Verso una comunicazione politica egemonizzata

Mauro Fotia

1. Economia Comunicazione Potere

Rl rapporto che lega oggi i mondi dell’economia, della comunicazione e del potere solo apparentemente è tripolare; nei fatti è bipolare. L’odierna economia capitalistica ha soggiogato gli strumenti della comunicazione al punto non solo di subordinarli alla sua logica, ma di integrarli per intero nella sua unitaria struttura di produzione e consumo.

Già agli inizi degli anni Novanta, il triangolo del capitalismo avanzato, formato da Stati Uniti, Unione Europea e Giappone, in quanto detentore di oltre il settanta per cento del prodotto interno lordo mondiale, controllava il novanta per cento della produzione di beni e servizi della comunicazione (Unesco, 1991).

Dove per comunicazione si intendeva, come si intende oggi, non solamente ciò che emanava dal settore mediatico stricto sensu, bensì anche l’insieme dei messaggi, dei flussi, delle forme di organizzazione della società, e dunque dei modi di produzione e di consumo che modellavano e scolpivano individui e gruppi. Il controllo di cui si parla si è fatto ancora più netto a seguito dei mutamenti intervenuti negli ultimi anni nei processi di produzione, di distribuzione e di consumo.

I progressi dell’elettronica sospingono infatti il processo produttivo delle imprese ad utilizzare sempre più le risorse immateriali o intangibili, vale a dire le risorse comunicazionali dalle quali si originano le forme di accumulazione del capitale cosiddetto dell’astrazione,inoltre, l’aumentato abbattimento delle barriere doganali e l’accresciuto superamento dei confini territoriali sottolineano la tendenza dei mercati ad unificarsi in un solo mercato globale; mercato che non può reggersi senza una fitta rete di canali comunicazionali rigidamente governati da una stretta oligarchia.

La telematica ha da subito affermato il concetto della dipendenza delle imprese dalle immagini e di conseguenza ai ricercatori di una economia e di una cultura globali ha additato la meta della creazione di un mercato unico delle immagini (Mattelart, 1998, 103). Senonché, l’immagine è veicolo di un messaggio e comunque di un’idea. Per comprendere l’idea nel suo significato, oltre che nella sua forma espressiva, è necessario considerare l’immagine nella sua materialità. Occorre perciò scomporre l’immagine nei suoi elementi costitutivi, analizzarne il significato così come appare nel contesto dell’immagine stessa, identificare l’elemento unificante che dà senso a tutti gli elementi di cui essa è costituita. Ora, la televisione, che nella gerarchia dei media telematici occupa un posto dominante, grazie alla sua ideologia della diretta e del tempo reale, non consente tali operazioni (Robins, 1996).

Anche per questo i detentori delle nuove reti digitali dell’informatica e dei servizi multimediali mettono le mani sul mercato delle immagini, ponendolo al centro della riorganizzazione generale della produzione e della distribuzione delle informazioni. Non solo di quelle strettamente inerenti al processo produttivo, e dunque circolanti all’interno delle imprese,ma anche di quelle che investono la società nelle sue più ampie e svariate manifestazioni. Dando così vita ad una sorta di cultura di impresa che, in un contesto di assemblaggio comunicazionale svolgentesi tutto in direzione sociale, finisce con l’agire da chiave interpretativa non solamente della vita produttiva ma anche dei comportamenti collettivi. Consentendo ad ogni dinamica sociale di poter essere veramente compresa soltanto se concretamente riportata al circuito informazione-decisione - azione, scaturente da siffatto contesto.

In tali condizioni peraltro ogni organizzazione sociale si trova ad incarnare una forma-impresa, che, diffondendosi sul territorio, porta ad identificare la società come un’impresa sociale generalizzata. E poiché l’obiettivo ultimo di un simile processo è il dominio del mercato del vivere sociale, la forma-impresa di cui si parla svela l’instaurazione di una forma-istituzione operante a sua volta come forma politica generalizzata.

In tema di rapporti tra economia capitalistica, comunicazione e potere, dunque, gli anni Ottanta sono anni di processi collettivi lenti e nascosti; gli anni Novanta cedono all’urto delle grandi trasformazioni tecnologiche gestite da pochi giganti dell’economia internazionale; gli anni di esordio del Duemila registrano la conclusione di un ciclo di ricomposizione o meglio di riassestamento e consolidamento del dominio del capitalismo globale sulla ricchezza e sull’intera società mondiale (Abruzzese - Dal Lago, 1997; Sorice, 2000).

Di queste gravi realtà parla il recente studio di R. Martufi e Luciano Vasapollo, Comunicazione Devianza, L’impero del capitale sulla comunicazione, Roma, Mediaprint, 2000. Un libro che invita riflettere su come lo sviluppo della comunicazione nel mondo abbia imposto la sua centralità non solo nel sociale ma anche nel politico. Definendo e proponendo la cultura ed i parametri dell’efficienza produttiva come valori sociali e puntando, attraverso il veicolo strategico dei mezzi di comunicazione più aggiornati, ad un nuovo ruolo dello Stato - impresa. Talché a ragione i due autori, per rappresentare la forte distorsione derivante, si avvalgono del concetto di devianza fornita dalla sociologia giuridica. Invocano cioè un riferimento alla struttura dell’intero sistema sociale, al suo quadro normativo, ai processi di interiorizzazione delle norme, alle attese di ruolo che ne provengono (Lemert, 1981).

2. L’impresa sociale generalizzata

L’idea di impresa sociale generalizzata o “fabbrica sociale generalizzata”, come la chiamano Martufi e Vasapollo, scaturisce dal fatto che l’elemento base di ogni attività e decisione diviene il capitale immateriale comunicazione - informazione. L’uso del termine “immateriale” nell’impresa postfordista, come nei più disparati ambiti della società, al fine di caratterizzare ciò che riguarda l’intelligenza, la cultura, la formazione, non va sottovalutata. Esso è “espressione di una riduzione economicista del concetto di materia, che contrappone struttura economica, materiale e sovrastrutture immateriali. C’è oggi un materialismo diffuso. La forma di produzione che ha nel consumismo il momento centrale di smaltimento del prodotto, quale condizione del proprio perdurare, è direttamente interessata alla diffusione di un materialismo vissuto, comportamentale. Si tratta di un materialismo che si coniuga con l’egoismo più miope e conservatore, con l’affermazione più accanita dell’identità, con l’omologazione più soffocante, con il realismo più radicale fino all’accettazione realistica della guerra (quando ovviamente è «giusta e necessaria«» e «serve alla pace»), con la rivendicazione dei propri diritti e il disconoscimento dei diritti altrui, con l’espulsione fino all’eliminazione, fino al genocidio, dell’alterità (ivi compreso il genocidio culturale)” (Ponzio,97).

La crescente dipendenza della gestione e delle decisioni dalla tempestività con cui vengono recepite le informazioni necessarie, i profondi cambiamenti tecnico-organizzativi che rendono in poco tempo obsolete le informazioni acquisite, la crescente complessità dei fenomeni imprenditoriali e sociali da governare, i termini di redditività, che, senza aggiornati sistemi di controllo gestionale, tendono a ridursi, fanno del capitale informazione un elemento essenziale per l’evoluzione di ciascuna impresa, del sistema delle imprese nel suo complesso e del sistema sociale (Martufi - Vasapollo, 45-46). Questo non significa che il capitale materiale e quello finanziario vengono meno nella loro importanza; ma l’operatività del sistema impresa evidenzia che più forte è divenuto il loro legame con il capitale immateriale-informazione.

Dopotutto, i modelli comunicazionali imposti dai mutamenti tecnologici degli ultimi venti anni sono divenuti come dei processi biologici, caratterizzanti gli eventi dentro gli organismi impresa e società. E dunque si sono strutturati attorno alla loro energia intesa nel significato fisico del termine.

Ma non è tutto. Comunicazione, da un lato, non è soltanto la circolazione-scambio, ma anche il consumo e la stessa produzione. Dall’altro lato, è ancora comunicazione il luogo di costituzione dei significati, di organizzazione delle esperienze, di formazione dei messaggi, di realizzazione di atti intenzionali, eccetera (Ponzio,120).

Ne può dimenticarsi che investire in tecnologie comunicazionali risulta sempre più conveniente che investire in macchinari. Anche perché‚ esse, essendo sempre correlate al principio di flessibilità, finiscono col favorire i modelli concertativi e consociativi. Modelli fatalmente destinati a comprimere la conflittualità del mondo del lavoro, del non lavoro, del lavoro negato, e a piegare ancora ai voleri dell’impresa le figure esterne al ciclo produttivo, come i fornitori, i clienti e le stesse amministrazioni pubbliche con le quali si entra in rapporto, quasi si tratti di un insieme di portatori di interessi imprenditoriali (Martufi - Vasapollo, 47). Con il risultato di creare attorno all’impresa quel “consenso” che risulta la migliore garanzia di ininterrotto incremento del profitto.

Sul piano sociale, poi, non va omesso di evidenziare come la comunicazione-informazione, mezzo imprescindibile per il soddisfacimento dei nuovi bisogni umani, viene a condizionare e determinare l’identità stessa delle persone e a definirne il ruolo sociale. Il tutto naturalmente in un quadro appiattito e uniforme nel quale gli uomini appaiono tutti “identici” nella mentalità, nel costume, nello stile di vita. Ed i lavoratori, “nomadi dell’alta tecnologia”, si trovano contemporaneamente in casa e sul posto di lavoro: isolati, lavorano tuttavia con altri; attraversano ogni spazio, confini di Stati e di continenti, rimanendo ancorati nella rete nel qui e nell’ora (Beck, 2000). Poiché‚ con i nuovi sviluppi dell’integrazione dell’economia mondiale si ha l’ingresso definitivo nell’era di una global factory e di un global shopping center.

Vettore principe di queste realtà, di questi schemi di comportamento e valori universali sono gli Stati Uniti. Per cui, ove si voglia ammettere quanto agiograficamente scrive di essi Brzezinski, animatore della Trilaterale e consigliere del presidente Carter in materia di sicurezza nazionale, quando parla degli USA come della società che comunica di più, e che, nel crogiolo della globalità, trascende le “culture fortemente radicate”, le “identità nazionali ben distinte”, le “religioni tradizionali solidamente fortificate”, ed elabora una nuova coscienza planetaria (Brzezinski, 1970), lo si può fare a condizione di mettere contemporaneamente in evidenza tutte le contraddizioni che derivano loro dall’essere all’origine dell’odierna “società del totalitarismo comunicazionale”, secondo l’efficace espressione di Martufi e Vasapollo.

 

3. Linguaggio delle merci e linguaggio umano

L’accenno al global shopping center esige peraltro un qualche ulteriore sviluppo allo scopo di comprendere le gravi conseguenze che ne discendono sui piani culturali e di civiltà per l’uomo contemporaneo. D’altronde, se comunicazione, come si è testé detto, è anche il consumo, il richiamo dell’argomento è estremamente coerente con le riflessioni che stiamo conducendo.

In pratica, stiamo tutti constatando che la normalità della comunicazione, soprattutto politica, registra la dissoluzione del nostro linguaggio nel linguaggio delle merci.

In forza dell’esplosione comunicazionale a livello globale e delle sue possenti capacità manipolative, l’economia e la politica dei consumi sono diventate oggi teologia. Studiosi di rilievo ci avvertono del rischio che il salotto di ogni uomo comune diventi un reparto del supermercato. Essi non diffondono incubi fantasociologici. Si limitano a censire gli elementi che sospingono l’umanità contemporanea verso un solo orizzonte: l’iperconsumismo trionfante senza rivali, né‚ alternative (Baudrillard, 1976; Ritzen, 2000a).

Sicuramente il grande magazzino francese (e prima ancora i passages studiati da Benjamin), il department store americano sono i precursori del nuovo sistema. Ma erano luoghi chiusi, dove l’acquisto era limitato nel tempo e nello spazio. Si comprava, si tornava a casa, si consumava. La mutazione rivoluzionaria, il passaggio dal consumismo all’iperconsumismo, sta nell’implosione di tutti i confini: fra tipi diversi di consumo, fra consumo e divertimento, fra consumo e turismo, in generale, tra consumo e vita privata. Il consumo dilaga nelle nostre esistenze domestiche e familiari. La casa oggi non è più solo il luogo, ma anche il mezzo di consumo. Il supermarket possiede quinte colonne nelle nostre cucine: il forno a microonde è una testa di ponte formidabile per l’invasione dei surgelati e dei precotti e per lo smantellamento della nostra cucina casalinga.

L’e-commerce di conseguenza ha buone chance di invadere le nostre case soprattutto con i prodotti immateriali, scaricabili direttamente dal computer come azioni, informazioni, eccetera. Ma al momento sono ancora più potenti le televendite, che ci portano in salotto venditori e prodotti ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Non ci sono più limiti di spazio e di tempo, non esistono più ambiti al riparo dal consumo. Gli stadi, le scuole, i musei sono già luoghi in cui si consuma una varietà incredibile di prodotti.

Il simbolo della globalizzazione consumistica di fine secolo sono i ristoranti McDonald (Ritzen, 1996). Così come la Coca Cola era stata l’icona yankee nell’era della guerra nel Vietnam. E tuttavia il modello McDonald è sì il più diffuso, ma non è il solo e non è neppure il più potente. Vi sono i big store, supermarket smisurati con pile di merci alte dieci metri e confezioni gigantesche, che scommettono sul wow-effect, il fascino della quantità pantagruelica. E’ un elemento di quello che Ritzen chiama il re-incantamento del consumo: dopo il fascino moderno della razionalizzazione e dell’efficienza, ora si punta sul fascino post-moderno della spettacolarizzazione, della sorpresa e dell’incanto quasi religioso. Ma credo che prima assisteremo allo sbarco in larga scala del sistema delle catena in franchising applicato anche a consumi che in Europa erano appannaggio del piccolo commercio. Una grande catena di coffee shop americana aprirà fra poco il suo primo negozio in Svizzera, per poi passare in Francia e Italia.

Il modello McDonald, comunque, dal cibo si trasferisce alla cultura, alle attività educative, alla formazione professionale. Ritzen parla di McDottori, McProfessori, sformati da un’istituzione che vende prodotti educativi, puntando sulle caratteristiche dei grandi mezzi di consumo: alta organizzazione, prevedibilità, calcolabilità. E che si promuove puntando sulla quantità e non sulla qualità: noi produciamo x laureati all’anno. Lo stesso vale per gli ospedali che reclamizzano il numero dei posti letto e dei servizi alberghieri, anziché la qualità delle prestazioni cliniche, e perfino per le chiese che sbandierano gli orari delle funzioni e la comodità di parcheggio in una economia di mercato generalizzato. Ospedali, scuole e chiese hanno lo stesso problema di un negozio: attirare clienti. Logico che imitino i colleghi che hanno più esperienza e sviluppano simboli e linguaggi capaci di dilatare e diffondere sempre più i flussi comunicazionali più avanzati. A Vancouver è in costruzione un cimitero multipiano organizzato tematicamente, come un parco di divertimenti, con ricostruzioni e scenari: un piano cattolico, uno per i morti in guerra, uno esotico. La gente ci va a passare le giornate, in attesa di passarci l’eternità.

Né si pensi che modelli comportamentali di questo tipo siano destinati a restare decisamente fuori dai Paesi europei, ad essere respinti dalla loro storia e cultura.

«Oggi, dice in una recente intervista Ritzen, passeggiavo nel centro di Bologna. Sono capitato in una galleria commerciale. Stupefacente: stessi negozi di catena, stessa architettura che potrei trovare a Denver o a Houston. Mi chiedo cosa serva viaggiare, se ovunque ci si ritrova in quello che Baudrillard chiamava l’inferno dell’uguale» (Ritzen, 2000b).

Del resto, non è senza significato che fenomeni del genere vengano affrontati in termini culturali. Si parla di cultura materialistica, edonistica ed in particolare consumistica (Featherstone, 1991). «Eccezion fatta per l’interesse di Marx per il carattere di feticcio delle merci, non è eccessivo dire che la sociologia preclassica e classica si è interessata al fattore economico quasi esclusivamente dal punto di vista dell’offerta, cioè dell’organizzazione e del lavoro che confluiscono nella produzione e nell’offerta alla vendita di beni economici. E, con l’importante eccezione dell’opera di Veblen sul consumo visibile, non c’è mai stato, almeno fino a pochissimo tempo fa, un corrispondente sociologo della svolta keynesiana in economia; ciò naturalmente ha comportato un forte spostamento di interesse verso la domanda di beni e servizi economici. L’attuale interesse di sociologi e antropologi per la “domanda” rappresenta una sorta di ritardo culturale, in quanto gli economisti hanno compreso l’importanza della domanda aggregata da almeno cinquant’anni, mentre gran parte dei sociologi, seguendo la teoria di Weber sul protestantesimo e lo spirito del capitalismo, ha rivolto il proprio interesse alla vita economica dal punto di vista del lavoro e della produzione. A questa carenza ora si cerca di rimediare, e ne conseguono importanti implicazioni per la nostra concezione della cultura (...); (Featherstone, 1991). Per semplificare le cose, possiamo affermare che l’attribuzione di importanza all’“offerta” incoraggiava a credere che la cultura fosse un epifenomeno, mentre invece sottolineare l’importanza della “domanda” porta ora a concludere che la cultura sia in qualche modo infrastrutturale. Come che sia, diviene sempre più chiaro che la base pre-economica dei “vincoli economici” è una importantissima Problemstellung dell’antropologia e della sociologia moderne» (Robertson, 1999).

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4. Impresa come protagonista politico

Ma l’impresa sociale generalizzata non può esaurire la sua azione nell’ambito della società civile, la deve estendere necessariamente anche alla sfera della società politica, assumendo il ruolo di soggetto di potere.

Certo fenomeni come il dissesto dell’ecosistema, l’impoverimento delle risorse naturali, la turbolenza dei mercati finanziari, la destrutturazione del mercato del lavoro, l’esplosione dell’individualismo e della diversità, la rivoluzione dei generi, l’avanzata della criminalità nei Paesi dell’ex blocco sovietico, il narcotraffico, gli ingenti flussi migratori verso i Paesi sviluppati non possono non suscitare attenzione e preoccupazione. Solo nel mercato del lavoro dei Paesi industrializzati si contano trentacinque milioni di disoccupati, ed in generale, lavoratori con diminuita capacità contrattuale, sfruttati, precarizzati. Mentre vasti processi di desocializzazione generano in questi stessi Paesi cento milioni di cittadini collocati sulla soglia di povertà e nei Paesi in via di sviluppo un miliardo e trecento milioni di persone il cui reddito giornaliero è inferiore al dollaro (Kapstein, 2000).

L’esigenza di visibilità tuttavia costringe l’impresa a diventare protagonista politico, direttamente coinvolto nella gestione della cosa pubblica. La sua gestione virtuale dei vari settori pubblici diventa professionale, ed i compiti della comunicazione si differenziano. Quelle che prima erano chiamate “relazioni pubbliche” oggi vengono identificate come “affari pubblici”, definizione adottata da subito dalle grandi società americane, per sottolineare l’ingresso dell’impresa nel campo politico - strategico (Battelart, 1998, 99).

In questo ruolo informativo cioè, naturalmente l’impresa non va vista come un’entità o luogo fisico. Poiché essa, attraverso l’informazione, opera nel cyberspazio, in uno spazio informativo virtuale, cioè al quale accede attraverso le linee telefoniche.

Il potere, in realtà, si è spostato dalle sue sedi tradizionali. Castelli, palazzi ed altre strutture architettoniche che ospitavano burocrazie governative o uffici di grandi compagnie si stagliavano nei centri cittadini e sfidavano le forze di opposizione e i dissidenti a tentare l’assalto dei loro fortilizi. Questi di sicuro non sono spariti, ma non costituiscono più una rappresentazione necessaria del potere, anzi, non sono neppure uno dei suoi tratti essenziali.

Viene a formarsi una sorta di “telecittà mondiale” (Latouche, 1995, 31) nella quale la scomparsa dello spazio nazionale, da secoli luogo della regolazione dei rapporti politici, snatura la dialettica relazionale pubblica, dopo avere naturalmente messo in crisi l’identità culturale di ciascun Paese. E poiché tutti o quasi gli aspetti di questa telecittà risultano permeati dagli effetti della rivoluzione elettronica, ad un totalitarismo comunicazionale sociale si aggiunge un totalitarismo comunicazionale politico. è infatti tale rivoluzione che porta il modello manageriale di comunicazione e di formazione della corporate image a imporsi nell’intera società come l’unico modo di comunicare ad entrare nelle istituzioni statali, e nelle collettività politiche territoriali e a indurle a ricostruire i loro rapporti con i cittadini o con la società civile, ricorrendo all’esperienza e alla fantasia del marketing.

D’altro canto, in seno alla “telecittà mondiale” si svolge la competizione feroce tra i giganti dell’industria mondiale per la conquista e la concentrazione in poche mani dei maggiori e più avanzati strumenti multimediali della comunicazione. Tale comunicazione è divenuta più spietata a seguito a) della fine del mondo bipolare, della fine cioè di un mondo dominato dalla rivalità tra Stati Uniti ed ex Unione Sovietica, b) dell’avvento del neoliberismo, sorto dalle rovine dell’universo ideologico precedente, e mosso dall’aspirazione ad estendersi a tutto il pianeta e ad occupare lo spazio lasciato libero dai socialismi, non solo all’Est ma anche al Sud, c) dei contrasti economici di nuovo tipo che vedono scontrarsi tra loro i già ricordati tre poli più ricchi della terra: gli Stati Uniti, con il Canada e il Messico, i quindici Paesi dell’Unione Europea, il Giappone con le altre “tigri” asiatiche (Ramonet, 1999, 112).

Poiché il genoma delle nuove forme di organizzazione della comunicazione finalizzate alla produzione e al consumo risiede nel capitale intellettuale, i grandi proprietari dei media tendono a conquistare ed omologare le menti, vale a dire, ad asservirle, spesso cooptandole nelle forme più selvagge o adescandole con prospettive di successo e di ingenti profitti (Martufi - Vasapollo, 108-110). Quello che non era riuscito loro nelle prime due fasi della rivoluzione informatica-caratterizzate, la prima dai grandi terminali non intelligenti utilizzati solo dalle grandi imprese, la seconda, dai personal computer entrati anche nei piccoli uffici e nelle case - riesce invece, come rilevano Martufi e Vasapollo, nella terza fase, caratterizzata dall’avvento degli strumenti multimediali. Questi consentono ai grandi detentori degli apparati informatici la realizzazione di un vero e proprio “impero del capitale”. Ed è il caso forse di ricordare che, su un piano scientifico, il termine “impero”, prescelto dal libro del quale discorriamo, rispetto ai termini “dominio” o “egemonia”, evoca, in aggiunta all’idea di subalternizzazione intellettuale, il concetto di sfruttamento (Barrett Braun, 1970; Braun, 1973).

 

5. Comunicazione totalitaria e declino della democrazia

Appare dunque evidente come il consenso nelle società contemporanee denominate democratiche sia nella sostanza nient’altro che il frutto delle opinioni e dei programmi politici enucleati, coordinati e sedimentati dai pochi soggetti proprietari e gestori dei media della comunicazione mondiale. Soggetti dietro ai quali stanno altrettanti pochi protagonisti dell’economia globale. Le idee e i progetti varati da questi gruppi ristretti diventano espressione della volontà popolare solo se i gruppi stessi riescono a travestirli come problemi di interesse generale e a convincere le classi politiche ad adottare le loro proposte (Vidich, 1999, 41-43; Herman - Chomsky, 1998).

Per cui non ci si può sottrarre dal ricavare alcune istruttive conclusioni sulla natura e sulla portata della democrazia della nostra era.

La prima di queste ci dice che a monte di ogni processo decisionale sta il potere economico e che è errato pensare, come cominciano a fare taluni (Ramonet, 1999, 44), che quello mediale sia il secondo e non più il “quarto potere”, secondo la definizione tradizionale. Il potere mediale in realtà non è solo fortemente connesso col potere economico, ma è sua parte costitutiva e forma con esso un tutt’uno integrato. E il potere politico naturalmente subisce i pesanti condizionamenti di questa struttura di dominio unitario.

La seconda conclusione ci ricorda come il dibattito politico e le discussioni pubbliche siano diventate un’«arte perduta» (Lasch, 1995, 134). Il ruolo dell’informazione sembra infatti essere quello di far circolare un’ingente quantità di notizie, non di incoraggiare il dibattito o la discussione. Il rapporto tra informazione e dibattito, insomma, è divenuto antagonistico non complementare. Soltanto sottoponendo le nostre idee e i nostri progetti all’esame del dibattito, arriviamo a capire cosa sappiamo e cosa abbiamo ancora bisogno di imparare. Finché non dobbiamo difendere le nostre opinioni in pubblico, esse restano appunto delle opinioni, nel senso peggiorativo che al termine dava Lippman: delle convinzioni non ben definite, fondate su impressioni casuali e assunti arbitrari. è l’atto di articolare e difendere i nostri punti di vista che li eleva al di sopra della categoria delle “opinioni”, conferisce loro una forma e una definizione e permette agli altri di riconoscerle come espressione di un’esperienza che è anche la loro. In breve, noi comprendiamo i nostri punti di vista, spiegandoli agli altri.

«Il tentativo di convincere gli altri ad abbracciare le nostre convinzioni, naturalmente, comporta il rischio di finire per adottare, a nostra volta, le loro. Dobbiamo entrare con l’immaginazione negli argomenti dei nostri oppositori, se non altro allo scopo di confutarli, e possiamo finire per farci persuadere da coloro che cercavamo di convincere» (Lasch, 1995, 4). La discussione è rischiosa ed imprevedibile; ma in questo sta la democrazia. La discussione, in altri termini, non è solo preziosa per il consenso democratico, è indispensabile.

Una terza conclusione si collega con la cosiddetta «politica spettacolo». Essa ci sollecita a renderci conto del fatto che la sostituzione dell’esperienza diretta, e degli eventi che la costituiscono, con l’informazione simbolicamente mediata - o degli eventi reali con pseudo-eventi - non ha reso l’attività governativa più razionale ed efficiente, come sia i tecnocrati che i loro detrattori oggi presumono. Al contrario, ha prodotto una diffusa atmosfera di irrealtà che finisce col confondere gli stessi responsabili del potere decisionale. L’epidemia di inintelligibilità si propaga a tutti i livelli della compagine amministrativa. Non si tratta solo del fatto che i propagandisti restano vittime della loro stessa propaganda; il problema è grave. Quando i politici non hanno altro scopo che quello di vendere la loro leadership al pubblico, non hanno bisogno di standard intelligibili per definire gli obiettivi degli specifici indirizzi politici o per valutarne il successo o il fallimento (Lasch, 1992, 93).

Una quarta conclusione ci mostra come un’altra situazione di inintelligibilità e di smarrimento provenga dalla «censura democratica» delle informazioni. Questa, all’opposto della censura autocratica, non si fonda sulla soppressione o sui tagli, sull’amputazione o la proibizione di notizie, ma sull’accumulo, sulla saturazione, sull’eccesso, sulla sovrabbondanza delle informazioni. I danni provocati sui cittadini e sugli uomini politici sono evidenti. I primi sono letteralmente asfissiati, crollano sotto una valanga di dati che impediscono loro di orientarsi, di maturare dei giudizi, di fare delle scelte. I secondi sono schiacciati da una colluvie di rapporti, incartamenti, più o meno interessanti, che li mobilitano, li occupano, saturano il loro tempo, li distolgono dall’essenziale, rendendo difficile la presa di decisioni e a volte ritardandole.

Una quinta conclusione si connette, infine, con la differenza esistente tra tempo mediale e tempo politico. Una delle ragioni che spingono spesso i media a lasciarsi sedurre dalle menzogne sta appunto in tale contrasto. Il tempo politico, in regime democratico, deve essere lento, per consentire alle passioni di quietarsi. Non si ha soluzione democratica dei problemi, se al posto della ragione prevalgono le passioni. Il tempo mediale, invece, ha raggiunto il limite estremo della velocità: l’istantaneità. L’urto fra questi due momenti crea degli scarti che possono rivelarsi tanto più pericolosi quanto più delicate sono le questioni delle quali si tratta. La cosa appare più evidente se si riflette che l’elemento decisivo per valutare un’informazione non sembra essere la verità ma la rapidità con cui essa si diffonde, e la rapidità, che, ormai come s’è appena detto, tende a divenire istantaneità, in democrazia, è un criterio pericoloso (Ramonet, 1999, 75-77).

 

6. Per concludere

Se a quest’insieme di riflessioni si aggiunge la considerazione dei grossi nodi che insorgono ogni qual volta si tenta di progettare una democrazia di tipo cosmopolitico, ci si rafforza nella convinzione che la nuova comunicazione globale, nata dalla connessione dei settori tecnologici della telefonia, della telematica e dell’informatica - convenute e fuse nel multimediale e in Internet - ripropone sotto le sembianze della mondialità il vecchio problema di una democrazia internazionale, ovverosia, di un contratto politico fra più Stati rimasto perennemente insoluto.

Che, anzi, ci si trova costretti a riconoscere che, come denunciano Martufi e Vasapollo, con il dispiegamento del cyberspazio globale, nasce il rischio della strutturazione del potere (oltre che del sapere) per mano di una o più potenze egemoni, decise a mantenere le loro situazioni di predominio. Il fatto che la storica decisione di Bruxelles del 1995, quella di affidarsi al libero mercato, per favorire l’espansione delle autostrade informatiche, su suggerimento degli Stati Uniti, sia stata legittimata solo dal principio della competitività, deve essere un serio motivo di preoccupazione per gli uomini del ventunesimo secolo.

I quali, avvertiti sui rischi per la libertà e gli altri diritti fondamentali, provenienti da una «repubblica mercantile universale», devono prendere atto che l’unico luogo dove ancora si struttura in concreto una cittadinanza resta il territorio nazionale. E che un compito rilevante nel quale essi possono impegnarsi rimane, come suggeriva Fèlix Guattari poco prima della sua scomparsa, quello di «inventare un nuovo insieme di riferimenti per aprire la strada a una riappropriazione e a una riclassificazione simbolica degli strumenti di comunicazione e di informazione, al di fuori delle formule martellanti del marketing». Nel frattempo una cosa importante per il cittadino odierno è certamente quella di guardare ai livelli dove si decide l’architettura dei grandi sistemi di comunicazione con somma attenzione.

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