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Relazioni Cina-Africa: una nuova forma di imperialismo o una nuova forza contro l’egemonia del capitalismo neoliberista?

GIOVANNI ANTONIO ALVES PINTO, MARCOS CORDEIRO PIRES

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1. Introduzione: Cina e PVS

Obiettivo di questo articolo è analizzare la presenza cinese nella scena internazionale per rispondere alla seguente domanda: quale è il ruolo della Cina nelle sue relazioni - derivate dall’alta domanda di materie prime - con i paesi sottosviluppati? L’ingordigia cinese per le materie prime potrebbe essere un sintomo di un imperialismo emergente o, al contrario, di una forza emergente contro l’egemonia che sta danneggiando l’imperialismo europeo e americano? Guardando al crescente interesse commerciale della Cina in Africa - soprattutto per le risorse naturali, sollevando le critiche dei paesi occidentali - il Governo cinese è stato accusato di aver firmato un accordo bilaterale e di aver buttato via gli aiuti finanziari per gli stati che non considerano alcuni concetti, come quello di democrazia e quello dei diritti umani (MOYSES, 2009). Inoltre la ricerca forsennata delle materie prime da parte della Cina è vista come il sintomo di un emergente imperialismo asiatico. Innanzitutto, tale preoccupazione ci sembra ipocrita, visto che questi valori occidentali, usati per giustificare gli interventi militari in Afganistan e Iraq, non sono stati applicati neanche in altri casi. Attualmente i paesi occidentali capitalisti si preoccupano di più della valorizzazione del capitale che della democrazia e dei diritti umani. Quello che provoca il disagio di questi paesi è il fatto che apparentemente un concorrente nuovo, capace di minacciare l’egemonia del capitalismo occidentale, è presente soprattutto nel continente africano. Fin dalle prime forme di colonizzazione via mare nel XV secolo, l’Africa è stata teatro di enormi tragedie a causa della violenza dei conquistatori europei. Da quel momento, e fino alla metà del XIX secolo, l’aspirazione principale in Africa era la capacità di lavoro della popolazione, che è stata imprigionata e portata forzatamente nel continente americano, in cui è stata schiavizzata per lo sfruttamento commerciale europeo. In seguito, con lo storico evento della Conferenza di Berlino, il continente è stato ancora svenduto, stavolta sotto la logica del capitalismo industriale, alla ricerca di materie prime e di un posto in cui far confluire la popolazione europea in eccesso. La Grande Depressione aveva raggiunto le economie centrali (1870/75; 1890/96) e l’aggiunta di nuovi mercati (fornitori e consumatori) era la condizione necessaria per un nuovo ciclo della crescita del capitalismo mondiale3. Le caratteristiche di questo processo erano già state analizzate da Lenin, Rosa Luxemburg e Bukharin, per citare i marxisti. Successivamente, il processo di decolonizzazione, iniziato dopo la seconda guerra mondiale, non era sufficiente a far rialzare il continente. I conflitti civili, sottoprodotti della Guerra Fredda, non hanno favorito la creazione di una società giusta e prospera. Quando è terminata la Guerra Fredda, insieme all’ormai indebolito concetto di “socialismo reale”, c’è stata l’illusione che i conflitti si fermassero e che da quel momento fiorisse un periodo più favorevole. Tale speranza fu rafforzata dalla fine dell’apartheid in Sud Africa e dalla crescita del potere del Congresso Nazionale Africano. Ma una volta ancora le speranze non vennero esaudite. Dopo l’imposizione delle politiche neoliberali, molti paesi africani hanno subito il risorgere di conflitti, come ad esempio nel Golfo del Benin, nelle foreste tropicali del Congo ed inoltre l’apparizione del fondamentalismo nell’Africa musulmana. Per non parlare della devastante epidemia di HIV che uccide larga parte della popolazione attiva e lascia milioni di orfani senza assistenza. Lo sviluppo economico della Repubblica Popolare cinese ha aiutato in qualche modo le economie africane. La grande domanda di materie prime e i tantissimi investimenti nell’area hanno stimolato le economie di paesi come il Mozambico, l’Angola, il Sudan, la Nigeria, la Namibia, il Sud Africa e altri. Il ruolo del continente africano nella politica internazionale cinese è dimostrato dai recenti viaggi del Presidente Hu Jintao (aprile 2006 e febbraio 2007) e dal Forum di Cooperazione Cina-Africa, che ha riunito, a Pechino, i rappresentanti di 48 paesi africani. Di fronte a tutto ciò, ci si pone la seguente domanda: l’interesse cinese è un’occasione positiva per gli africani o è l’ennesima forma di imperialismo? Introduciamo degli elementi per rispondere alla domanda, che è il punto centrale dell’articolo.

2. Il processo di deconolonizzazione e la lunga crisi africana In Africa, la crisi del modello coloniale ha avuto inizio con la crisi del 1929, che ha portato alla recessione del mercato internazionale e ha danneggiato gravemente i paesi dipendenti dalle esportazioni delle materie prime, cosa peraltro avvenuta anche in America Latina. Però diversamente da quanto accaduto nel continente sudamericano, i paesi africani non possono dare inizio a un processo di sostituzione delle importazioni a causa delle limitazione nelle metropoli che cercano di proteggere il loro complesso industriale. Un altro elemento fondamentale per la crisi del modello coloniale è stato lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Le potenze colonialiste come l’Inghilterra, la Francia e il Belgio sono state direttamente coinvolte nel conflitto. La prima ha visto le sue energie consumarsi su tre fronti: Europa, Nord Africa e Asia. La Francia e il Belgio, occupate dai tedeschi, hanno perso la loro capacità di conservare gli imperi oltre oceano. Inoltre, come un’eredità della Seconda Guerra Mondiale, il discorso razzista e colonialista si è indebolito dalla sconfitta del Nazismo e dalle sue tesi discriminatorie in materia di conflitto. Il processo di decolonizzazione dei paesi africani ha beneficiato degli avanzamenti raggiunti dai paesi asiatici, allontanandosi così dal dominio europeo. L’indipendenza dell’Hindustan (India, Pakistan e Sri Lanka), la Rivoluzione cinese e la Guerra di Indocina hanno influenzato il Movimento di Liberazione Nazionale del continente africano, che ha messo in evidenza la lotta del popolo arabo contro il dominio europeo (Algeria, Marocco, Egitto, Tunisia e Libano). A questo proposito bisogna ricordare la Conferenza di Bandung, avvenuta in Indonesia tra il 18 e il 24 aprile del 1995, sotto la responsabilità dell’Indonesia, dell’India, del Myanmar e del Pakistan. Il suo obiettivo era la cooperazione economica e la promozione culturale tra Africa e Asia, in opposizione all’imperialismo delle superpotenze di allora, Unione Sovietica e Stati Uniti. Da quel momento in poi, i Movimenti di Liberazione Nazionali hanno provato ad agire all’interno della colonia, ossia, senza affrontare i problemi derivati dalle divisioni territoriali arbitrarie imposte dalle potenze imperialiste, soprattutto per quanto riguarda le divisioni etniche. L’obiettivo di questi movimenti era quello di creare degli Stati-Nazione seguendo la struttura degli altri paesi del mondo, stabilendo un proprio territorio, una valuta ed un esercito. È stata un’operazione significativa, considerando che la popolazione autoctona istruita, necessaria per la costruzione di una società moderna, si limitava ad una parte quasi insignificante, poiché i governi coloniali aveva da sempre negato l’accesso all’educazione tecnica e all’università. Inoltre, bisogna parlare di una grande difficoltà prodotta dalle economie non strutturate a causa delle guerre d’indipendenza. In molti casi, la vittoria di questi movimenti è avvenuta dopo le guerre d’indipendenza e con la mancanza di accordi di pace. Questo ha compromesso la giusta produzione e distribuzione delle merci, aspetto fondamentale dopo l’indipendenza. Un terzo aspetto da considerare è stato lo scoppio delle guerre civili subito dopo l’indipendenza. Il Movimento africano di Liberazione Nazionale ha visto la vittoria solo nel 1990, quando il regime razzista del Sud Africa è stato sconfitto. La fine della Guerra fredda ha dato molte speranze alle nazioni africane, soprattutto per la fine dell’apartheid, che ha significato non solo la nascita di un governo democratico ma anche la fine del supporto ai gruppi armati che provocavano i paesi confinanti. La liberazione di Nelson Mandela e l’elezione di un governo d’opposizione al regime, il Congresso Nazionale Africano, nel 1994, dovrebbero essere celebrati come un successo per tutto il continente africano. Comunque, l’euforia è durata molto poco. La disillusione è subentrata con l’adozione, da parte dei paesi africani, delle imposizioni dell’FMI e della Banca Mondiale, ossia politiche che promuovevano riforme strutturali volte a far confluire questi paesi nella globalizzazione produttiva e finanziaria che si è rafforzata molto con la caduta dell’URSS. Per i paesi più poveri l’apertura del mercato agricolo ha significato la fine della produzione tradizionale. Come se non bastasse, le donazioni di prodotti alimentari da parte dei paesi ricchi hanno reso la situazione ancora peggiore, poiché i settori che cercavano di ammodernarsi hanno dovuto affrontare una concorrenza molto aggressiva. Paesi come il Mozambico, la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia hanno iniziato ad avere una parte significativa della popolazione senza nessuna opportunità di sussistenza che ben presto divenne dipendente dagli “aiuti internazionali”. A causa delle politiche neoliberali, il paese più ricco della regione, il Sud Africa, ha avuto un reddito interno stagnante; il paese ha cercato di mantenere il valore del tasso di cambio e il tasso dei grandi interessi, diventando così terreno difficile per il capitale finanziario. Inoltre, gli investimenti promossi non sono mai arrivati, a causa del fatto che il continente, sin dagli anni ‘90, si trovava ai margini della globalizzazione. Nel 2003, il continente ha avuto solo il 2% degli investimenti esteri, poiché la parte più importante era andata ai paesi produttori di petrolio (UNCTAD, 2005). Oltre alla crisi economica ci sono altre due “epidemie” che stanno flagellando l’Africa: l’HIV e i conflitti etnico-religiosi che decimano la popolazione. Il bilancio economico del periodo che va dal 1950 al 2000 è stato davvero drammatico. La frustrazione è nata dalle speranze deposte dai processi di indipendenza nazionale. Le rovine di 500 anni di esplorazione europea erano aumentate. Le guerre civili, la fame, le politiche economiche e l’HIV hanno contribuito alla delusione che sta lentamente uccidendo i cittadini africani. Proprio in questo contesto constatiamo una nuova forma di influenza della Repubblica cinese sul continente africano.

3. La presenza cinese in Africa: un nuovo modello imperiale o un modello contro l’egemonia neoliberista? Nell’ultimo decennio, la comunità internazionale sta affrontando le conseguenze della partecipazione della Cina nell’economia mondiale. I temi principali che disturbano l’ordine mondiale hanno in Cina un’ancora molto importante che serve a regolare la pressione tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. D’altro canto la Cina ha cercato di ampliare le sue relazioni commerciali nei settori di sua stretta influenza, come ad esempio in Africa e Sud America, con l’obiettivo di assicurare la base del suo sviluppo economico (PEOPLE DAILY, 2005). Nel novembre del 2006, si è svolto a Pechino un summit del Forum di Cooperazione Africa-Cina che ha visto la presenza di 48 capi di Stato africani, oltre al Presidente Hu Jintao. Questo è stato il quinto incontro dal 2000; l’obiettivo era quello di rafforzare la cooperazione economica tra la Repubblica Popolare cinese e il continente africano. In Africa, lo sviluppo cinese si sta riflettendo in modo decisivo. Gli scambi dall’Africa alla Cina sono passati dagli 11 miliardi di dollari nel 2000, ai 55 miliardi nel 2006. Per quanto riguarda l’Angola - il secondo paese che fornisce il petrolio alla Cina - lo scambio ha raggiunto gli 11 miliardi nel 2006 (è dietro solo all’Arabia Saudita). Bisogna sottolineare che, dal punto di vista economico, l’Africa sta incrementando il potere commerciale cinese. Per i paesi periferici, la richiesta cinese è molto importante. Dal punto di vista politico, soprattutto per quanto riguarda i negoziati dell’OMC, la Cina ha usato i paesi sottosviluppati per fare pressioni a proposito delle politiche protezioniste del settore agricolo dei paesi industrializzati.

Nel 2007 (vedere GRAFICO 1) il flusso di scambi commerciali con l’Africa ha raggiunto 73.6 miliardi di dollari, con un aumento del 32% rispetto all’anno precedente. Ciò rappresenta il 3,3% del totale della Cina, mentre i paesi latinoamericani, come il Brasile, l’Argentina o il Messico, il 4,7% (NBS, 2008). Un altro aspetto importante sono gli investimenti cinesi diretti alla regione. “Tra il 2003 e il 2004, gli investimenti esteri cinesi diretti in Africa sono aumentati del 300% (dati più recenti disponibili), diventando circa 900 milioni di dollari, secondo uno studio della Banca Mondiale. L’importo, anche se piccolo rispetto alla quantità di investimenti cinesi nel resto del mondo - 45 miliardi di euro nel 2004 - continua a crescere e ha raggiunto 1,18 miliardi di dollari nel primo semestre del 2006. ‘La Cina da sola investe molto di più nelle infrastrutture africane rispetto a tutti i paesi ricchi messi insieme’, ha detto David Dollar, Direttore Nazionale della Rappresentanza della Banca Mondiale per la Cina e la Mongolia alla BBC brasiliana” (WENTZEL, 2006) (T.A).

L’influenza cinese sta causando preoccupazione agli Stati Uniti e all’Unione Europea, tradizionali partners commerciali della regione. I prestiti di Stato cinese a paesi come il Sudan, stravolto dalla guerra del Darfur, sono preoccupanti perché sono stati elargiti senza nessuna condizione, senza che il governo di Khartoum imponesse un negoziato alla guerriglia cristiana. Al di là di questo, gli europei e gli statunitensi accusano i cinesi di mantenere, attraverso i loro prestiti, i governi “corrotti” e “dittatoriali” del continente, scoraggiando le politiche di istituzioni come la Banca Mondiale e l’FMI che richiedono “trasparenza” nella distribuzione di denaro pubblico, la cosiddetta politica del “buon governo”. Come afferma Hanson (2008): “Gli osservatori internazionali dicono che il modo in cui la Cina fa affari - soprattutto per la loro disponibilità a pagare tangenti, come è documentato dalla Transparency International, e per il fatto di non assegnare condizioni per gli aiuti in denaro - mina gli sforzi locali che hanno l’obiettivo di favorire una società e un governo giusto e quelli internazionali gestiti dalla Banca mondiale e dall’FMI che lavorano a una riforma macroeconomica”.

Ora dal punto di vista africano e cinese la domanda dei poteri occidentali viene vista come un retaggio dell’imperialismo. Cercare di far guadagnare entrambi le componenti fa parte della politica cinese di non interferenza negli affari interni. Inoltre, agli scambi commerciali sono seguiti programmi di assistenza tecnica in diversi settori della società, come la sanità e le infrastrutture. Bisogna ricordare che la presenza cinese in Africa risale agli anni in cui la Cina maoista sosteneva sia i movimenti di liberazione nazionale sia i nuovi governi nati dopo l’indipendenza. Ad esempio, il Mozambico, la Tanzania e il Zimbabwe hanno ricevuto aiuti tecnici e militari. La Cina, negli ultimi dieci anni, ha costruito nel continente 19 scuole, 38 ospedali e stadi con 760.000 posti a sedere (XINHUA, 2007). Le linee guida che regolano i rapporti tra Cina e Africa - che assomigliano alla “missione di civilizzazione” europea - possono essere così riassunti (HU JINTAO, 2006): • i principi si basano sulle relazioni tra Africa e Cina, sulla cooperazione, l’amicizia, l’onestà, l’uguaglianza, i guadagni reciproci, l’unità, il progresso comune; • fondamentali sono i principi della coesistenza pacifica: rispettare il modello di sviluppo scelto dai paesi africani e supportare il potere complessivo; • uguaglianza e guadagni reciproci: sostenere lo sviluppo economico e la costruzione dei paesi africani, gli scambi economici, sociali e lo sviluppo comune; • favorire la cooperazione: rafforzare in Africa la cooperazione multilaterale durante il Consiglio d’Amministrazione dell’ONU. È necessario che la comunità internazionale lavori per la pace e per lo sviluppo africano; • imparare gli uni dagli altri e cercare uno sviluppo comune: fondamentale è lo scambio delle esperienze nella gestione e nello sviluppo; rafforzare il settore scientifico, culturale ed educativo, per arrivare ad uno sviluppo sostenibile; • il principio di “una sola Cina” costituisce una base politica per la Cina per stabilire e sviluppare le sue relazioni con i paesi africani e con le organizzazioni della regione. Il governo cinese apprezza il fatto che i paesi africani rispettino il principio di “una sola Cina”, che non abbiano rapporti ufficiali con Taiwan e che supportino la Fondazione per la riunificazione dei paesi. La Cina è pronta a stabilire e a sviluppare relazioni diplomatiche con tutti i paesi con cui non avevano relazioni diplomatiche a causa del principio di “una sola Cina”.

Per il continente africano il rapporto con la Cina ha sicuramente avuto effetti positivi. Non si tratta di annunciare un nuovo “internazionalismo proletario”, visto che la diplomazia cinese si basa sulla modernizzazione della politica interna. Tuttavia, dopo essere state relegate nelle zone periferiche del mondo, le economie africane stanno vivendo un momento dinamico in cui riescono a raggiungere tassi di crescita molto più alti della media mondiale. Nel 2005, la media del continente è stato del 5,2%. D’altra parte è il rapporto con la Cina che consente ai paesi africani di ridurre la fortissima dipendenza che esiste ancora verso l’Europa e gli Stati Uniti. Ed è proprio questo schierarsi del governo cinese contro l’egemonia neoliberista mondiale che irrita i poteri capitalisti. Forse per tale motivo gli analisti occidentali mettono in dubbio la presunta “buona volontà” cinese, dicendo che l’unico fine dello stato asiatico è quello di ottenere fonti sicure di materie prime, soprattutto di petrolio, e di trovare nuovi mercati per i loro prodotti (beni di consumo e armi). Inoltre, la Cina viene accusata di negligenza a proposito dello sforzo internazionale di contenere i governi dispotici e di instaurare governi democratici (BRAUTIGAM & GAYE, 2007; PAN, 2007). In un certo senso gli occidentali provano a vedere nei cinesi ciò che vedono in loro stessi.

3. Brevi conclusioni Non si possono trarre delle conclusioni certe circa il processo in corso, soprattutto a causa del breve periodo di analisi. Tuttavia possiamo asserire che, dopo decenni di forte instabilità, ora l’economia africana sta vivendo un momento sicuramente migliore. Non stiamo parlando dell’ipotesi, nel continente, di un periodo di forte sviluppo economico o di un cambiamento strutturale. La domanda cinese ha illuminato una struttura coloniale simile che era in crisi soprattutto dopo il periodo della Guerra Fredda. Tuttavia c’è qualcosa di diverso nell’approccio cinese visto che le basi della cooperazione sono sì l’acquisto di materie prime ma anche i programmi di cooperazione tecnica in diversi settori. Inoltre, nel continente africano i cinesi non sono visti come i responsabili di 500 anni di sfruttamento coloniale, cosa che di per sé potrebbe far nascere nuovi tipi di rapporto totalmente diversi da quelli dell’imperialismo occidentale (statunitense ed europeo). La Cina, durante il periodo imperiale, non ha adottato politiche espansionistiche e aggressive nei confronti dei suoi vicini, tanto meno verso paesi lontani dalla sua storica area di influenza. E poi guardare il passato non significa predire il futuro. Traduzione Violetta Nobili

1 Professore di Antropologia e Sociologia nel Dipartimento FFC - UNESP - Marília.

2 Professore di Storia Economica - FFLCH-USP. Professore di Economia e Scienze Politiche nel Dipartimento - FFC - UNESP - Marília.

3 È interessante osservare l’analisi di Wilson do Nascimento Barbosa per cui nelle fasi inferiori dei lunghi cicli di Kondratieff, i paesi dell’Europa centrale rafforzano la competizione e tendono a forzare l’apertura al di fuori dei limiti stabiliti per il superamento della crisi.

Riferimenti bibliografici

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