I trasporti nell’Italia-imbuto

Fabio Sebastiani

Strade, autostrade, trasporto aereo, ferrovie. Più che uno stivale l’Italia ormai somiglia ad un imbuto. Si entra, ma non si esce più. Si rimane imbottigliati, fermi, costretti a forza dentro un sistema di immobilità che in realtà è una perfetta macchina del profitto che scarica sui cosiddetti utenti i cosiddetti costi e recapita alle imprese margini mai vista prima. Un sistema che, tendenzialmente, privilegia la mobilità delle merci a scapito della mobilità delle persone. Un sistema che consente a tutta una schiera di personaggi di ricostruire il partito trasversale delle “opere pubbliche”. Un sistema sequestrato da poche lobby influenti che praticano ancora l’aureo principio “costi sociali & profitti privati”. Costi che sono anche ambientali, s’intende. Proprio negli ultimi mesi il governo italiano ha tirato fuori un piano generale dei trasporti che smentisce completamente gli obiettivi di Kyoto, quelli sulla riduzione dell’inquinamento, salvo poi stanziare 60 miliardi in tre anni (sic!), e contemporaneamente annullare gli effetti della carbon tax, per l’attuazione di un programma sul clima. Nella primavera del 2001 l’Agenzia nazionale per l’Ambiente (Anpa) ha affermato che nel 1998, ultimo dato disponibile, il nostro paese sfiorava del 4,5%, con punte del 6,3% nell’emissione del più importante gas “di serra”: l’anidride carbonica. “Nelle varie componenti del Piano - scrivono Legambiente e Wwf - negli interventi specifici e settoriali, gli obiettivi di sostenibilità ambientale appaiono fortemente ridimensionati o addirittura assenti, incapaci quindi di influenzare in modo trasversale le diverse strategie del Pgt, o comunque in forte ritardo rispetto allo stato di avanzamento delle elaborazioni specifiche”.

Il punto di rottura di questo delicatissimo equilibrio potrebbe arrivare da due processi ormai maturi: la tendenza alla deurbanizzazione e orizzontalizzazione delle città e l’esplosione dell’e-commerce.
Il nobel per l’economia Leontieff aveva previsto un aumento del traffico intracomunitario dalle 8.5 mld tonnellate dell’89 alle 17 mld tonnellate nel 2005. Ebbene quel livello è stato raggiunto già nel 2000. I trend previsti di aumento del commercio mondiale, ed in particolare dell’Europa, il moltiplicatore del trasportato rispetto all’aumento del Pil, stimano un raddoppio del trasporto merci ed un aumento della mobilità delle persone del 50%. Lo stesso Piano generale dei trasporti prevede un’ipotesi di sviluppo massimo del 36% del traffico a medio e lungo raggio, dato che prevedibilmente sarà superato. Poiché il dato è medio, quale sarà l’aumento dei trasporti nella pianura padana, o sulle tratte autostradali e ferroviarie dove già si concentra gran parte del traffico? Uno studio della Bocconi prevede che i tre milioni di pacchi che vengono consegnati annualmente nelle case degli italiani diventeranno sei milioni nel 2003, mentre, stando al decreto Ronchi dovevano dimezzarsi. L’auto e il trasporto su gomma stanno esaurendo la spinta propulsiva, ma non c’è una alternativa che possa nascere spontaneamente. L’alternativa è assumere una vera logica di sistema.
Insomma, siamo vicini al collasso. L’Italia, del resto, ha perso tutto quello che c’era da perdere. Ha perso il “treno” della intermodalità, dei sistemi alternativi, della cura del ferro e delle autostrade del mare. L’Italia continua a pensare che in fatto di trasporti è la domanda a dover configurare l’offerta e non il contrario, come vorrebbe il buon senso. È chiaro dietro non c’è un semplice errore logico ma l’attuazione di un ben preciso disegno economico. C’è l’idea di far diventare la mobilità non il principale fattore dello sviluppo ma uno dei maggiori prodotti del consumo di massa.

Nella produzione il trasporto “rimane” un fattore di sviluppo, ma soltanto perché, attraverso il just in time, le aziende eliminano i costi di immagazzinamento. Ma attenzione, questo valore aggiunto non è un valore aggiunto per il sistema, anzi. Sottrae alla collettività risorse perché scarica costi. “Finora la domanda - dice il ministro dei Trasporti Pierluigi Bersani - ha puntato solo a ridurre tariffe e costi. Al punto che, potrei dire un po’ provocatoriamente, tutti gli incentivi all’autotrasporto, tutti i bonus di questi anni passati, sono andati a ridurre i costi di trasporto per il sistema industriale e a garantire la competività generale”.

L’Italia si trova ora in una situazione di emergenza e quando uno non può scegliere c’è sempre qualcuno altro che cerca di approfittare della situazione. Il quadro è fin troppo noto.

Ecco una scheda che servirà a puntualizzare i termini della questione. In venti anni le auto nel nostro paese sono aumentate da 10 milioni a 30 milioni. Cosa “strana” in un paese stretto e lungo in cui gli spazi urbani sono, comparativamente, beni molto più scarsi rispetto a città come Londra o Parigi. Rispetto agli europei deteniamo addirittura il record di auto per abitante (571 auto per 1.000 abitanti contro una media Ue di 435). Nonostante questi numeri da vera e propria eccellenza il settore continua a sfornare e a propinarci prodotti inquinanti e di bassa qualità seguendo la logica che dove il mercato alloca beni di massa è meglio scaricare le scorie. Soltanto ultimamente vi è stato un accordo tra Ministero dell’Ambiente e Industria automobilistica che sancisce l’intenzione di ridurre i consumi medi finali delle auto del 25%, e del solo 6% dei Tir, entro il 2001. Davvero poco in confronto con quanto accade in paesi come la California dove l’obiettivo è la vendita di almeno il 10% di auto ad emissione 0 entro il 2003. Risultato, il costo derivante dall’inquinamento è stimabile in oltre 72mila miliardi e in 25mila quelli da rumore. Il costo derivante dagli incidenti per mortalità e infortunistica è di 42mila miliardi. Complessivamente aumenta il tempo che trascorriamo in auto, circa 2 ore e mezza al giorno, e diminuisce la velocità, circa 50-55 km/h. Questo dei costi è un capitolo abbastanza importante nell’economia di ragionamento proposto da questo articolo. Insomma, nonostante le cifre da vera e propria emergenza l’impostazione prevalente è quella di considerare il settore dei trasporti un mercato e non un sistema. Ma può essere considerato mercato un luogo in cui vengono messe in discussione “misure” di beni comuni come l’ambiente, il tempo, la stessa integrità complessiva del sistema, la mobilità degli individui? E poi, è un mercato un luogo in cui in realtà non c’è alcuna possibilità di scelta? Il modello autostradale, in cui si paga per entrare in un circuito chiuso dove c’è un’alta possibilità di rimanere bloccati, calza perfettamente come metafora della situazione. Attenzione, però, al “gestore” dell’autostrada non importa che voi rimaniate imbottigliati o meno perché in realtà una alternativa vera non l’avete. Si tratta di sfidare la sorte. E in ogni caso, che esca testa o croce l’unico a guadagnarci è lui.

Ciò dimostra quanto poco valore abbia un calcolo del Pil meramente quantitativo, e come questa modalità di calcolo sia distorsiva riguardo alla rappresentazione dell’effettivo benessere dei cittadini e della qualità di una società. Un modello di trasporto ambientalmente e socialmente sostenibile abbasserebbe paradossalmente il Pil. Trasporti, Pil e qualità della vita vanno in senso opposto, quindi. È sufficiente analizzare lo studio di Confitarma e Amici della terra che ha messo a confronto i costi esterni di nave, treno e Tir su alcuni percorsi. Ad esempio, sul tratto Gioia Tauro-La Spezia una nave di grandi dimensioni sostituisce 1.800 Tir e 900 carri Fs con costi finali di 289 milioni per la nave, 2.539 per il ferro, 2.376 per i Tir. Sempre nel medesimo studio vengono efficacemente sintetizzati gli effetti negativi e perversi della mancata internalizzazione dei costi: falsificazione della competitività fra i vari sistemi di trasporto, aiuto alle tendenze irrazionali della mobilità, penalizzazione dei prodotti e i servizi più sostenibili, riduzione della produttività e l’efficienza delle risorse, impoverimento delle risorse ambientali, alterazione dell’allocazione delle risorse pubbliche. Insomma il business dell’immobilità rende. Ogni modalità viene affrontata per quello che è nella sua settorialità a scapito di una visione di sistema, che poi, alla fine, è quella che fa veramente risparmiare sui costi. Anche qui un’altra metafora, quella dell’Alta velocità, serve a rendere più chiaro il concetto. L’Alta velocità, infatti, non solo non tocca un porto o un aeroporto ma gli stessi agglomerati urbani che tocca sono attualmente sprovvisti di un interscambio tale da assorbire l’impatto di quelli livelli di velocità. L’aumento dei trasporti è sempre inteso come indicatore di progresso e di benessere. Ma come da tempo è dimostrato che non vi è più relazione fra aumento della produzione e aumento dell’occupazione e del benessere, così sta diventando sempre più chiaro che non vi è relazione fra aumento dei trasporti e benessere collettivo. E nonostante questo le politiche di aiuti ai trasporti sia tramite gli investimenti, in particolare per il traffico su gomma, che gli incentivi fiscali di varia natura, l’enorme esternalizzazione concessa a scapito della collettività e dei beni pubblici, sono state un aiuto diretto a questo modello economico che ha privatizzato i profitti e reso pubblici i costi. Ed è sempre più così. Negli ultimi 20 anni il valore aggiunto del settore è passato dal 4.8 al 6.2 del Pil. Ogni famiglia italiana spende circa il 10,5% del proprio reddito in trasporto. I trasporti valgono un 10/15% del costo finale delle merci. Nei trasporti lavorano oltre un milione di addetti cui va aggiunto il settore manifatturiero.

In un contesto simile le opere pubbliche assumono un rilievo tutto particolare. E qui entrano in scena i nuovi democristiani, quelli che pensano di utilizzare i soldi di tutti per costruire le loro fortune politiche. Per esempio, per le strade si prevedono la pedemontana lombarda e veneta, la Milano-Brescia, l’integrale raddoppio della variante di valico: tutte scelte che danno risposte ad una domanda concentrata aumentando lo squilibrio modale.

Quando si discute di collasso del sistema trasportistico gli esperti, tipicamente, presentano e discutono due soluzioni, viste come alternative: una che punta al potenziamento della rete stradale, l’altra che vuol favorire l’uso di modi di trasporto alternativi. L’esperienza di tutti i paesi sviluppati mostra con sufficiente evidenza almeno due fatti: innanzitutto che l’azione generalizzata sulle infrastrutture porta a soddisfare una maggior domanda di trasporto ma non elimina affatto la congestione e in secondo luogo (purtroppo) che le politiche di trasferimento modale sono costose, difficili da realizzare e di limitata efficacia. La “variante italiana”, rispetto agli altri paesi europei, come la Germania e la Francia, ha sempre insistito sulla prima. Non certo perché più economica, ma perché maggiormente utile nell’ambito di tutta una serie di mediazioni necessarie tra la classe dirigente politica e quella economica. Basti pensare, ad esempio, il ruolo che hanno avuto e che continuano ad avere nel sistema delle tangenti.

Ad ogni campagna elettorale si torna a dire che il deficit infrastrutturale italiano è grave ed è urgente colmarlo, viste anche le previsioni di aumento della “domanda” di trasporto nei prossimi dieci anni. Da una recente ricerca, condotta dalla Trtt di Milano per conto della Commissione tecnica per la spesa pubblica, emergono alcuni casi, esemplificativi di una più vasta fenomenologia, che devono spingere a qualche riflessione. Ne citeremo soltanto uno, quello più macroscopico. Selezionando solo le tratte autostradali il cui grado di utilizzazione non supera il 40% della capacità oraria nel tronco più carico e nell’ora di punta, si ottengono circa 650 chilometri di autostrade. Poiché una strada statale di buon livello di quattro corsie, con svincoli, costa circa 15 miliardi in meno a chilometro rispetto a un’autostrada, la costruzione di 650 chilometri di strade statali al posto delle sottoutilizzate autostrade avrebbe comportato un risparmio dell’ordine di 10mila miliardi. Lo studio prende in esame altri esempi di spreco macroscopico: le costruende linee ferroviarie Bari-Taranto e Torino-Milano (alta velocità), l’ampliamento e la ristrutturazione dell’aeroporto Marco Polo di Venezia. “In tutti gli esempi menzionati - sottolineano Andrea Boitani e Marco Ponti - la distorsione nell’uso delle risorse pubbliche è fortemente sospetta. E si tratta solo di esempi”. In questi come in altri casi non risulta sia stata effettuata alcuna valutazione dei benefici e dei costi sociali delle opere. E, non essendo stata fatta una simile valutazione, non si è fatto neppure un confronto con il “valore” di altre opere, e di altre modalità di trasporto, quindi, e non si sono scelte quelle dal “valore sociale” più elevato. La cosa “curiosa” è che nei programmi elettorali di entrambi i poli sembra figurare ai primissimi posti, vedi lo show di Berlusconi davanti alla cartina dell’Italia nel programma di Bruno Vespa, il proposito di imprimere nuovo impulso agli investimenti infrastrutturali. Tra questi un posto di rilievo è occupato dalle infrastrutture di trasporto.

In un contesto di questo tipo in cui non solo manca un’idea di sistema ma ogni singola modalità mostra di aver esaurito tutte le potenzialità specifiche arriva il grande business della privatizzazione, altra grande invenzione del ceto politico. Sia chiaro, non si arriverà mai ad una situazione di completa privatizzazione. La mano pubblica sarà sempre presente ma non con una presenza di tipo politico e programmatorio bensì con il precipuo compito di intervenire per “correggere” gli eccessi. L’unico fattore che le privatizzazioni potranno aggredire per tentare di vincere la scommessa sarà il costo del lavoro sia sul lato dei diritti sia sul lato dell’occupazione. E su questi la “mano pubblica” sta dando più che una semplice spinta. Così la spiega l’attuale ministro dei Trasporti Bersani: “Il contratto di riferimento per il settore delle ferrovie va fatto, è la strada giusta per dare continuità al processo di liberalizzazione”. Nel Piano generale dei trasporti e della logistica si legge che a fronte di una dinamica delle retribuzioni contrattuali sostanzialmente allineata all’industria fra il 1984 e il 1990 l’ammontare del costo del lavoro nei trasporti è stato “molto superiore” a quello dell’industria. In particolare i dati riportati nel Pgtl mostrano come il costo del lavoro nei trasporti sia di circa il 22% superiore a quello dell’industria, “e come il gap sia rimasto invariato durante tutto il periodo 1990-1995”. “Date le attuali linee di tendenza del mercato dei trasporti - è scritto nel Pgtl - è legittimo attendersi un graduale riassorbimento di tale “devianza” dei trasporti, sotto il profilo dei costi e della gestione delle risorse umane, nonché dei livelli di conflittualità. Tale riassorbimento non sarà tuttavia spontaneo, ma dovrà essere guidato dai gestori dei servizi di trasporto, che saranno obbligati a confrontarsi in misura crescente con la concorrenza nel quadro di una progressiva riduzione dei flussi di risorse pubbliche. Ciò comporterà una profonda riconsiderazione dei modelli organizzativi ed una riduzione dei divari retributivi”. I Governi dell’ultimo periodo hanno affrontato la situazione dei trasporti attraverso una liberalizzazione e una privatizzazione spinta, tesa innanzitutto a demolire la forza contrattuale che i lavoratori del settore avevano accumulato in anni di lotta e per questa via perseguire l’abbattimento del costo del lavoro, più orario e meno salario, e forme sempre più spinte di deregolamentazione, cosiddetta flessibilità. Così è accaduto e sta accadendo nei porti come negli aeroporti, così si sta facendo nel settore ferroviario anche attraverso lo spezzatino Fs. È la stessa Unatras (associazione degli autotrasportatori), infine, a dire che nell’autotrasporto “soccombono le aziende grandi che hanno costi insopprimibili e rimangono le più flessibili che grazie all’autosfruttamento abbattono i costi di quelle più struttura.