla ricerca avanzata e adeguatamente finanziati, le università esclusivamente didattiche volte alla preparazione di manodopera di livello inferiore.8 Un altro aspetto dell’ideologia neoliberale, che è penetrato profondamente nel sentire comune degli intellettuali, è rappresentato dal dogma della valutazione, a cui ormai tutti vorrebbero sottomettersi per liberarsi ingenuamente delle accuse di corruzione, inefficienza, inadeguatezza scientifica che la stampa dei maggiori paesi europei ha lanciato nei confronti del mondo accademico. Uso l’espressione “dogma” proprio perché la valutazione è presentata come qualcosa su cui non si discute, è descritta anche come la lo strumento indispensabile grazie al quale tutti i mali dell’università (corruzione, nepotismo, inefficienza) potranno finalmente essere risolti. All’interno della visione di un’università democratica e di massa un punto cardine è rappresentato dall’autonomia dell’istituzione universitaria, che vuol dire autogoverno ed autorganizzazione nel contesto dell’ordinamento legislativo nazionale e del finanziamento pubblico; i soli elementi che possono garantire l’effettiva libertà di ricerca, di insegnamento e di apprendimento. In tale contesto valutazione può significare esclusivamente autovalutazione, ossia attività di riconoscimento del valore o del disvalore da parte della stessa comunità scientifica. Nella prospettiva neoliberale, che prevede per esempio la presenza di componenti esterni nei nuclei di valutazione degli atenei (v. DDL Gelmini), la valutazione diventa - come sottolinea giustamente Marsi - una forma di controllo sociale volta a penalizzare la riflessione sui fondamenti delle scelte politiche e sociali, ossia la riflessione sulle “ragioni del ragionamento” contrapposta allo sterile tecnicismo, con il quale si vuole riempire il vuoto culturale prodotto dal tentativo, in parte riuscito, di annientare il nostro patrimonio culturale costruito su un atteggiamento cosciente e critico. Infatti, come sottolineano Polcaro e Martocchia (2010), l’attacco che abbiamo descritto a grandi linee non riguarda esclusivamente l’università, ma tutta la scuola pubblica, gli enti di ricerca, gli istituti adibiti alla tutela e alla conservazione del nostro patrimonio materiale e immateriale, il cui funzionamento viene stravolto dall’imposizione della logica aziendalistica e dal principio della redditività. Ribadisco che non è questo un fenomeno esclusivamente italiano ed europeo, ma a carattere internazionale9 Come si vede c’è una forte contraddizione nella concezione neoliberale che, da un lato, invoca l’autonomia dell’università (in realtà con l’unico scopo di definanziarla e di subordinarla alle esigenze del capitale privato), dall’altro prevede invece un forte sistema di controllo sull’attività di ricerca e di insegnamento, sull’organizzazione della didattica, sull’inserimento dei nuovi docenti negli organici. Come sottolineano Polcaro e Martocchia (210: 7) la concezione neoliberale ha anche favorito in questi anni lo sviluppo di un’autonomia selvaggia dei singoli atenei (non sufficiente per esempio per Walter Tocci), per far scattare una concorrenza di tipo mercantilistico, allo scopo di arrivare gradualmente all’abolizione del valore legale del titolo di studio (come molti auspicano da anni). Abolizione che metterebbe in discussione l’eguaglianza almeno formale dei lavoratori dinanzi al datore di lavoro, che non avrà più nessun ostacolo nello scegliere secondo il suo insindacabile volere. Il quadro che ho tracciato facendo riferimento al Congresso dell’Avana non è sostanzialemte diverso da quello che ho potuto ricavare partecipando all’incontro di Parigi organizzato da Sauvons la recherche. Anche in questo caso era possibile individuare due modelli di università in lotta tra di loro, con le caratteristiche che ho cercato di delineare. Vorrei aggiungere però che il modello democratico e di massa, che in questo momento per la complessiva situazione internazionale sembra sostanzialmente perdente, non è qualcosa che appartiene esclusivamente al passato e che noi docenti siamo chiamati a difendere resistendo allo svuotamento culturale e all’attacco della stessa dignità della nostra professione. È un modello che deve essere articolato e sviluppato per contrapporlo a quello imprenditoriale, perché garantisce la piena libertà di ricerca e di insegnamento, l’accesso il più ampio possibile all’educazione superiore, lo sviluppo e il rafforzamento del pensiero critico, che vuol dire in primo luogo critica dell’esistente. Naturalmente tutte queste rimangono belle parole, se una tale università non elabora forme di partecipazione veramente democratiche al suo governo10, forme di controllo dal basso delle attività di gestione, del reclutamento e della progressione di carriera. In questo senso, mi sembrano del tutto condivisibili gli «obiettivi praticabili» indicati da Polcaro e Martocchia, i quali si soffermano anche sul problema gravissimo del diritto allo studio, pressoché liquidato dal DDL Gelmini, che considera l’accesso all’educazione superiore solo un investimento che darà i suoi frutti nei termini di una migliore collocazione nel mondo lavorativo e sociale. Mi pare però che essi trascurino il problema del governo delle università (non della governance)11, ossia la questione del ruolo e del peso delle componenti universitarie che debbono avere nell’orientamento e nell’amministrazione della vita degli atenei, oltreché nel sistema universitario complessivo per garantire la sua autonomia dalle altre istituzioni dello Stato e dai poteri presenti nella cosiddetta società civile. Ma c’è un aspetto toccato nel convegno parigino che vorrei trattare brevemente perché mostra come i denari che vengono tagliati alle istituzioni pubbliche sono invece dati senza tante reticenze alle imprese private. Mi riferisco in particolare al cosiddetto credito di imposta che è una misura presa anche dal governo italiano. Nel 2008 lo Stato francese ha concesso un miliardo e 500.000 euro a quelle imprese che hanno portato avanti ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, con l’intento di introdurre sul mercato merci innotivative e con alto contenuto intellettuale nell’ottica della competizione internazionale. Nel 2009 lo stanziamento è stato aumentato considerevolmente fino a raggiungere i 5,8 miliardi di euro. La cosa interessante è rappresentata dal fatto che lo Stato non ha istituito nessuna forma di controllo per vagliare se le imprese, che richiedono il credito di imposta, hanno fatto effettivamente ricerca ed innovazione tecnologica e soprattutto hanno ottenuto risultati significativi, limitandosi a controlli esclusivamente fiscali. Il governo italiano ha invece assegnato 650 milioni di euro nel 2009 e 400 nel 2010 allo stesso scopo e con le stesse modalità. Da quanto detto si può ricavare ancora una volta, se ce n’era bisogno, che il finanziamento delle istituzioni pubbliche o il loro definanziamento non è legato alle ristrettezze di bilancio, casomai dovute al finanziamento delle cosiddette “guerre umanitarie”, ma è soprattutto il frutto di una ben precisa scelta politica12.

3. Università e società Per concludere vorrei analizzare brevemente la relazione presentata da Teresa de J. Tamayo Prieto e da Odalys I. Abin Matos al panel “L’Educación superior y sus perspectivas” e intitolato “Ubicación del graduado: acceso de los profesionales cubanos a la realidad laboral, desde la perspectiva de sus logros en la Universidad de La Habana”. Menziono questa relazione perché analizza la possibilità di mettere in relazione università e società nel suo complesso, tenendo in conto le esigenze e le aspettative dei laureati nei vari campi, le necessità della popolazione cubana e i bisogni della società nel suo complesso, per favorire lo sviluppo e l’avanzamento del paese in termini non meramente economicistici. Non considero questo modo di procedere un modello indiscutibile - nemmeno i dirigenti cubani lo intendono in questo modo - ma una prospettiva alternativa di pianificazione a quella imposta dal mercato, da discutere e da valutare seriamente e criticamente. In primo luogo, bisogna dire che la ricerca condotta da Tamayo e da Abin si riferisce esclusivamente agli studenti (del quarto anno), che frequentano effettivamente l’università e che si dedicano a tempo pieno allo studio13. Due sono i punti su cui si fonda il lavoro dell’istituto Ubicación del graduado dell’Università dell’Avana, fondato nel 1979-1980: 1) diritto dei giovani laureati ad avere accesso al primo impiego, in cui potersi sviluppare professionalmente e lavorativamente; 2) dovere di svolgere il Servizio sociale e l’Addestramento lavorativo secondo le necessità individuate dal piano di ubicazione lavorativa, per contribuire allo sviluppo e all’avanzamento del paese. Il dovere è inteso come una sorta di risarcimento per le risorse investite dal paese nella preparazione e nell’addestramento del laureato. Il periodo da trascorrere nel Servizio sociale è di circa tre anni ed è remunerato. Dai grafici presentati dalle due relatrici risulta che i laureati nel periodo 1996-2008 sono stati inseriti negli Obiettivi priorizzati dal paese e nei Programmi della Rivoluzione. Le aree lavorative, in essi contenute, sono la cultura (Ministero della Cultura), l’educazione (Ministeri dell’Educazione), la difesa (Ministero delle Forze armate rivoluzionarie e Ministero dell’Interno), il CITMA14 e il Consiglio di Stato (ricerca), la salute (Ministero relativo), il turismo (Ministero del turismo), la giustizia (funzionari pubblici, tribunali) etc. Come si può ricavare da questi dati, il Centro di Ubicación del graduado sviluppa un’indagine a tutto campo, individuando nelle maglie dell’organizzazione economica, politica, culturale e sociale i luoghi in cui è necessario inserire i giovani laureati per sostituire chi ha raggiunto l’età del pensionamento o per rafforzare un certo settore considerato strategico secondo l’orientamento politico-sociale del paese. Non vengono prese in esame solo le capacità lavorative e professionali del laureato, ma anche - potremo dire - le sue qualità umane e si tiene conto anche delle condizioni personali e familiari. Un altro aspetto dell’indagine è rappresentato dal modo in cui i membri della Commissione di ubicazione delle 15 facoltà dell’Università dell’Avana valutano questo sistema di inserimento lavorativo. Sembrerebbe che la valutazione sia sostanzialmente positiva per una serie di ragioni: nella maggioranza dei casi gli impieghi attribuiti corrispondono agli interessi dei laureati, tutti ottengono un impiego, dopo aver compiuto il Servizio sociale molti restano nei posti assegnati. Anche gli studenti intervistati in forma anonima danno valutazioni sostanzialmente positive, che mettono in luce la sicurezza lavorativa, la possibilità di migliorare la loro preparazione lavorando e stando accanto a professionisti preparati, la reciprocità del beneficio ricevuto dalla società e dal laureato; ma accanto a queste valutazioni positive emergono anche elementi negativi come l’impossibilità di scegliere il lavoro, il ritardo con cui talvolta arriva l’assegnazione ad un determinato centro lavorativo etc. Elementi negativi probabilmente ineliminabili nella misura in cui in ogni forma di società l’interesse individuale è sempre subordinato a quello collettivo, con la differenza che nella società cubana quest’ultimo è identificato con quello complessivo delle masse popolari e non con quello di un élite che ha nelle sue mani tutto il potere economico e politico. Come si può ricavare da questo scritto il dibattito sul modello di università da difendere e da promuovere è intenso ed è sicuramente collegato al modello di società che auspichiamo costruire. Mi sembra che i contributi esaminati abbiano ben illustrato il cambiamento radicale che sta subendo la nostra università, che si vuole ridisegnare seguendo le linee del modello che ho chiamato imprenditoriale, la cui unica finalità è quella di incubare imprese e di conseguenza abbandonare tutti quei campi, rappresentati soprattutto dalle scienze umane ma anche dalla ricerca della conoscenza senza altre finalità immediate, i quali per loro natura non garantiscono reddittività o almeno la garantiscono in forma assai limitata. Nonostante la disparità delle forze sia enorme e la mobilitazione del mondo della cultura e dell’università (soprattutto in Italia) non sia travolgente, in questo scritto ho cercato di mostrare che non si tratta solo di difendere quello che resta della nostra università pubblica, ma di prendere sul serio il modello di università democratica e di massa e di proporlo con forza come alternativo a quello a carattere neoliberale. Luca Marsi si appella la principio di resistenza, la quale a suo parere può e deve essere animata dagli stessi caratteri della nostra attività di ricerca e di insegnamento, alla cui base sta sempre la riflessione sui postulati e sulle ragioni dell’attività politica, economica e sociale. Dobbiamo coltivare questo atteggiamento, che fa dell’attività intellettuale un lavoro intrinsecamente politico, perché ci consente di smascherare e di analizzare criticamente il complessivo progetto di società neoliberale, meglio neoliberista, che è inerente al progetto dell’università imprenditoriale e che sta dissolvendo il nostro patrimonio culturale.

1 Facoltà di Scienze Umanistiche, La Sapienza Università di Roma

2 “Università neoliberista o democratizzazione dell’educazione superiore? Due modelli a confronto”, Proteo, n°”, 2006, pp. 39-44.

3 Si pensi agli ingenti finanziamenti andati al cinema hollywoodiano, che nel secondo dopoguerra ha avuto il merito di propagandare l’american style of life. Naturalmente anche oggi esistono nei vari paesi istituzioni volte a questi scopi, fatto che sottolinea il carattere assolutamente non spontaneo del cosiddetto pensiero quotidiano che alimenta le concezioni popolari del mondo.

4 Come è noto tali processi sono documentati anche nei paesi cosidetti emergenti, dove il divario tra le classi si è accentuato ed è sensibilimente aumentato il numero degli indigenti.

5 “El modelo de incubación formativo-social como una estrategia de la articulación de las univerisdades con la sociedad”.

6 È quanto prevede il DDL Gelmini. Di misure analoghe si discute in vari paesi europei, in alcuni casi sono già state prese come con la legge LRU francese (Libertà e responsabilità delle università, 2007).

7 Questo sta avvenendo ormai da vari anni nella Sapienza di Roma, dove vengono assunti ricercatori a tempo determinato finanziati da società economiche ad essa esterne.

8 L’Europa continentale, compresa l’Italia, ha adottato questo modello che affonda le sue radici negli ideali della Rivoluzione francese e del Romanticismo tedesco. Il modello angloasassone, ispirato dal liberalismo classico e dall’utilitarismo, caratterizza invece le università britanniche e quelle statunitensi. Si potrebbe dire che con il processo di Bologna si sta estendendo a tutta l’Europa questo secondo modello, di cui l’università imprenditoriale rappresenta lo sviluppo più recente.

9 Non si tratta di una discussione teorica, ma di misure legislative in discussione o già operanti.

10 A questo proposito ho descritto in un articolo pubblicato su “Critica marxista” (gennaio-febbraio 2004) la politica della Banca mondiale per trasformare l’educazione superiore e le sue istituzioni (Trasformazione dell’università e politiche neoliberiste). Ricordo in particolare la lotta dei ricercatori e dei docenti messicani che hanno cercato di contrastare l’utilizzazione economica dei siti archeologici del loro paese, cercando di garantire la libera fruizione di questi da parte della popolazione e la ricerca archeologica non subordinata a finalità puramente economiche.

11 Nel ’68 si volevano combattere i baroni istituendo un unico ruolo docente. Una rivendicazione che non ha mai raggiunto il suo obiettivo proprio per la cruciale importanza dell’articolazione in caste nella gestione degli atenei. Ancora oggi possiamo dire che senza il ruolo unico non ci può essere democrazia nelle università.

12 Problema cruciale perché legato alla questione dell’autonomia delle università dal potere economico e politico.

13 In Francia la già citata LRU (Libertà e autonomia delle università) non prevede tagli consistenti come quelli previsti dalle ultime finanziarie italiane, stabilisce che ogni università potrà gestire il 100% del budget fornito dallo Stato, prima era solo il 25%. Ma prevede anche la possibilità che le università ricevano fondi da privati. Inoltre, stabilisce, che gli atenei possano diventare proprietari del patrimonio immobiliare da loro utilizzato. Tutto ciò prefigura lo smembramento del sistema nazionale universitario e la sua privatizzazione, giacché i contributori privati faranno inevitabilmente pesare le loro opionini in materia di didattica e di ricerca. Del resto, il Consiglio di Amministrazione sarà formato in parte da esterni, tra quali deve essere annoverato almeno un dirigente di impresa.

14 Vi sono altre modalità di portare avanti gli studi universitari. Per esempio, con il processo di universalizzazione dell’educazione si sta cercando di inserire nell’università anche quei giovani che per motivi personali e lavorativi hanno interrotto gli studi.

15 Centro Investigación Tecnológica y Medioambiental.

Riferimenti bibliografici

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