I partiti tra reinvenzione e rinnovamento
Mauro Fotia
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Entrambi i riduzionismi si allontanano dalla realtà. Per
accostarsi ad essa, occorre cercare invece un punto di sutura tra l’istanza di
anteriorità e la capacità contestuale di trovare forme di partecipazione
politica, ambedue presenti nella società civile.
La capacità di cui parliamo dà vita ad associazioni,
aggregazioni, movimenti vari in seno ai quali, si badi, matura un tipo di
professionalità politica a volte più autentico di quanto non riesca ad aversi
dentro i partiti. Proprio per il fatto che tali formazioni sociali sono molto
più radicate nella realtà e assai più vicine ai problemi concreti dei
cittadini.
Ricordo il vasto mondo del volontariato di cui ho detto
avanti ed i valori di spontaneità, gratuità, condivisione, solidarietà che
costituiscono il suo specifico patrimonio sociale e morale. L’originale
contributo culturale che il volontariato reca all’effettiva promozione dei
diritti dei soggetti deboli ed esclusi, alla loro integrazione nel tessuto
sociale e politico smentisce, come ho già rilevato, ogni tesi che tende a
degradarlo al livello di superata espressione di paternalismo.
Richiamo ancora i numerosi soggetti collettivi, che vanno
sotto il nome di movimenti sociali e che interagiscono non poco col sistema
politico in generale e con i partiti in particolare. Tali soggetti nel mentre da
una parte producono effetti sul sistema politico, dall’altra parte, vedono la
loro azione collettiva non istituzionale modificata dal sistema stesso. I
movimenti giovanili, femministi, ecologisti, per i diritti umani, per il
disarmo, contro la segregazione razziale, contro l’energia nucleare, eccetera,
invocano, una prospettiva a due poli che, superando i limiti di un’analisi
tutta interna alla loro logica settoriale, focalizzi le relazioni di sistema e
la reciproca influenza degli elementi in gioco [1].
Segnalo, infine, l’area del terzo settore, che nel campo
delle attività economiche promuove le imprese sociali, ovverosia, quelle
imprese che, in quanto non perseguono il profitto, superano la forma
capitalistica. La lotta alla disoccupazione, lo sviluppo della solidarietà, la
difesa della dignità del lavoro, che stanno al centro del loro impegno,
esprimono motivazioni e significati di grande rilievo sociale. Significato che
tuttavia non si esaurisce in se stesso, ma acquista anche valenza politica. Una
valenza cui i partiti devono agganciarsi, se vogliono integrare tali esperienze
solidariste in ruoli e responsabilità più generali, specifici della politica.
I partiti non possono non tener conto di tutte queste
realtà, espressive di una tendenza ad operare se non il passaggio in toto dalla
democrazia dei partiti alla democrazia dei cittadini, almeno l’integrazione
tra di esse. E di conseguenza, in primo luogo, non ha più senso contrapporre i
partiti, intesi come sinonimo di forze organizzate, alle formazioni sociali,
viste come sinonimo di aggregazioni spontaneiste e dunque deboli e precarie. La
contrapposizione sarebbe artificiosa poiché tra organizzativismo e movimentismo
può esservi una saldatura capace di far passare partiti e movimenti dal terreno
della frizione e contrasto al terreno che dà vita ad un continuum positivo e
integrato. In secondo luogo, occorre che i partiti rivolgano grande interesse
alle formazioni politiche di tipo coalizionale, aperte alle forze suscettibili d’essere
cementate su una comune griglia di obiettivi. In quest’ottica i soggetti e gli
uomini politici cerniera assumono grande significato e rilievo [2].
Quanto alla forma di partito, oggi sembra imporsi quella che,
da una parte, abbandona le istanze tradizionali dell’apparato, dell’organizzazione
forte, della nomenklatura, del proselitismo, per assumere una dimensione
organizzativa leggera, dall’altra parte, rinuncia al vecchio principio in base
al quale non vi poteva essere militanza partitica senza appartenenza.
In tal senso, forse la forma più valida è quella
federativa, ispirata ai criteri di una triplice autonomia: territoriale,
culturale, tematica. L’idea è di dare al partito un’articolazione che
preveda forme pattizie di affiliazione di gruppi ed associazioni varie e luoghi
di incontro e collaborazione con formazioni sociali e culturali nel rispetto
della loro autonomia e identità. Accogliendo tra l’altro iscrizioni
collettive o anche adesioni per singole campagne e progetti. Ed è chiaro che
una tale impostazione implica una forte innovazione nella struttura democratica
del partito, da cui bisogna partire per affrontare la grande questione dei
canali di partecipazione e dei criteri di decisione.
Ai partiti si chiede dunque di liberarsi da ogni forma di
organizzazione verticistica, di sviluppare pratiche di vasta partecipazione alle
decisioni, in particolare per quanto attiene alla scelta del personale dirigente
da investire al loro interno e del personale politico da candidare alle cariche
pubbliche negli ambiti statali, regionali e locali. Per i dirigenti si invoca
una formazione aperta a tutte le idee che qui si vanno esponendo, in maniera che
essi sappiano utilizzare saperi ed esperienze diffuse, senza restare prigionieri
del risucchio di apparato. Mentre per i candidati agli incarichi istituzionali
(presidente del Consiglio, presidenti delle Regioni, presidenti delle
amministrazioni provinciali, sindaci) la via della designazione attraverso
elezioni primarie appare la più idonea a rafforzarli nel loro lavoro di ricerca
del consenso.
Quanto al personale parlamentare, infine, non bisogna perdere
di vista che, al momento, il processo di trasformazione dei criteri di
reclutamento risulta assolutamente disomogeneo tra i vari partiti e coalizioni
di partiti. Per fare qualche esempio, Forza Italia pratica il metodo della
centralità della selezione e fa sentire il peso di un assiduo lavoro di
coordinamento, che finisce per imporre candidature molto vicine alla leadership.
Al contempo, per motivi strategici, concede non pochi seggi ad alleati
minoritari e a personaggi provenienti da movimenti formalmente esclusi dal
coordinamento. Con ciò dando vita a modelli che vedono come protagoniste
strutture come il partito “del leader” o il partito “mediale” [3]. La Lega, invece, sceglie i suoi candidati al parlamento in relazione ai
requisiti dell’origine socio-professionale radicata nei settori produttivi
della società, della presenza sul territorio, nell’amministrazione locale e
nel partito cittadino, della capacità di operare “nel popolo leghista”, in
sintonia col messaggio federativo [4].
E ancora. Dinanzi al problema del livello di professionismo
politico, mi pare di poter dire che quello che oggi trova maggiore accoglienza
nelle strategie tendenziali perseguite dagli attori partitici, risente della
presenza di persone individuabili - seguendo una recente concettualizzazione di
Von Beyme - come manager e staff professional inglobati in strutture partitiche
leggere.
La persistenza tuttavia di talune forme organizzative, fa
ritenere che si assisterà verisimilmente al consolidamento di un personale
rappresentativo misto. Nella quota maggioritaria rimarranno molti “non
professionisti” di area, mentre in quella proporzionale i partiti
continueranno a schierare i loro uomini [5].
Un discorso distinto va fatto per il reclutamento del
personale parlamentare nei contesti coalizionali. In essi infatti la selezione
dei candidati può sfuggire al controllo. Il sistema maggioritario oltretutto
comporta l’alea che coalizioni, le quali raccolgono poco più di un quaranta
per cento dell’elettorato variamente organizzato, si espandano nella
rappresentanza fino a occupare un di più di seggi di almeno un tredici/quindici
per cento. È in questo margine che si radicano le trattative più decentrate,
rispetto al nucleo della coalizione. Ma il rischio non può non essere
affrontato. In realtà, su questo piano, si registra il protagonismo dei
meccanismi di proporzionalizzazione delle alleanze; ed i criteri spartitori,
corroborati dal potere di ricatto che il sostanziale equilibrio nei rapporti di
forza fra le due coalizioni (centro-sinistra e centro-destra) accorda anche ai
partner minori, appaiono una routine consolidata [6].
Così pure nel Mezzogiorno vanno affrontati due rischi, che
in quest’area appaiono più gravi. Il primo consiste nel fatto che il modello
di partito federale può dar vita a dei clan, con penetrazioni vistose di
macrocriminalità. Il secondo nasce quando le coalizioni non sono sorrette da
supporti ideali, ma solo da interessi elettorali. In questo caso infatti esse
sono semplicemente dei cartelli elettorali nei quali i partiti membri diventano
partiti di voto, ovvero, non-partiti che vengono scelti per un giorno, ma non
mobilitano l’impegno e la partecipazione, anzi, finiscono con il sottolineare
il mercato elettorale come male oscuro della piccola politica meridionale. Una
politica che, con le sue pratiche corruttive e clientelari, uccide la grande
politica.
7. Per un rinnovamento dei partiti: c) contenuti, d) fonti di
finanziamento
Giungiamo a questo punto al terzo problema che il
rinnovamento dei partiti deve affrontare, quello dei contenuti.
Sul punto occorre porre attenzione. Poiché il diffuso
contrattualismo sociale verso il quale i partiti appaiono orientati, per la
frantumazione da cui procede e per la complessità delle procedure d’accordo
che attiva, può corrispondere di fatto a un modo di intendere il vincolo
elettorale come disancorato dai contenuti o programmi comuni. Ciascun candidato
può sentirsi legato dalla lealtà solo per gli interessi di cui si sente
portatore e non già per il complesso degli interessi fatti propri dalla
coalizione. Questi ultimi anni hanno mostrato che il rischio è quanto mai
reale: l’interpretazione delle ragioni per le quali stare in una coalizione o
in un’altra è stata disinvolta; come disinvolti sono stati i cambi di
collocazione. Dopotutto, se la coalizione che ha sorretto il governo Prodi dei
suoi obiettivi strategici ha condotto in porto solo quello dell’ingresso dell’Italia
nell’unità monetaria europea, ciò è accaduto anche perché solo questo
obiettivo dai partiti della coalizione è stato percepito come comune e
inderogabile.
E tanto spiega il diffuso senso di smarrimento della società
italiana. Di una società che allo Stato - per il tramite dei partiti - continua
con crescente invocazione a domandare la redistribuzione dei redditi, la lotta
alle vecchie e nuove emarginazioni, l’occupazione, la sanità, la scuola, la
sicurezza pubblica, l’imparzialità nel giudicare, il funzionamento
amministrativo.
Sul piano delle tematiche sociali occorre rendersi conto che
la nostra economia continua a collocare sul territorio strutture produttive
legate ai canoni non già di un postfordismo virtuoso, ma di un neofordismo che,
per il controllo dei tempi e dei metodi nei terzisti, nel lavoro atipico e
parasubordinato, ha bisogno di forme di neotaylorismo, che rendono il sistema
nel suo complesso tanto rigido e alienante quanto il vecchio fordismo.
Necessario appare altresì cogliere il senso della presenza
di un vasto ceto medio-alto formato da cinque milioni di piccoli imprenditori,
quattro milioni di professionisti, cinque milioni e mezzo di lavoratori
autonomi, due milioni di portatori di partite IVA, sei milioni di lavoratori
sommersi. La forte dose di soggettività individuale che muove le singole unità
di questa struttura sospinge verso un’affermazione personale, centrata, come
sottolinea una recente indagine del Censis, sulle voglie di consumo, di
costruzione isolata del proprio futuro, il cui focus di impegno sta nel guadagno
immediato, nel fare soldi a mezzo soldi.
Atteggiamenti tutti che spiegano il crescente malessere del
nostro Paese. Di una società molecolare, che non può non registrare la caduta
della solidarietà, l’indifferenza verso la legalità, le nevrosi della
solitudine di massa, il rifiuto della politica, eccetera.
Ma essenziale rimane ancora l’attenzione verso le
problematiche dei vasti ambiti del lavoro dipendente, della massiccia area della
disoccupazione, dei sei milioni di pensionati al minimo o con pensioni integrate
che vivono con settecentomila lire al mese.
Rimane da considerare, infine, l’ultimo elemento su cui
impegnarsi per un rinnovamento dei partiti: le fonti di finanziamento.
Un vasto schieramento parlamentare trasversale, una sorta di
partito unico del finanziamento pubblico, ha ridato vita al finanziamento
statale dei partiti, nonostante fosse stato abrogato con un referendum votato da
oltre il novanta per cento dei partecipanti. Imperniata sulla facoltà dei
contribuenti di devolvere il quattro per mille del loro carico di imposta, la
nuova forma di sovvenzionamento introdotta nel 1998 veniva presentata come
privata e volontaria, quando invece non era affatto tale. Non era privata
perché le somme disponibili appartenevano all’erario dello Stato; non era
volontaria perché sicuramente nessun contribuente voleva finanziare i partiti
indistintamente e nel loro complesso, ma semmai il partito che riscuoteva la sua
fiducia. E ancora, la legge mancava di adeguati controlli sui bilanci; era,
infine, antistorica, in quanto si poneva in controtendenza con il principio
maggioritario, sancito da un altro referendum che aveva raccolto oltre l’ottanta
per cento dei consensi.
Sennonché, dei centosessanta miliardi previsti per il 1997
ne erano venuti fuori appena venti-trenta, ovverosia meno di un quarto. Il
ministero delle Finanze era costretto ad ammettere che il tempo per trattare le
dichiarazioni dei redditi ed avere i risultati relativi al quattro per mille,
per quanto potesse essere in futuro ristretto, non avrebbe mai potuto rispettare
i termini previsti dalle legge per consegnare i soldi ai partiti. E così nel
1999 è stata approvata una nuova legge, che ha abolito il quattro per mille, ma
ha moltiplicato l’importo dei rimborsi elettorali, trasformandoli in una forma
di finanziamento pubblico ancora più consistente. Prima, infatti, i partiti
incassavano, come rimborso, ottocento lire per abitante alle elezioni europee,
milleduecento alle regionali e milleseicento alle politiche. Con la nuova legge,
i rimborsi sono stati portati a quattromila lire per elettore per tutte le
consultazioni: i partiti, quindi, hanno incassato centosettanta miliardi alle
europee del 1999, altri centottanta alle regionali del 2000, mentre alle
politiche del 2001 ne incasseranno ancora quattrocento: in meno di tre anni un
totale di settecentocinquanta miliardi. E ci sono studiosi i quali prevedono non
senza fondamento che il sistema maggioritario, soprattutto quando funzionerà
nella sua pienezza, favorirà ancora di più i processi di personalizzazione
della politica, facendo crescere a dismisura i costi delle campagne elettorali.
Del resto già nel 1997 un movimento come “Forza Italia”, tagliato sulla
misura e sugli interessi del suo inventore, ha ottenuto finanziamenti dello
Stato per trentasette miliardi e settecentoventisei milioni. Soldi che
verosimilmente sono stati poi amministrati in solitudine dal presidente
fondatore.
Insomma, sia la prima che la seconda legge hanno aggirato la
volontà referendaria. Ma non è questo l’aspetto più grave. Il problema di
fondo è un altro. Il finanziamento dei partiti non deve far capo a fonti
pubbliche. Non solo perché troppo onerose già per i contribuenti risultano le
spese per mantenere una classe parlamentare, che potrebbe essere, proprio ai
fini di una migliore funzionalità ed una più alta produttività istituzionale
delle Camere, notevolmente ridotta, nonché numerosi altri incarichi pubblici,
statali, regionali, locali, spesso non necessari, talora inutili, sempre
comunque sovranumerati. Ma anche e in primo luogo perché il tema del
finanziamento va agganciato allo sforzo culturale della rilegittimazione dei
partiti e della politica di cui stiamo discorrendo. Fa parte essenziale del
lavoro ricostruttivo dei partiti un ripensamento radicale del problema della
raccolta delle loro indispensabili risorse finanziarie. Dovranno essere i
cittadini, recuperati, se sarà possibile, alla fede democratica ed alla
dimensione civile dell’impegno pubblico, a trovare al riguardo nuove strade e
modalità, a partire dal proprio contributo personale. Quest’ultimo apparirà
più facile, se ci si convincerà che è giunta l’ora di dare un segno
effettivo e tangibile di inversione di tendenza, attraverso scelte di vita
sociale e politica che facciano prendere le distanze dai modi dominanti di
pensare e di comportarsi ispirati agli sprechi e ai consumi superflui,
acquisendo capacità di sobrietà e sganciandosi dalle eccessive esigenze
indotte. Se si svilupperanno, infine, maggiore attenzione e disponibilità per
sostenere iniziative comunitarie aperte alla solidarietà e all’iniziativa
socio-politica.
La giustificazione ancora ricorrente del finanziamento
pubblico dei partiti, in quanto strumento di difesa dell’autonomia della
classe politica dai poteri economici e della sua sottrazione ai fenomeni
corruttivi, non regge più. È stata oltretutto travolta in questi anni dagli
eventi giudiziari noti, che proprio attorno al procacciamento di fondi
finanziari per i partiti, hanno visto ruotare per molte migliaia di politici e
burocrati italiani reati quali la corruzione, la concussione, il peculato, l’abuso
di ufficio, il falso in bilancio, eccetera [7].
Il finanziamento pubblico dei partiti ha operato, in realtà,
come una delle principali variabili che hanno causato il mutamento della loro
“composizione organica”. Mutamento in virtù del quale l’impiego politico
dentro i partiti non solo è divenuto una professione di massa, spesso altamente
remunerativa, ed ha costituito un potente mezzo di ascesa sociale per decine di
migliaia di persone, ma ha strutturato al suo interno una serie di nuovi ruoli
specificamente rivolti all’estrazione di risorse pubbliche e private. Sì da
fare dell’Italia, in particolare a decorrere dagli anni Ottanta, uno dei
sistemi politici europei “ad alta corruzione” [8].
Rimane naturalmente l’esigenza di trovare una formula
trasparente nei confronti del finanziamento privato dei partiti. A tal fine
torna necessario fissare per legge almeno a) il tetto di spesa per ciascun
candidato, b) il divieto che un candidato, un partito o movimento possa ricevere
da un solo finanziatore una somma che superi il venti per cento del tetto di
spesa stabilito, c) l’obbligo per i partiti che intendono beneficiare di
finanziamenti privati di iscriversi in un apposito Registro, d) l’obbligo di
depositare lo Statuto presso un organismo che funzioni da Comitato di garanzia
per il finanziamento della politica.
8. Conclusione
È difficile dire se il ceto politico italiano, in
particolare, quello partitico, riuscirà in questi anni di faticosa transizione,
com’è ancora la nostra (qualcuno ha parlato di una “transizione infinita”),
a scrollarsi di dosso i numerosi detriti culturali che lo appesantiscono. E a
promuovere efficacemente un lavoro di ricostruzione dei partiti, capace di
connotarli dei caratteri avanti descritti, secondo un profilo, che ha inteso
essere il più delle volte innovativo, talvolta anche reinventivo. Il problema
riguarda il ceto politico, ma investe anche i cittadini; il vertice, ma anche la
base della piramide politica.
Di sicuro, tutto - pensieri e azioni, sentire delle masse e
inconscio degli individui - appare segnato dai caratteri di una stagnazione, cui
s’accompagna una crescente disaffezione dalla politica ed in particolare dai
partiti.
Non credo tuttavia si possa concludere che la coscienza
civile dell’Italia appaia oggi irrimediabilmente divisa tra spiriti animali e
buoni sentimenti, due cose di cui non si sa quale sia più dannosa all’utopia
concreta di fare collettività tra persone libere e soprattutto di interagire
politicamente. Ritengo, invece, che essa, sviluppando processi di inversione
nelle problematiche sociali di tutti i giorni e promuovendo la ricomposizione di
uno spazio pubblico, nel quale vengano superate le fratture fra emotività e
razionalità, diventi in grado di produrre qualcosa di nuovo e alternativo, sul
piano della politica in generale e dei partiti in particolare.
[1] Cfr. A. Melucci (a cura di), “Movimenti
sociali e sistema politico”, Milano, Angeli, 1986. Di Melucci v. anche: “Sistema
politico, partiti e movimenti sociali”, Milano, Feltrinelli, 3.ed., 1982.
[2] Un’esperienza
che, a me pare, può essere interpretata in tale direzione è quella dell’Ulivo.
[3] Cfr. L.
Verzichelli, “La classe politica della transizione”, in R. D’Alimonte - S.
Bartolini, “Maggioritario per caso”, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 344. Su
Forza Italia v. L.Cavalli, “The personalization of leadership in Italy”, “Working
Paper” CIUSPO, Firenze, 1994; N. Porro, “L’innovazione conservatrice”,
Fininvest, “Milan Club e Forza Italia: nascita e sviluppo di un partito
virtuale”, “Quaderni di sociologia, 1994-1995, n. 3; P. Mc Carthy, “Forza
Italia: nascita e sviluppo di un partito virtuale”, in R.S. Katz - P. Ignazi
(a cura di), “Politica in Italia”. Edizione 1995, Bologna, Il Mulino,
1995.
[4] Cfr. I. Diamanti, “Il male del Nord. Lega,
localismo, secessione”. Roma, Donzelli, 1996; R. Biorcio, “La Lega Nord e la
transizione italiana”, “Rivista italiana di scienza politica”, 1998,
n.3.
[5] L. Verzichelli, “La classe politica
della transizione”, o.c., p. 346.
[6] Cfr. A. Di Virgilio, “Le
elezioni in Italia”, “Quaderni dell’osservatorio elettorale”, 1996,
n.36, p. 186.
[7] Un’accurata ricerca al riguardo è
stata condotta da D. Della Porta - A. Vannucci, “Corruzione politica e
amministrazione pubblica. Risorse, meccanismi, attori”, Bologna, Il Mulino,
1994.
[8] S. Belligni, “Un sistema
ad alta corruzione?”, “Sisifo”, ottobre 1992, n.23, p.5.