Rubrica
L’ analisi-inchiesta

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Luciano Vasapollo
Articoli pubblicati
per Proteo (48)

Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Argomenti correlati

Nella stessa rubrica

Analisi statistico-economica dei mutamenti strutturali e localizzativi dello sviluppo del sistema socio-economico italiano
Luciano Vasapollo

 

Tutti gli articoli della rubrica: analisi-inchiesta(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Analisi statistico-economica dei mutamenti strutturali e localizzativi dello sviluppo del sistema socio-economico italiano

Luciano Vasapollo

Formato per la stampa
Stampa

Diventa così determinante l’analisi dell’organizzazione del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto industriale e sociale, dei rapporti tra le imprese e tra queste e le istituzioni centrali e locali, della struttura economica dell’area e le nuove determinazioni sociali del mercato del lavoro.

Se nella realtà attuale viene a cadere il legame indissolubile fra impresa e imprenditore, se predominante diventa lo studio della funzione sociale e la nuova logica territoriale dell’attività imprenditoriale rispetto alla figura tradizionale della fabbrica e dell’imprenditore, allora anche le scienze quantitative devono elaborare metodi, modelli, indicatori capaci di indagare questa diversa, moderna funzione di regolamentazione e di governo della società.

L’applicazione di un più puntuale coefficiente per la determinazione della localizzazione imprenditoriale introdotto in questo lavoro conduce a diverse e più articolate conclusioni rispetto ad altri studi similari. I risultati ottenuti evidenziano infatti la presenza in tutto il Paese di soli 22 bacini a dotazione imprenditoriale “ più che sufficiente”, in grado quindi di “esportare” la funzione imprenditoriale riferita al totale delle attività produttive. Tali bacini, tra l’altro, sono molto decentrati sul territorio nazionale (11 al Nord, 4 al Centro e 7 nel Mezzogiorno) non accorpandosi mai in vere e proprie aree a carattere contiguo. Quella che evidenzia forti caratteri di contiguità è la “mappa” della sottodotazione imprenditoriale che interessa con pari intensità, e livelli di concentrazione, le varie suddivisioni geografiche del Paese. Si tratta di ben 226 bacini “importatori” di imprenditorialità complessiva, riferita cioè all’insieme di tutte le attività economiche considerate. Fra questi appaiono 83 bacini definiti a dotazione imprenditoriale “molto bassa”, collocati prevalentemente nell’Italia Meridionale ed Insulare.

Sinteticamente, quindi, i coefficienti di localizzazione imprenditoriale a carattere generale se da una parte evidenziano una significativa e altamente diffusa sottodotazione imprenditoriale riguardante tutto il Paese, anche se maggiormente accentuata al Sud, dall’altra parte non mettono in evidenza la presenza di concentrazioni di bacini ad alta imprenditorialità formanti vere aree territoriali a forte dotazione imprenditoriale, ma l’esistenza di 22 bacini “esportatori” (di cui solo 5 costituiscono poli imprenditoriali) isolati, sparsi sul territorio nazionale.

Tali indici ben si adattano a rappresentare la differenzazione spaziale nella struttura socio-economico-culturale dell’impresa, la geografia delle imprese e la loro concentrazione territoriale; ma nulla possono dire sulla caratterizzazione sociale della nuova imprenditorialità, sulla diffusione territoriale di una funzione imprenditoriale intesa in un contesto di ridefinizione del modello del capitalismo italiano in una realtà in cui appare superato il concetto di “unitarietà” imprenditoriale, cioè il concetto di un’impresa che è tutt’uno con l’imprenditore.

I profondi mutamenti in atto nella vita politica, sociale, economica e aziendale, pur apportando nuovi ed importanti elementi al dibattito, spesso a causa di valutazioni non corrette hanno introdotto nel già confuso dibattito ulteriori motivi di confusione, fino al punto di considerare come sviluppo di nuova imprenditorialità anche l’apparire sulla scena produttiva di nuove figure che dell’imprenditore assumono solo le forme suggestive indotte dalla pubblicistica ufficiale e dai modelli comunicazionali del pensiero neoliberista.

Ma l’attuale contesto economico-sociale, le nuove forme di presentarsi del modello di sfruttamento dell’economia capitalista, tende ad ostacolare una convincente lettura di classe dell’attuale società a tutt’oggi non si sono ancora ben delineati i contenuti della trasformazione economica in atto, anche nel campo della nuova imprenditorialità. Si configurano così spesso figure economiche e sociali che ancora sono oggetto di studio indefinito, poco concreto, dai contenuti non delineati, che sicuramente nulla hanno a che fare con il ruolo economico-sociale dell’imprenditore.

Anche oggi, nel momento in cui le varie componenti economiche, politiche e socio-culturali si sforzano per rilanciare nel nostro Paese una figura imprenditoriale con ruoli e contenuti fortemente innovativi, si nota,nonostante gli sforzi,una staticità dottrinale di impostazione che,aggiunta alla ancor presente diversità e contrapposta lettura dei fenomeni economici ed aziendali, finisce con l’attribuire alla funzione imprenditoriale falsi contenuti di realizzazione sociale, riproponendo contributi scientifici scontati e compatibili agli attuali processi ridefinitori del capitale, ma comunque non riferibili alla concreta realtà socio-economica che ancora una volta va interpretata in termini di classe.

Va sempre ricordato che l’imprenditore, in quanto istituzione economica capitalistica, agisce all’interno di istituzioni economico-sociali, svolgendo un’attività intenzionale diretta alla messa in pratica di propri processi decisori, al fine di realizzare propri determinati obiettivi prefissati e adattati al complesso delle condizioni sociali e ambientali, comunque finalizzati alle compatibilità del mercato e del profitto. In questa chiave di lettura la funzione di classe degli imprenditori può sussistere al di là della presenza o meno della struttura di impresa intesa nel senso classico.

In questa prospettiva è evidente che per la realizzazione dell’attuale modello neoliberista può essere assolutamente compatibile, e anzi molto più funzionale, la rottura di quella che prima veniva reputata un’unità indissolubile fra impresa e imprenditore, legame sostanziato dall’attività produttiva rivolta al mercato.

Allora gli incrementi di imprenditorialità che emergono dalla ricerca presentata nel precedente capitolo vanno interpretati come causati soprattutto dallo spropositato aumento di “partite IVA”, che ormai superano ampiamente i sette milioni di iscrizioni, e che altro non sono che “ditte individuali”, le quali rappresentano il cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione. Si tratta nella maggior parte dei casi di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro , espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, fuori dalle garanzie normative e retribuite del lavoro dipendente. Dietro l’illusione del “fai da te”, dell’”autoimprenditorialità”, della libertà economico-sociale derivante dell’autocelebrazione di farsi “imprenditori di se stessi”, troviamo sempre una nuova forma di lavoro subordinato, privo di normativa, un supersfruttamento a cottimo, con la mancanza assoluta di garanzie sociali a causa della mancanza di coperture assicurative (sanità, pensione, infortunistica, assistenza varia).

La realtà economica è in rapida e ineluttabile evoluzione, ma tende a rendere sempre più evidente la linea di demarcazione fra proprietà- capitale e una classe dei lavoratori che non può accettare coinvolgimenti nel controllo-governo dell’impresa. In tal senso spesso le nuove figure dell’imprenditore individuale, raffigurato come detentore del capitale ma anche di spirito di iniziativa, creatività, innovazione, abilità, assunzione del rischio, spregiudicatezza, rimane confinata ad una forma atipica di impresa, che al pari di molte forme della cosiddetta economia sociale e della partecipazione, altro non sono che accettazione voluta o incosciente a quelle compatibilità funzionali alla crisi quantitativa di accumulazione che il capitale sta attraversando.

A questa logica risponde anche la visione e il ruolo che si vuole dare al cosiddetto “Terzo settore”, e si badi bene che tale importanza strategica attribuita al non-profit in generale proviene da riconoscimenti effettuati nientemeno che dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione Agnelli, dai vertici della Chiesa Cattolica, dal mondo delle fondazioni bancarie e finanziarie. La tendenza sembra essere quella di una economia dai due volti: nel primo si persegue esclusivamente il profitto con i conseguenti costi sociali in termini di esclusione ed emarginazione; esclusione che dovrebbe venir recuperata dalla logica solidaristica del Terzo settore. Un Terzo settore in mano alle fondazioni bancarie, in maniera diretta o indiretta, che a partire dalla tensione etica viene utilizzato dal consociativismo neo-liberista per precarizzare e flessibilizzare il lavoro diminuendone nel contempo la forza contrattuale e calmierando così le tensioni e gli incrementi salariali; realizzando indirettamente profitto attraverso il controllo dell’impresa e della cooperazione sociale, sfruttando anche in termini fiscali le donazioni a fini solidaristici; allargando le possibilità di finanziamento e di distribuzione dei trasferimenti pubblici su quelle imprese sociali legate al mondo politico-affaristico. Si tratta quindi di un uso strumentale del Terzo settore finalizzato alle regole dell’efficienza capitalistica con l’utilizzo dell’economia non profit che si sostituisce al ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti nell’ottica di uno Stato basato esclusivamente sulle regole dell’economia del profitto affiancate da elargizioni caritatevoli compatibili con il sistema.

Ciò risponde ai criteri ridefinitori e di compatibilità dei processi innovativi d’impresa fortemente interagenti con il territorio e con il sociale e che permeano il tessuto di classe attraverso l’imposizione di direttrici e funzioni decisorie inerenti la localizzazione e la diffusione dell’economia e della cultura di un nuovo e apparentemente più socializzante modello capitalistico.

La dinamicità funzionale, la ricerca continua di sviluppo attraverso l’individuazione del territorio come luogo dove diffondere la cultura imprenditoriale, è l’elemento chiave di uno sviluppo incentrato sulla logica e sulle compatibilità stesse dell’impresa. Attraverso le successive e continue fasi di adattamento, la funzione imprenditoriale si diffonde soprattutto anche in termini di imposizione dell’agire aziendale sul sociale ai diversi contesti territoriali, intesi in senso socio-economico e storico, in cui l’azienda è inserita.

Il territorio, lo spazio e il suo studio, i modelli localizzativi, la conoscenza socio-politica della geografia dello sviluppo, sono ormai variabili fondamentali dell’agire di classe, rappresentano anzi vere e proprie risorse per attuare con successo le strategie di un nuovo e diverso antagonismo sociale. Si tratta di conoscenze irrinunciabili per pensare in termini reali e praticabili ad un intervento capace di riproporre l’unità di classe del lavoro, a partire dalla comprensione delle trasformazioni del capitale per poter realizzare la trasformazione dell’agire economico, sociale e politico al fine di realizzare processi di uno sviluppo con immediati connotati di fuoriuscita dalle compatibilità del mercato e della sostenibilità del modello dell’impresa capitalista.

Per poter riflettere, studiare ed agire in tal senso bisogna assolutamente capire ed interpretare che nel nuovo modello di sviluppo liberista sono individuabili intorno alla centralità delle imprese i ruoli esercitati da nuove categorie di agenti, da nuovi soggetti compatibili e incompatibili che tale modello crea: gli imprenditori terminali e marginali (spesso lavoratori autonomi di seconda generazione), che costituiscono l’ambito di connessione tra il mercato e i circuiti interni all’universo locale; contoterzisti, lavoratori a nero, precari, sottoccupati, lavoratori a partita IVA di breve durata, tutti operatori prevalentemente specializzati in lavorazioni monofase; lavoratori dipendenti, quasi sempre a forte specializzazione, che assumono sempre più spesso la veste di cogestori, di nuovi cottimisti corporativi con una radicata etica del lavoro ed una diffusa propensione ad accumulare specializzazioni anche a fini di mobilità verticale e che aspirano a “mettersi in proprio”, ad accettare il nuovo ruolo di finti imprenditori; lavoratori a domicilio, spesso sottopagati, senza garanzie, cottimisti e lavoratori a nero che vengono utilizzati in ambito di integrazione multidimensionale tra attività economica delle imprese e vita familiare, riproducendo forme di ricatto sociale e al mondo del lavoro, affermando una falsa socialità d’impresa; istituzioni che hanno contribuito alla armonizzazione dei processi socio-economici attraverso l’erogazione di servizi e la mediazione politica funzionale esclusivamente alle leggi di mercato, asservitealladeterminazione sociale della centralità del profitto.

Tutto ciò è finalizzato non tanto alla competitività d’impresa ,né al miglioramento delle opportunità occupazionali e della qualità del lavoro, tanto meno alla modernizzazione ed efficienza del sistema Paese nel suo complesso, quanto alla costruzione di una società in cui le speranze di sviluppo siano esclusivamente affidate al mercato, un mercato che sappia regolare se stesso, libero da vincoli e da controlli. È questa la scommessa per i prossimi decenni che la nuova strutturaconsociativa del nostro Paese sta giocando: l’affermazione economica , ma soprattutto di consenso sociale al modello del pensiero unico di mercato, ad un capitalismo capace di realizzare un nuovo patto sociale che si faccia “divinità sociale”, cioèfilosofia di vita ispiratrice dell’unico modello di sviluppo possibile e giustificato dalle capacità di autoregolamentazione del mercato.

Lo studio-inchiesta proposto nei capitoli precedenti è servito per avere un riscontro empirico dell’esistenza di economie del territorio concentrate in aree non contigue, ma la conclusione conduce alla evidenziazione e alla verifica di ipotesi socio-politiche sulla loro natura e sul loro ruolo. Si giunge allora a capire che la piccola impresa è una realtà eterogenea perché risponde ad una pluralità di funzioni che ne consentono l’esistenza nel capitalismo maturo, e tale configurazione aziendale risponde a specifiche esigenze di ristrutturazione del capitale internazionale, ma che trovano in alcune zone dell’Italia alcune peculiarità per uno sviluppo esplosivo. Ciò perché esistono meccanismi di sopravvivenza della piccola impresa comuni ai capitalismi contemporanei, ma che trovano terreno fertile in contesti in cui il mercato del lavoro assume dinamiche particolari. È per questo che si sviluppano fenomeni economico-produttivi derivanti dall’importanza della valutazione della collocazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro oltre che del capitale.

Esiste quindi una stretta correlazione tra fenomeni economici e fenomeni sociali, non è un caso che nel tanto decantato Nord-Est convivono forme di aristocrazia operaia, superspecializzata e ben pagata, che identifica i propri destini con quelli dell’imprenditore, e forme di lavoro sottopagato, senza garanzie, lavoro nero, precario e flessibile anche nella remunerazione oltre che nei tempi e nei modi di lavoro. Si spiega così, e non solo nella dicotomia Nord-Sud, il carattere dualistico dello sviluppo italiano, che sconta sottosviluppo in molte sue parti territoriali e sociali in funzione dei modi di accumulazione del capitale che si correla allo sviluppo ritardato e dipendente del capitalismo italiano rispetto al resto dell’occidente. Ciò, per esempio, contribuisce a continuare a provocare una crescita particolare della piccola impresa che si era sviluppata come risposta alle lotte operaie degli anni ’60 e ’70, realizzando così un modello istituzionale, funzionale e voluto dal capitalismo italiano al sol fine di attuare strategia di controllo sulla classe operaia e di compressione del conflitto sociale.

È a partire da tali modalità di lettura che si possono correttamente interpretare i fenomeni fondamentali del processo di trasformazione che ha portato ad una redistribuzione territoriale delle attività industriali e produttive in genere, a partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto le modalità delle dinamiche dello sviluppo geo-economico collegate e finalizzate al controllo sociale.

La depolarizzazione produttiva, lo sviluppo economico-demografico non metropolitano, la deindustrializzazione accompagnata da processi di delocalizzazione e decentramento territoriale, la deconcentrazione produttiva caratterizzata dalla diminuzione delle dimensioni d’impresa, dalla deverticalizzazione e scomposizione dei cicli produttivi, la formazione e sviluppo di sistemi produttivi locali accompagnati da alta specializzazione, piccola dimensione, interrelazioni produttive; tutto ciò non deriva da una natura “fisiologica” del processo di diffusione territoriale, poiché questa invece va vista come il risultato di alcune contraddizioni del precedente modello di sviluppo, di particolari condizioni esogene ed endogene alle aree di “diffusione”, dai processi di ridefinizione del modello e del progetto del capitalismo italiano. Nel nuovo modello assumono forte rilevanza i processi endogeni di sviluppo che sono specifici di particolari formazioni sociali e territoriali, che facilitano le dinamiche di ristrutturazione di un capitalismo sempre più basato sulla crescita di un’imprenditoria locale. Tra le condizioni esogene che favoriscono la “diffusione” va allora evidenziato il forzato incremento di produttività del lavoro dovuto al ruolo delle nuove tecnologie non più incorporate in grandi impianti (diffusione orizzontale), la crisi provocata dei mercati di prodotti standardizzati nonchè l’abbassamento delle barriere all’entrata di nuove imprese. Quindi piccola impresa e sviluppo diffuso caratterizzano un nuovo modo di organizzare la produzione con profonde caratteristiche autonome, ma sempre basate su forme più o meno sofisticate di aumento dello sfruttamento della forza lavoro.

La redistribuzione territoriale non è determinata da un semplice decentramento del capitale o prodotta esclusivamente dalla valorizzazione di risorse locali ma è dovuta soprattutto ad intensi processi di ristrutturazione del capitalismo italiano che, alla ricerca della competitività sul piano internazionale, determina efficienza a partire soprattutto dall’imposizione di forte mobilità spaziale e settoriale della forza-lavoro e dalla diversificazione dei progetti di flessibilità del lavoro e del salario.

L’analisi va quindi riportata sul piano delle relazioni industriali, si individuano così i caratteri strutturali dei sistemi produttivi locali basati sul lavoro specializzato; sull’intensificazione dei ritmi, sull’elevata divisione del lavoro, sulla spinta alla specializzazione produttiva, sulla molteplicità dei soggetti economici locali, molti dei quali non garantiti, con rapporti di lavoro saltuario, con precarizzazione del lavoro e del reddito, sulla diffusa professionalità dei lavoratori accompagnata, per i lavori “più miseri”, da commesse esterne con forte componente di lavoro nero e sottopagato; sulla diffusione dei rapporti “faccia a faccia” senza intermediazioni sindacali.

Va allora sottolineato che se è vero che il sistema locale giunge a livelli elevati di sviluppo tendendo ad allargarsi a comparti e settori merceologici diversi, dando luogo non ad una despecializzazione bensì al rafforzamento e a un approfondimento del sistema originario con un aumento dell’integrazione intersettoriale locale, questo però determina condizioni dinamiche di sopravvivenza imponendo un modello in continuo cambiamento non solo delle attività produttive, ma soprattutto generando nuove soggettualità economiche a forte differenziale di trattamento retributivo e sociale, andando sicuramente ad allargare le forme marginali e non garantite del lavoro.

La condizione fondamentale per il consolidamento del sistema locale è sancita allora da variabili quali l’innovazione tecnologica-organizzativa, il sistema informativo sviluppato, un alto ricorso alle risorse immateriali, ma soprattutto dalla capacità di controllo del mercato del lavoro, di deregolamentazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro, da flessibilità delle remunerazioni, infine cioè da forme di regolazione sociale compatibili con il nuovo assetto produttivo, espellendo ed emarginando le soggettualità sociali non omologabili, conflittuali e non compatibili. E allora il modello di sviluppo locale si adatta, si trasforma in una molteplicità di localismi nel tentativo di piegare comunque la “resistenza” della forza lavoro e dei soggetti sociali.

La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni; diventa allora strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un diverso modello di sviluppo in cui strategiche siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.

Riverticalizzare il conflitto sociale significa porsi immediatamente il problema della socializzazione dell’accumulazione, quindi il problema della ridefinizione dei meccanismi del potere economico-sociale. Riverticalizzare lo scontro significa ripartire dalla reale democrazia partecipativa politica ed economica, ma non vista come semplice intervento dei lavoratori nella partecipazione di natura passiva ai flussi finanziari, ai profitti o al capitale, ma una partecipazione che a partire dai nuovi bisogni, dalle necessità e dalle domande provenienti dal basso realizzi concreti processi decisionali, rimettendo in discussione lo stesso concetto di proprietà in uso nell’economia moderna e il suo meccanismo di allocazione. Si tratta in un’ultima analisi di realizzare una nuova e più avanzata ricomposizione di classe, un’unità di classe a partire dalle nuove povertà, dai nuovi soggetti marginali, emarginati e non compatibili per proporre da subito la nuova questione sociale con al centro una rielaborazione scientifica per rilanciare battaglie offensive sulla socializzazione dell’accumulazione.