"Le rappresentanze sindacali unitarie nel pubblico impiego"

Antonio Di Stasi

Di seguito si riportano alcuni stralci del libro di cui sopra dietro gentile concessione della Giappichelli editore.
Riportiamo di seguito i paragrafi 6 e seguenti del Capitolo

6. Strumenti e garanzie per la corretta gestione della fase elettorale. a) il ruolo della Commissione elettorale

Legislazione artt. 4, 5, 6 Regolamento RSU.

Entro 10 giorni dal momento in cui le organizzazioni sindacali comunicano al personale interessato e all’Amministrazione il calendario della consultazione, nelle singole amministrazioni sede di votazione, deve essere costituita una commissione elettorale.

Essa sarà composta da lavoratori, dipendenti dell’amministrazione designati dalle associazioni sindacali che intendono concorrere alla competizione, o almeno ciò secondo una interpretazione teleologica, perché, sul punto, la norma non è chiara facendo riferimento ad associazioni “presentatrici di lista” quando al momento le liste non sono ancora presentate.

Il punto, comunque, dovrebbe esser meglio specificato dagli accordi di comparto, anche perché l’art. 5, Regolamento RSU, prevede che i componenti siano incrementati con quelli delle liste presentate successivamente tra il decimo e il quindicesimo giorno.

In conclusione, si ritiene corretto interpretare il 2° co. dell’art. 5 nel senso che la “iniziale” Commissione elettorale può essere costituita con elementi designati dalle associazioni sindacali di cui alla lett. a) dell’art. 4, 1° co. e cioè dalle associazioni sindacali rappresentative indicate nella tabella allegata al CCNL Quadro, e quindi che il “primo” nucleo del Commissione elettorale può essere successivamente integrato con i rappresentanti delle “altre” organizzazioni sindacali.

Il problema della nomina del Presidente potrebbe essere poi superato con una sua elezione provvisoria in attesa che la Commissione venga integrata con gli elementi designati da eventuali altri sindacati partecipanti alla elezione, con l’evidente scopo di evitare che essa inizi a lavorare solo dopo il 15° giorno ovvero evitare di escludere dalla elezione per la presidenza, sia attiva che passiva, i lavoratori di sindacati che decidono, successivamente, di partecipare alle elezioni.

Infatti, se il primo atto della insediata Commissione è quello di procedere alle elezione del presidente, egli non potrà che essere provvisorio per non pregiudicare il concorso nella scelta, di quello definitivo delle altre organizzazioni sindacali.

Un altro problema ignorato dal legislatore, ma su cui l’autonomia collettiva non ha posto sufficiente attenzione, è l’ipotesi che la Commissione elettorale sia costituita da un numero di componenti pari.

In verità la normativa sembra dare per scontato che l’organo sia composto in modo dispari allorquando prevede che la Commissione debba essere composta da almeno tre membri e nel caso in cui le liste siano inferiori a tre “le associazioni sindacali designano un componente aggiuntivo”.

Il problema non è così, però, risolto: anche se le liste presentate fossero due, sempre pari sarà la composizione dell’organismo che quindi, in questa ipotesi, sarà composto da 4 membri.

Per evitare rischi di stallo decisionale, se non si vuole incidere sul metodo di costituzione della Commissione, gli accordi di comparto potrebbero prevedere che in caso di parità di voti, prevalga il voto del presidente.

La Commissione elettorale ammette le liste, verifica le candidature presentate, nonché decide in prima istanza i ricorsi in materia di ammissibilità di liste e candidature; nomina i presidenti di seggio e gli scrutatori, organizza e gestisce le operazioni di scrutinio, esamina gli eventuali errori e procede alla proclamazione degli eletti.

La disciplina sulla Commissione elettorale è stata letteralmente ripresa dal Protocollo di intesa sulle rappresentanze sindacali del 20 aprile 1994 in specie dagli artt. 5 e 6 dell’allegato Regolamento, ed evidentemente una tale disciplina, seppur così mal congegnata, non ha creato contenzioso tale da rendere avvertiti del problema i sindacati firmatari dell’Accordo sulla costituzione delle RSU.

 

6.1. Segue.

b) la posizione del datore di lavoro

Legislazione art. 19 Stat. Lav. - art. 68, d.lg. n. 29 del 1993 - art. 12 Accordo RSU - art. 19 Regolamento RSU - art. 386 c.p.c.

Bibliografia De Cristofaro 1999 - De Luca Tamajo-Alaimo 1987 - Di Stasi 1994 - Voza 1998.

La possibilità di riconoscere in capo al datore di lavoro, singola Amministrazione, ovvero all’ARAN, una sorta di “sindacato” sulla legittimità della costituzione della RSU, anche in relazione ai profili relativi all’elezione, è uno dei temi più delicati andando a toccare il rapporto tra datore di lavoro e procedure sostanzialmente endosindacali.

In linea di principio, quindi si dovrebbe escludere alcun potere di intromissione da parte dell’Amministrazione, tanto che difetterebbe anche di legittimazione passiva nel caso di controversie sulla elezione della RSU (Pret. Roma, ord., 18 novembre 1998, in LPA 1999, III, 1025, n. 10), in quanto al datore è assolutamente precluso qualsiasi potere di controllo sul procedimento, elettorale e contenzioso, di formazione dell’organismo di rappresentanza, giacché, così facendo interferirebbe direttamente sulla formazione di un organismo destinato a porsi in posizione antitetica all’interno dell’organizzazione amministrativa.

E neanche, di contro, può essere accusato di comportamento antisindacale il datore di lavoro che, seppur sollecitato da alcuni sindacati, si astiene, nel corso del procedimento elettorale per la formazione della RSU, da qualsiasi interferenza con finalità correttiva di ipotetiche irregolarità (v. Pret. Padova 24 settembre 1998, in DL 1999, II, 3, con nota adesiva di M. De Cristofaro).

Va, comunque, ricordato che la problematica relativa alla sussistenza e all’entità dei poteri datoriali di controllo sulla legittima formazione delle RSA aveva dato luogo a una querelle giurisprudenziale mai pienamente sopita.

Da un lato si ponevano coloro che sostenevano la legittimazione datoriale a chiedere il rispetto delle regole stabilite dalla contrattazione collettiva o dalla legge per la costituzione delle RSA (per tutte si v. Cass. 28 aprile 1992, n. 5092, in Not. Giur. Lav. 1992, 605 e Pret. Molfetta, 29 settembre 1993, in RCDL 1994, 143); dall’altro coloro che invece affermavano come il datore di lavoro dovesse limitarsi a prendere atto della costituzione della RSA senza sindacarne le procedure, sostenendo tra l’altro che l’azienda non è depositaria della tutela delle facoltà democratiche riconosciute ai lavoratori all’interno del sindacato (v., incidenter, Pret. Milano 1 aprile 1997, in RCDL 1997, 747, con nota adesiva di Capurro, Pret. Legnano, ivi, 1994, 98, Pret. L’Aquila 16 dicembre 1993, ivi 1994, 274).

Tuttalpiù, soltanto la mancanza del rispetto dell’unico requisito legalmente previsto per la costituzione di RSA come la “iniziativa dei lavoratori” poteva esser considerata rilevante come condizione di legittimità procedimentale, in mancanza della quale l’imprenditore avrebbe avuto titolo per disconoscere la RSA (De Luca Tamajo-Alaimo 1987, 619).

Nella nuova normativa sulle RSU, sia di fonte legale che pattizia, l’amministrazione è responsabile unicamente dell’esatto adempimento dei suoi obblighi in rapporto allo svolgimento della procedura elettorale per la costituzione della RSU. La natura di tali obblighi è meramente strumentale, sia con riferimento a quelli di contenuto negativo (divieto di ostacolare, seppure indirettamente, una qualunque fase della consultazione elettorale), sia con riferimento a quelli di contenuto positivo, come ad esempio la messa a disposizione di locali, materiale, sicurezza dei locali sede di seggio (così come previsto dall’art. 12 Accordo RSU, tra i quali l’obbligo, a pena di antisindacalità, di consegnare l’elenco dei dipendenti - v. Pret. Milano 7 febbraio 1994, in Dl 1994, II, 75 con nota di Di Stasi).

In tale prospettiva si pone la previsione contenuta nell’art. 16 Regolamento RSU, che prevede che il plico sigillato, contenente tutto il materiale (esclusi i verbali) trasmesso dai seggi, dopo la definitiva convalida della RSU, venga conservato, secondo accordi tra la Commissione elettorale e l’Amministrazione, in modo da garantirne l’integrità per almeno tre mesi.

D’altro canto la Commissione dovrà, inoltre, trasmettere copia del verbale (l’originale evidentemente deve rimanere nella disponibilità della RSU) all’ARAN attraverso l’Amministrazione.

Risulta chiaro, quindi, che la posizione passiva dell’Amministrazione rispetto alla procedura elettorale è tutta interna agli obblighi strumentali, di segno negativo e positivo, che si sostanziano nel non impedire né ostacolare la consultazione elettorale e di mettere a disposizione le strutture e quant’altro previsto negli accordi.

Il complessivo dato normativo e la ratio ispiratrice non consente interferenze del datore di lavoro “nell’an e nel quomodo della costituzione della RSU” secondo una interpretazione già emersa in ordine alle c.d. RSU pattizie (cfr. Pret. Macerata 10 febbraio 1995, in FI 1996, I, 724) anche con riferimento ad una fattispecie in cui il datore di lavoro si era rifiutato di riconoscere la RSU per insufficienza, a suo avviso, dei partecipanti al voto rispetto al quorum previsto per la validità delle elezioni.

6.2. Segue.

c) il Comitato dei garanti

Legislazione art. 19 Regolamento RSU.

Bibliografia Di Stasi 1999 - Follieri 1997.

L’art. 19 Regolamento RSU prevede che contro le decisioni della Commissione elettorale è ammesso ricorso entro 10 giorni ad apposito Comitato dei garanti secondo uno schema che dia garanzia per un riesame delle questioni controverse ed evitare così una lite giudiziaria.

In verità il Comitato sembra configurarsi più come un collegio eventuale che come un organo coevo all’inizio del procedimento elettorale, tanto che dalla formulazione della norma sembrerebbe che, sulla falsariga di quanto avviene per le richieste di conciliazione e arbitrato delle controversie individuali, sia il Direttore dell’ULPMO il garante-presidente e presso il suo ufficio si debba costituire il Comitato dei garanti.

Tale interpretazione cozza, peraltro, con la previsione del 3° co. in base al quale il Comitato deve pronunciarsi entro il termine perentorio di 10 giorni: se si considera che oltre che dal Direttore dell’ULPMO deve essere composto da un numero di membri corrispondente a quello del numero delle associazioni presentatrici di liste, oltre che da un funzionario dell’amministrazione dove si è svolta la votazione, si comprenderanno le difficoltà pratiche di una tempestiva operatività.

Inoltre, alquanto dubbia risulterebbe la terzietà e, conseguentemente, l’autorevolezza di un così fatto organo giudicante sia per l’ampiezza ipotetica del numero di componenti (a seconda dei sindacati partecipanti alla competizione), e sia perché i componenti sono nominati, sono collegati e, presumibilmente, esprimono l’interesse della rispettiva organizzazione di appartenenza. È veramente difficile credere che un organismo la cui composizione sostanzialmente rispecchia quella della Commissione elettorale ed i cui membri sono nominati dai soggetti coinvolti possa contraddire precedenti decisioni della Commissione elettorale, la cui composizione è simile, con la conseguenza di far perdere o limitare diritti o prerogative in capo ai sindacati di appartenenza (Di Stasi 1999, 1034-1035).

Perché il Comitato dei garanti possa svolgere la funzione di soggetto “capace” di risolvere la controversia in materia elettorale occorrerebbe, quanto meno, che sia composto oltre che da un presidente indipendente da soli altri due membri, scelti rispettivamente dal reclamante e dal (o dai) resistente.

Stante l’attuale formulazione è più semplice credere che il sindacato lamentante si rivolga direttamente all’autorità giudiziaria che
 secondo le previsioni del codice di procedura civile - dovrebbe essere individuato nel giudice ordinario e non, come talvolta prospettato, dal giudice amministrativo (Follieri 1997, 480; sulla competenza si rinvia al Cap. 7) potendo anche far ricorso alle azioni cautelari o d’urgenza al fine di ottenere un provvedimento satisfativo in attesa del giudizio di merito (v. Cap. VII, § 5. 3).

 

Riportiamo di seguito i paragrafi 5 e seguenti del Capitolo sesto: Rappresentanza e consenso

5. Qualità soggettive del rappresentante unitario e rapporti con il Sindacato. Esclusività della funzione

Legislazione art. 9 Accordo RSU.

Bibliografia Bergamaschi 1986 - Capurro 1997 - Scarponi 2000.

L’art. 9, Accordo RSU, prevede che il componente di RSU abbia dei requisiti soggettivi tali da porlo in una situazione di “non coinvolgimento” rispetto a partiti, movimenti politici e cariche istituzionali e, quindi, che la carica di componente della RSU è incompatibile con qualsiasi altra carica in organismi istituzionale o carica esecutiva in partiti e/o movimenti politici.

Una tale esigenza non è nuova, ma nasce con l’idea di libertà sindacale post costituzionale.

Gli statuti delle confederazioni storiche, ma anche di quelle “autonome”, prevedono, tra le regole fondanti, il divieto, per chi ricopre incarichi sindacali, di essere contemporaneamente rappresentante di partiti o movimenti politici, o parlamentare o consigliere regionale, provinciale o comunale o dei loro esecutivi (art. 7 Statuto CGIL; art. 34 Statuto CISL; art. 8 Statuto CISNAL. Si possono leggere in Quaderni di studi e legislazione, Il diritto dei sindacati, Camera dei deputati, Roma, 1979).

Particolarmente attenta sul punto è la UIL, la quale prevede incompatibilità esterne molto estese non ritenendo ammissibile con le cariche “a tutti i livelli sindacali” la copertura di cariche istituzionali o in consessi civici, ma anche la stessa candidatura per elezioni politiche o amministrative che “comporta la sospensione dagli organismi statutari e la decadenza dagli incarichi” (art. 49 Statuto); e, pure, incompatibilità interne e funzionali per evitare che lo stesso soggetto sommi su di sé più di un incarico (art. 48 Statuto).-----

Ciò, per affermare esplicitamente l’assoluta autonomia del sindacato nei confronti dei partiti, ma anche delle istituzioni pubbliche che possono svolgere attività interferenti con quella sindacale.

Se è pur vero che la quasi totalità degli Statuti dei Consigli di fabbrica (Bergamaschi 1986) non prevedevano esplicitamente questo tipo di incompatibilità, la regola risultava implicita, non foss’altro per una sorta di vincolo di secondo grado, dovendo gli eletti iscriversi al sindacato e, di fatto, andare a ricoprire incarichi anche in tale ambito.

Ora la normativa in commento prevede, con l’art. 9 Accordo RSU, che la “carica di componente della RSU è incompatibile con qualsiasi altra carica in organismi istituzionali o carica esecutiva in partiti e/o movimenti politici”, specificando che per altre incompatibilità valgono quelle previste dagli statuto delle rispettive organizzazioni sindacali.

L’indicazione normativa porta a qualificare la fattispecie all’interno dell’istituto della incompatibilità e non della ineleggibilità, rimandando ad un momento successivo, ovvero nel caso di elezione, l’obbligo dell’eletto che riversa in una situazione di incompatibilità di optare tra la RSU o continuare a ricoprire cariche politiche o istituzionali.

L’istituto dell’opzione è, espressamente, previsto da alcuni statuti sindacali: lo Statuto della CISL, ad esempio, prevede che l’opzione deve essere esercitata entro 15 giorni dalla elezione, pena, in mancanza, la decadenza dalla carica sindacale (v. art. 36 Statuto CISL).

Maggiori problemi interpretativi possono sorgere nel caso in cui l’incompatibilità sopraggiunga in costanza di mandato perché l’indicazione contenuta nell’art. 9 Accordo RSU, secondo cui “il verificarsi in qualsiasi momento di situazioni di incompatibilità determina la decadenza dalla carica di componente della RSU”, prevede una sorta di automaticità che si reputa eccessiva anche perché occorre porsi il problema della rilevabilità delle cause di incompatibilità discendenti dallo statuto del sindacato nelle cui liste è stato eletto il componente della RSU.

In un’ottica di gestione intersindacale delle RSU il rispetto della previsione di incompatibilità può esser fatto valere dalla RSU stessa, come organismo collegiale, o da un suo membro, o dalle organizzazioni sindacali e finanche dal singolo lavoratore, ma certamente non dalla Amministrazione, datore di lavoro (per una critica a quella parte della giurisprudenza che in passato ha ammesso l’intervento delle amministrazioni v. Capurro 1997, 752). La diversa opinione, secondo cui l’amministrazione potrà constatare l’avvenuta decadenza in quanto portatrice di un interesse alla genuinità ed indipendenza dell’organismo elettivo, che costituisce la controparte negoziale (Scarponi 2000, 1375), si scontra con la previsione che la gestione del procedimento elettorale, la decisione della ammissibilità delle singole candidature, la comunicazione degli eletti nella RSU sia di esclusiva competenza di un organismo endosindacale quale la Commissione elettorale, e sui cui lavori l’Amministrazione non può esercitare alcun controllo o interferire. Ad RSU insediata in altri termini l’Amministrazione non può tenere sotto vigilanza l’attività, i lavori e le condizioni soggettive dei rappresentanti sindacali, essendo sostanzialmente indifferente alle decisioni interne dell’organismo di rappresentanza (per ulteriori argomentazioni si rinvia al Cap. IV, § 6.1, che precede).

È chiaro, invece, che l’interesse primo, a non avere componenti incompatibili, è della stessa RSU, in quanto una decisione presa con il voto di un membro incompatibile potrebbe essere eccepita come vizio del procedimento decisionale e potrebbe rendere illegittima l’eventuale delibera presa con il voto del componente incompatibile.

 

5.1. Segue. Le “altre” incompatibilità

Legislazione art.9 Accordo RSU. Bibliografia Caruso 1986.

La fonte pattizia non detta un numero chiuso di cause di incompatibilità in quanto rinvia “per altre incompatibilità” ad altre ipotesi eventualmente previste dagli statuti delle rispettive organizzazioni sindacali.

In verità, da una esame degli statuti dei più importanti sindacati (Camera dei Deputati, 1979) non risultano indicate espressamente altre incompatibilità, oltre quella esaminata nel paragrafo che precede, se non quella implicita di rispetto e fedeltà delle decisioni sindacali (v. art. 26 del Regolamento allegato allo Statuto CISL correlato al potere del Collegio dei Probiviri di espellere i soci indisciplinati).

In ogni caso le sanzioni disciplinari endoassociative (sospensione, espulsione e altre misure) sono scarsamente efficaci o poco utilizzate in Italia, se non altro rispetto ad altri ordinamenti ove invece esistono limiti “convenzionali” al trasferimento della memberschip da un sindacato a un altro (Caruso 1986, 88).

Il tema, che potrebbe rivelarsi nella pratica del tutto marginale, sotto un profilo teorico, è di notevole importanza perché, a seconda che si propenda per una, o altra, soluzione, si ha una diversa qualificazione e natura della RSU.

 

5.2. Segue. L’ipotesi di incompatibilità sopravvenuta per motivi “politici” con il sindacato nella cui lista è stato eletto

Legislazione art. 9 Accordo RSU - artt. 3, 10, 17 Regolamento RSU - art. 19 Stat. Lav. - art. 19 CCNL Quadro.

Bibliografia Capurro 1997 - Ferraro 1981 - Rusciano 1984.- Santoro Passarelli 1980.

Può prospettarsi l’ipotesi in cui il rappresentante unitario entri in conflitto con la propria organizzazione sindacale. Ciò sotto diversi profili.

Si pensi al caso della disdetta dall’iscrizione al sindacato di appartenenza “iniziale”, ma anche quello di atti e comportamenti in contrasto con la linea politica del sindacato nelle cui liste è stato candidato ed eletto.

La questione è particolarmente delicata ed importante in quanto dal modo in cui la si risolve discendono conseguenze che si riflettono non solo sull’assetto della RSU, ma anche sulla sua configurazione. Gli elementi normativi su cui confrontarsi non sono univoci e non è inutile ricordare disposizioni più generali come l’art. 3 del Regolamento che prevede l’elettorato passivo in capo a tutti i lavoratori, sia a quelli iscritti al sindacato presentatore di lista, sia ai non iscritti.

La disciplina non specifica quale tipo di rapporto debba intercorrere tra i lavoratori candidati nella lista e l’associazione sindacale che la presenta, per cui nulla esclude, ad esempio, che l’associazione sindacale decida di candidare un lavoratore senza richiedergli l’iscrizione al sindacato.

Il tema è dei più spinosi perché ci porta a tornare nuovamente da un lato sulla qualificazione delle RSU (se elettiva-originaria o espressione sindacale); dall’altro sui rapporti tra candidato-eletto e sindacato di “appartenenza”; dall’altro ancora sulla c.d. libertà sindacale in negativo.

Una particolare attenzione va posta sulla natura elettiva della RSU la quale richiede un coinvolgimento elettivo universale, appunto, di tutti i lavoratori occupati nell’unità produttiva.

Per ciò stesso si è ritenuto, con riferimento alle RSU pattizie, che

il ruolo del sindacato rimane circoscritto al momento della formazione delle liste, escludendolo completamente dagli altri due momenti, quello dell’elettorato attivo e passivo e quello della vita della RSU regolarmente formata

(Pret. Milano 7 aprile 1997, in RCDL 1997, 747, con nota adesiva di Capurro).

Tale tesi trova argomenti sulla base di un giurisprudenza formatasi sulle RSA secondo cui, anche con riferimento a tali organismi, occorre dare particolare importanza alla volontà dei lavoratori (v. Pret. Milano 11 maggio 1992, in Orientamenti, 1992, 523, Pret. Milano 21 aprile 1992, ivi, 1992, 520, Pret. Milano 16 gennaio 1992, RCDL 1992, 663).

Si fa rilevare, infatti, che, pure, nella formazione delle RSA, spetta ai lavoratori promuoverne la costituzione, ancorché non necessariamente partecipino a un’elezione, e la loro volontà svolge comunque un ruolo di primo piano trattandosi pur sempre di organismi rappresentativi dei lavoratori dell’azienda.

Tale volontà è stata particolarmente valorizzata da quella giurisprudenza che ha precisato, con riguardo alle RSA, come l’iniziativa dei lavoratori, pur non implicando l’utilità della modalità elettiva, rivesta un ruolo centrale nel momento genetico di tale organismo rappresentativo dei lavoratori.

Il riconoscimento del sindacato esterno, si stempererebbe nella sintesi organica, perdendo la propria individualità e tale considerazione implicherebbe, di conseguenza, che

il disconoscimento sindacale, ovvero la disdetta dall’iscrizione al sindacato da parte del dirigente o di un membro di RSA, non integrato dalla contemporanea considerazione della volontà dei lavoratori che nella RSA si esprime, non potrebbe avere effetti sulla vita della medesima

(Pret. Milano 11 maggio 1992, Foro it. Rep., voce Sindacati, n. 71).

La maggior parte della dottrina ritiene, poi, che non vi sia rapporto gerarchico tra associazione sindacale esterna e strutture sindacali interne all’azienda (Ferraro 1981; Santoro Passarelli 1980, 617; Rusciano 1984), anche se in senso contrario a tale tesi si è fatto rilevare che il disconoscimento del dirigente di rappresentanza sindacale aziendale da parte del sindacato nel cui ambito il lavoratore è stato designato, incidendo su un aspetto strutturale del meccanismo previsto dall’art. 19 stat. Lav., comporta la decadenza anticipata dalla carica e la perdita di tutti i diritti connessi (v. Trib. Milano 29 ottobre 1994, in RCDL 1994, 495; Trib. Milano 22 dicembre 1993, in FI 1994, I 1592).

Un argomento portato dai fautori della tesi che vuole il rappresentante sindacale aziendale sottoposto al gradimento del sindacato si basa sul rilievo che l’attività della base (“l’iniziativa dei lavoratori”) deve essere avallata dall’organizzazione sindacale qualificata ai sensi dell’art. 19 stat. Lav.; la sola “iniziativa dei lavoratori” non è ritenuta sufficiente a determinare l’esistenza giuridica e la durata della RSA, così come non è ritenuto sufficiente il riconoscimento di una RSA da parte del sindacato, se difetta l’attività della base.

Occorre ricordare, che la stessa Corte costituzionale nella nota sentenza del 1974 (è la n. 54 e si può leggere in FI 1974, I, 964) ha definito la RSA una struttura complessa che dura in quanto, e fino a quando, permangono concretamente gli elementi che l’hanno costituita.

Da questa premessa consegue che, se il sindacato nel cui ambito è stata fatta la designazione, allontana il dirigente dalla propria organizzazione o in questa il dirigente non si riconosce più, vengono a mancare i due presupposti richiesti dall’art. 19 per la costituzione di una RSA (Cass. n. 5057 del 1981, FI 1982, I, 737).

Rispetto alla disciplina della costituzione delle RSA, la normativa in commento si differenzia per il fatto che anche l’iniziativa di costituire RSU e l’iniziativa di presentare liste da sottoporre al vaglio di tutti i lavoratori è posta in capo ad un sindacato, con esclusione, tra l’altro, di semplici aggregazioni di lavoratori (v. supra).

D’altro canto, il legislatore, ma neanche la fonte collettiva, prevede ipotesi di decadenza del componente della RSU per motivi di incompatibilità politica con il sindacato nelle cui liste è stato eletto.

Né una tale decadenza, qualora prevista, sarebbe esente da censure perché evidentemente i lavoratori, con il voto di preferenza, hanno manifestato una volontà anche di scelta personale cosicché non sarebbe del tutto azzardata una trasposizione, al campo sindacale, da quello pubblico-elettivo, del principio in base al quale l’eletto risponde soltanto agli elettori e non, ad esempio, al partito politico nelle cui file è stato eletto.

Evidentemente, però, quel generico inserimento nell’art. 9, Accordo RSU, della proposizione “altre incompatibilità” previste dagli statuti è stato chiesto, non a caso, da quelle organizzazioni sindacali che da sempre si sono mostrate più restie ad accettare una rappresentanza aziendale elettiva, intendendo, così, premunirsi di un altro fattore di controllo sulla propria componente di RSU.

Nulla vieta, ad esempio, che lo stesso sindacato modifichi lo Statuto inserendo, espressamente, l’ipotesi di decadenza da componente di RSU per colui che venga, dalla stessa associazione sindacale, dichiarato “incompatibile”.

Si potrebbe pure verificare l’ipotesi che anche il lavoratore, nel momento in cui si candida per un sindacato, accetti implicitamente quanto contenuto nell’accordo RSU, il quale, all’art. 9, rinvia ad “altre incompatibilità previste dagli statuti”.

È, poi, molto probabile, come prevedeva il Patto federativo del 1972, che il Sindacato chieda agli eletti l’iscrizione al sindacato nel caso non lo siano già, ovvero una dichiarazione di fedeltà.

Dall’esame degli Statuti, per come sono oggi scritti, si esclude che il sindacato possa esercitare un tale potere, per cui qualche dubbio potrà nascere soltanto quando e qualora sia specificatamente prevista una esplicita incompatibilità per il membro di RSU che decida di non essere più iscritto ovvero tenga un comportamento contrario a quello dell’organizzazione sindacale.

Ma anche in tale ipotesi, il Sindacato, nelle cui liste si è presentato ed è stato eletto il rappresentante “incompatibile”, potrà legittimamente far valere tale incompatibilità e chiedere che venga dichiarata la decadenza dalla RSU? E quale è l’organo competente a giudicare e sancire la decadenza?

In altri termini, è facile notare che il potere di dichiarare la decadenza è posto in capo, e non può essere altrimenti, all’organismo di cui fa parte il componente di cui si sostiene essere intervenuta la decadenza.

Il sindacato può solamente, come dire, richiedere il giudizio sulla sussistenza di cause decadenziali, ma la decisione spetta, in piena autonomia, alla RSU.

Al di là dei soggetti titolari del potere di “sostituzione” del componente dichiarato decaduto, si pone il problema del “diritto”, e cioè della legittimità dell’esercizio del potere di dichiarare la decadenza del componente per “motivi politici”.-----

Si pone, cioè, l’ulteriore problema della sindacabilità esterna, o interna sull’uso-abuso del potere disciplinare dell’associazione sindacale e/o della RSU.

Per risolvere questa ulteriore questione si ritiene di dover valutare che i seggi, in base all’art. 17 Regolamento, sono attribuiti alle liste e sono assegnati nominalmente in relazione ai voti di preferenza ottenuti dai singoli candidati e in caso di parità di voti di preferenza vale l’ordine all’interno della lista.

Inoltre, il sistema è stato previsto per accertare la rappresentatività di un determinato sindacato.

Si potrebbe, quindi, sostenere che il tradimento del sindacato da parte del componente nelle cui liste è stato eletto, e il passaggio ad un altro sindacato, senza che questa adesione sia verificata, sotto il profilo del consenso degli elettori di quella lista sindacale, alteri la genuinità dell’indice di rappresentatività.

Tale argomento potrebbe essere agevolmente superato sulla considerazione che la normativa ha previsto una sorta di cristallizzazione del dato elettorale: una sorta di doppio binario per cui la rappresentanza sindacale unitaria una volta eletta vive le sue vicende modificative senza interferire con il dato elettorale utile per la quantificazione della rappresentatività.

Non può, pertanto, essere il rischio di alterazione del sistema di misurazione della capacità rappresentativa un dato decisivo, potendo gli eletti trasmigrare e cambiare “casa” senza incidere sulle percentuali di successo elettorale dei sindacati in competizione.

Infatti, in base all’art. 19, 5° co., CCNL Quadro, l’ARAN, salvo che nel periodo transitorio, procede all’accertamento della rappresentatività delle associazioni sindacali in corrispondenza dell’inizio di ciascuna stagione contrattuale di riferimento nonché all’inizio del secondo biennio economico della stessa.

A tale scopo vengono presi in considerazione i dati associativi relativi alle associazioni sindacali risultanti nel repertorio delle confederazioni ed organizzazioni sindacali operanti nel pubblico impiego aggiornato al 31 gennaio dello stesso anno in cui si procede alla rilevazione nonché gli ultimi dati disponibili relativi alle elezioni delle RSU.

L’ipotesi paventata, e cioè che qualche sindacato inserisca nel suo statuto norme ad hoc, sulla incompatibilità e decadenza del componente di RSU in conflitto con il sindacato nelle cui liste è stato eletto, al di là della esigibilità e degli strumenti per ottenere la decadenza (voto della stessa RSU, intervento giudiziale?) potrebbe trovare un qualche fondamento dall’analisi di altri dati positivi.

Se la legge consente al sindacato di presentare e quindi far eleggere i rappresentanti unitari potrebbe essere ragionevole sostenere che il sindacato abbia il potere di disconoscere il “proprio” rappresentante.

In tal senso, la fattispecie dovrebbe essere ricostruita, più che in termini di revoca o annullamento della rappresentanza, come una incompatibilità sopravvenuta che permette al sindacato di decidere di attivare una sorta di atto uguale e contrario a quello della inclusione nella propria lista.

Il problema della investitura elettorale potrebbe essere superato se si ricostruisse la partecipazione alla competizione elettorale come una competizione non tra persone ma tra liste sindacali, con diversi programmi. In fondo la sostituzione del rappresentante divenuto incompatibile si avrebbe con un rappresentante anch’esso eletto dai lavoratori.

Altro argomento, potrebbe essere ricavato dall’art. 10 del Regolamento RSU, in base al quale viene in rilievo, sotto il profilo della attribuzione della volontà dell’elettore, non il voto di preferenza bensì il voto di lista.

Opzione chiaramente indicata allorquando si prevede (3° co.) che nel caso di voto apposto ad una lista e di preferenze date a candidati di altre liste, si considera valido solamente il voto di lista e nulli i voti di preferenza.

In conclusione, però, si può eccepire che tali elementi normativi sono dettati per interpretare la volontà dell’elettore e quindi per determinare il peso elettorale di ogni sindacato e non possono assumere rilievo decisivo per la soluzione del problema in argomento.

La questione trova, invece, un punto risolutivo nella considerazione che il passaggio attraverso il momento elettorale universalistico non è ininfluente per la determinazione dei rapporti tra componente della RSU e sindacato nelle cui liste è stato eletto.

Già con riferimento ai principi contenuti nelle RSU “pattizie” si rinviene una giurisprudenza per la quale la disdetta dall’iscrizione al sindacato che ha presentato una lista nelle elezioni della RSU, da parte di un lavoratore eletto membro della RSU in quella lista, è inidonea a far venir meno tale qualità di membro di RSU (Pret. Milano, 7 aprile 1997, in RCDL 1997, 747, con nota di Capurro).

Il passaggio elettorale comporta una modificazione funzionale profonda; ci si passi l’espressione: il figlio non è il padre.

L’ascendenza non può prevaricare la distinzione perché c’è stato un apporto, di “gameti”, di un altro soggetto, la comunità di lavoro nella sua interezza e nel segreto dell’urna.

Tra l’altro se il sindacato e la propria componente di RSU fossero la stessa cosa non si giustificherebbe la possibilità di costituire terminali associativi o comitati di iscritti, questi sì, organi interni del sindacato, nella medesima unità amministrativa.

 

Di seguito si riportano i paragrafi 5.1 e seguenti del Capitolo settimo: Diritti, guarentigie e tutela giudiziaria

 

5.1. Segue. b) le controversie in materia di comportamenti antisindacali

Legislazione art. 28 Stat. Lav. - art. 68, d.lg. n. 29 del 1993 - art. 4, legge l. n. 83 del 2000.

Bibliografia Amirante 1999 - Barbieri E.M. 2000 - Miscione 2000 - Sordi 2000 - Trisorio Liuzzi 2000.

La lunga marcia di avvicinamento della disciplina del settore pubblico a quella del settore privato, scandita da provvedimenti e con tempi diversi per quel che riguarda i diritti sindacali rispetto ai diritti inerenti il rapporto individuale, trova con le riscritture di molti articoli del d.lg. n. 29 del 1993, ad opera della tornata di decretazione del 1997-98, un epilogo complessivo che si riflette anche sull’abbandono di ogni diversità di trattamento per quanto riguarda le ipotesi di comportamento antisindacale.

L’art. 34 del d.lg. n. 29 del 1993, riscritto dal d.lg. n. 80 del 1998, definitivamente unifica il trattamento con il settore privato stabilendo che “sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.

In verità la precedente disciplina contenuta nell’art. 6 della legge n. 146 del 1990, aggiungendo due commi all’art. 28 Stat. Lav., aveva esteso l’applicabilità del procedimento per la repressione della condotta antisindacale alle controversie nei confronti di una amministrazione statale o di una altro ente pubblico non economico, attribuendo al giudice ordinario la giurisdizione in materia e riservando al giudice amministrativo solo le controversie in cui il sindacato, oltre alla tutela del proprio diritto soggettivo, richiedeva la rimozione dei provvedimenti amministrativi lesivi delle situazioni soggettive tutelate, sinteticamente definiti come comportamenti plurioffensivi.

Come subito notato, l’art. 68 non abrogava il testo dell’art. 6 della legge n. 146 del 1990 e quindi tale disciplina residuava, come residua lo statuto pubblicistico, per quelle categorie di funzionari della pubblica amministrazione escluse dalla privatizzazione e cioè per i rapporti di cui all’art. 2, 4° e 5° co., del d.lg. n. 29 del 1993 (in tal senso Sordi 2000, 344-345 a cui si rimanda per i riferimenti dottrinali antecedenti; contra Trisorio Liuzzi 2000, 1848).

Successivamente, in sede di riforma della disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, con l’art. 4 legge n. 83 del 2000, il legislatore ha colto l’occasione (Miscione 2000, 147) per risistemare la materia della condotta antisindacale nel lavoro pubblico, abrogando esplicitamente il 7° e 8° co. dell’art. 28 Stat. Lav. (introdotto dall’art. 6 della legge n. 146 del 1990).

Da questo intervento di pulizia, i primi commentatori ritengono di poter affermare che, oggi, per la repressione condotta antisindacale la competenza è del giudice ordinario pure se il comportamento antisindacale lamentato riverberi i suoi effetti su magistrati, diplomatici, militari e poliziotti, professori e ricercatori universitari e su gli altri dipendenti pubblici non “privatizzati” (Miscione 2000, 158), il che però potrebbe non essere così pacifico nel caso di condotta plurioffensiva, se si interpretasse il 3° co. dell’art. 68, d.lg. n. 29 del 1993 in modo sistematico e “collegato” alla previsione contenuta nel 1° co. che afferma la competenza del giudice ordinario per le controversie dei “privatizzati”.

Certo è che una volta ammessa la competenza del giudice ordinario a questo va riconosciuto ogni più vasto potere (sull’elemento soggettivo nella condotta antisindacale, da ultimo, v. Barbieri E.M. 2000, 845 ss.) non solo in sede di condanna, ma anche di rimozione degli effetti “ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti”, i quali, se ritenuti illegittimi, potranno essere disapplicati dal giudice ex art. 68, 1° co. (Amirante 1999, 1453).

I dubbi sorti con riferimento ai limiti del potere del provvedimento giudiziale in sede di rimozione degli effetti nel caso in cui il giudizio cada su un provvedimento amministrativo sono facilmente superabili stante la funzione, diremmo prevalente, che il legislatore ha ritenuto di riconoscere all’art. 28 Stat. Lav. rispetto al classico divieto del giudice ordinario di annullare gli atti della pubblica amministrazione. La stessa Corte di Cassazione ha già espressamente riconosciuto in capo al giudice ordinario, nelle controversie relative al comportamento antisindacale, il potere di annullare gli atti dell’Amministrazione (v. Cass. 14 febbraio 1997, n. 1398, in FI 1999, I, 620 con nota di D’Antona; in dottrina, da ultimo, Sordi 2000, 346).

Sotto questo profilo la decisione del Supremo Collegio, che si condivide, trova una ragione nello stesso spirito della riforma per cui nel caso di provvedimenti amministrativi che limitano diritti sindacali opera una sorta di presunzione che li fa ritenere effetto di quella attività di micro amministrazione che, con la seconda privatizzazione, rifugge da una natura pubblicistica potendosi paragonare a meri atti di gestione privatistica del rapporto.

 

5.1.1. Segue. La legittimazione ad agire ex art. 28 Stat. Lav.

Legislazione art. 28 Stat. Lav. - art. 10 Accordo RSU.

Bibliografia Bonardi 1993 - Chiusolo 1997 - Di Stasi 1994b - Fiorillo 1999 - Garofalo 1979 - Novella 1997 - Pandolfi 1993 - Papaleoni 2000 - Santoro Passarelli 1996 - Scarponi 2000 - Tampieri 1999.

L’art. 68, 3° co., d.lg. n. 29 del 1993 rinvia in toto all’art. 28 Stat. Lav., con ciò non risolvendo gran parte dei problemi posti da quella norma dal momento che riconosce la legittimazione ad agire per comportamento antisindacale agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse”.

La giurisprudenza è sempre stata concorde nel ritenere che la legittimazione ad agire ex art. 28 Stat. Lav. spetti all’istanza territoriale più periferica del sindacato nazionale, come tale più vicina alla situazione che costituisce oggetto del procedimento di repressione della condotta antisindacale (Pandolfi 1993, 618).

È stata così negata, per molto tempo, la legittimazione ad agire con il procedimento speciale sia alla RSA che alle forme organizzatorie della autotutela dell’interesse collettivo diverse da quelle poste all’interno di sindacati nazionali, finché nella giurisprudenza di merito ha iniziato a manifestarsi la tendenza ad ampliare la legittimazione attiva al fine di consentire ad altre organizzazioni sindacali, pur non nazionali, l’utilizzazione della speciale procedura di repressione della condotta antisindacale (v. Novella 1997, 81).

L’esclusione della titolarità in capo alle RSA viene fatta discendere dal fatto che questi organismi rappresentativi le RSA hanno poteri esclusivi e che geneticamente la loro costituzione è dovuta all’iniziativa dei lavoratori (Belfiore 1978, 16), ma più recente dottrina ha messo in evidenza che, comunque, alla luce della attuale configurazione delle RSA la nomina di tali organismi può avvenire anche tramite designazione diretta da parte del sindacato la cui rappresentatività è misurata su base nazionale. In questo modo il vincolo associativo risulta rafforzato, “e di conseguenza non possono sussistere dubbi che le RSA siano organismi dei sindacati che procedono alla loro costituzione, e che, a loro volta, soddisfano l’ulteriore requisito previsto dall’art. 28, ovvero la dimensione nazionale, in virtù dei parametri di rappresentatività contenuti nell’art. 47 bis” (Scarponi 2000, 1390).

Con riferimento alla esclusione della titolarità in capo a forme organizzatorie diverse da quelle del sindacato nazionale, la questione si è posta in termini di illegittimità costituzionale della norma.

Ma se, come noto, la sent. n. 54 del 1974 della Corte costituzionale ha escluso la violazione del principio di eguaglianza affermando che la differenza di trattamento è giustificabile alla luce della maggiore rappresentatività ed affidabilità dei sindacati nazionali (per la critica a tale motivazione v. Garofalo 1979, 199), ora, alla luce del meccanismo per cui la capacità rappresentativa dell’organismo pluralista ed unitario a livello di azienda è non tanto verificato quanto elemento suo costitutivo, viene meno la ratio di esclusione di un tale riconoscimento.

La RSU qualificandosi come organismo pluralista ed unitario del sindacato, dei sindacati, è chiaramente qualcosa di più dell’organismo locale del sindacato nazionale.

Di fondamentale rilievo è la considerazione che con l’Accordo RSU le principali organizzazioni sindacali nazionali e la controparte datoriale hanno “riconosciuto” le Rappresentanze Sindacali Unitarie come organismo sindacale locale (cfr. art. 10 Accordo RSU, meglio conosciuto come “clausola di salvaguardia”).-----

In ogni caso, e comunque, non sarebbe possibile negare che la RSU sia un organismo locale delle associazioni nazionali allorquando alle elezioni abbia partecipato una “sigla” nazionale.

L’azione ex art. 28 viene in rilievo, oggi, non tanto perché prevede una titolarità processuale del sindacato, ma perché indica una tutela speciale nel caso di violazioni contro la libertà ed attività sindacale: un procedimento d’urgenza con minori formalità anche per la formazione della prova.

Ammettere la legittimazione attiva delle RSU ad agire ex art. 28, alla luce di queste prime considerazioni, sarebbe in linea con lo spirito della legge, stante la circostanza che l’organismo rappresentativo fotografa esattamente la rappresentatività su base universale ed elettorale della comunità di lavoro.

In giurisprudenza, specifici precedenti sono molto pochi, e comunque riferiti alla RSU di origine e formazione pattizia.

Malgrado tale diversità genetica rispetto alla RSU oggi istituita per il settore pubblico, la decisione del Pretore di Brescia 9 maggio 1997 (decreto) (si può leggere in RCDL 1997, 763, con nota critica di Chiusolo), rappresenta un punto di riferimento importante.

Il Pretore, infatti, giunge a riconoscere che le RSU sono una espressione periferica delle associazioni sindacali e a sostegno di tale tesi porta due considerazioni ricavate dall’Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993: mentre le RSA possono essere costituite ex art. 19 Stat. Lav. “a iniziativa dei lavoratori” le RSU possono essere costituite ex art. 1, parte I, predetto Accordo, “a iniziativa delle associazioni sindacali firmatarie del Protocollo 23 luglio 1993”; inoltre la RSU è costituita, secondo l’art. 2, parte I, del citato accordo, mediante elezione solo per due terzi mentre il rimanente terzo è assegnato alle OO.SS. che hanno sottoscritto il CCNL applicato nell’unità produttiva (contra Trib. Civitavecchia, decreto, 11 maggio 2000, in MGL 2000, 849, con nota di Papaleoni).

È stato da tempo riconosciuto dalla migliore giurisprudenza che la legittimazione ad agire ex art. 28 Stat. Lav. spetta alla struttura locale dell’associazione sindacale nazionale anche quando quella non sia legata a questa da un rapporto di immedesimazione organica, dal momento che l’organismo locale, stante la libertà di organizzazione sindacale, può collegarsi alla struttura nazionale del sindacato mediante qualsiasi modulo organizzativo (v. Bonardi 1993, 873).

In tal senso occorre porsi il problema, da un lato, della natura sindacale della RSU, diretta espressione dei sindacati che, per il meccanismo virtuoso sopra ricordato, ricompensa ai fini della qualificazione della rappresentatività; dall’altro, del potere negoziale riconosciuto a questa articolazione sindacale anche all’interno del sistema di negoziazione previsto dal legislatore.

Al centro contrattano i sindacati rappresentativi; in periferia le RSU, che altro non sono che rappresentanze sindacali espressione delle associazioni sindacali e pluricomposte a seguito di elezione e con il consenso di tutti i lavoratori.

Il nuovo sistema di relazioni sindacali e contrattazione integrativa necessariamente instaura un legame tra i diversi livelli territoriali del “sindacato” - pur nel rispetto dell’autonomia di e tra ogni sigla sindacale e tra ogni sigla sindacale e la RSU - prospettando una coerenza di intenti e di comportamenti, con una stretta correlazione e rinvio della contrattazione nazionale alla contrattazione integrativa sulle materie determinate in sede nazionale.

In tal senso l’autonomia che va riconosciuta alla RSU non rende estraneo tale organismo alla articolazione territoriale sindacale, sì da ricomprenderla nella nozione di organismo locale ex art. 28 (cfr. Chiusolo).

Esula da tale argomentazione (contra Trib. Civitavecchia, decr., 11 maggio 2000, in MGL 2000, 849) il fatto che il membro di RSU possa concretamente tenere una linea diversa rispetto a quella del o dei sindacati nazionali e non rileva il fatto che non esiste alcuna forma di controllo e di coazione (in senso giuridico mentre rimane quella in senso politico), nei confronti del rappresentante dissenziente (v. Cap. VI, § 5 ss.).

Un ulteriore elemento, a sostegno del riconoscimento in capo alle RSU della legittimazione attiva ex art. 28 Stat. Lav., può essere desunto anche dalla lettera della norma, in quanto il legislatore ha voluto incardinare la legittimazione attiva in capo agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali”.

La disposizione è stata letta sempre al singolare mentre è scritta al plurale (v. Cons. Stato 22 novembre 1993, n. 912, Cons. Stat 1993, I, 1515 che ha affermato la legittimazione ad agire in capo alla sezione provinciale del coordinamento dei delegati di base dei postelegrafonici).

Il legislatore, è stato pure ricordato, in effetti, pur non avendo in mente le RSU aveva ben presente l’esperienza dei Consigli, organismo che per molti versi ricorda le attuali RSU, e probabilmente l’uso del plurale lo si deve proprio a questa circostanza.

La stessa Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi in ordine alla legittimità costituzionale della norma in esame, nella parte in cui prevede la possibilità di esperire il procedimento di repressione di condotta antisindacale soltanto da parte degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse e non anche da parte dei singoli lavoratori, delle altre associazione e delle RSA, ha ritenuto che la “razionalità della norma” sia da ricercare nella attribuzione di questo mezzo “ad organizzazioni responsabili che abbiano una effettiva rappresentatività nel campo del lavoro e possono operare consapevolmente delle scelte concrete valutando, in vista di interessi di categorie lavorative e non limitandosialla protezionedi interessi soggettivi di singoli lavoratori, l’opportunità di ricorrere alla speciale procedura prevista dall’art. 28” (Corte cost. 6 marzo 1974, n. 54, cit.), cosicché sarebbe contrario ai principi indicati escludere dal novero dei soggetti abilitati a ricorrere al procedimento per comportamento antisindacale proprio la RSU, che è organismo sicuramente rappresentativo, ha natura sindacale ed opera nell’interesse della comunità o categoria lavorativa di cui è espressione

Riconoscere la legittimazione attiva della RSU non significa dismetterla in capo agli organismi locali dei singoli sindacati o, pure, in capo al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (in senso contrario si esprime Tampieri 1999, 403), anche se sul punto chi scrive è dubbioso (v. infra) dovendosi distinguere a seconda che il rappresentante sia interno o esterno alla RSU (v. Cap. II, § 7).

Il sindacato ha sempre interesse a chiedere tutela contro la violazione di diritti sindacali (in quanto tale lesione è sempre idonea a limitare il libero esercizio dell’attività sindacale in genere) a prescindere dal fatto che la lesione si sia verificata in capo al sindacato stesso, o alla rappresentanza unitaria o al singolo lavoratore (Di Stasi 1994b, 51).

Se non si riconoscesse la legittimazione attiva della RSU ex art. 28 si porrebbe un problema di effettività della capacità sindacale della RSU, con compressione della possibilità di garantire la tutela dei diritti di tale organismo una volta che siano stati lesi dal datore di lavoro, a prescindere dalla reazione giudiziale del sindacato territoriale.

Una diversa interpretazione potrebbe sollevare una questione di costituzionalità dell’art. 28 nella parte in cui nega ad alcuni soggetti sindacali fruitori dei diritti sindacali la speciale tutela processuale garantita dall’art. 28 Stat. Lav., a meno di sostenere una totale equipollenza di questo procedimento con quelli cautelari previsti dal c.p.c. (cfr. Santoro Passarelli 1996, 14), equipollenza che, però, non è data rinvenire.

È pur vero che in giurisprudenza è riconosciuto ammissibile il ricorso proposto congiuntamente ed alternativamente nelle due forme cautelari di cui all’art. 700 c.p.c. e 28 Stat. Lav., in quanto anche se l’ordinamento offre al sindacato un procedimento straordinario, quale è quello previsto dall’art. 28, che ha tra le sue caratteristiche quella della rapidità, tuttavia, ove non sussistano i presupposti per la tutela cautelare proprio in virtù del carattere residuale della stessa, “il ricorso va in primo luogo esaminato come ricorso ex art. 28 e, qualora come tale non sia ammissibile ai sensi dell’art. 700 c.p.c.” (Pret. Roma, ord., 16 novembre 1998, in LPA III; 1999, 1023 n. 5, contra Pret. Roma, ord., 16 novembre 1998, ovviamente di diverso Pretore in LPA 1999, III, 1024-1025, n. ).

In ogni caso un intervento del legislatore sarebbe quanto mai auspicabile, anche sulla considerazione che nella proposta di legge (si tratta dell’Atto Camera n. 4924 di cui dà atto Tampieri 1999, 403) già approvata dal Senato, in cui si prevede espressamente la legittimazione ad agire ex art. 28 Stat. Lav. in capo al rappresentante per la sicurezza, si potrebbe aggiungere quella della RSU.

Sotto altro profilo, è stata anche avvertita l’inadeguatezza della limitazione della legittimazione attiva posta in capo solamente agli organismi locali del sindacato nazionale (Fiorillo 1999, 1054) con una ingiustificata limitazione di tutela per i diritti propri del Sindacato nazionale. La giurisprudenza, sulla base della lettera dell’art. 28 Stat. lav., sostiene che gli organismi legittimati, quelli periferici, devono agire per un interesse proprio e quindi non possono attivarsi per denunciare un comportamento attuato a discapito dell’associazione nazionale e ciò in virtù della necessaria coincidenza, in assenza di norme che consentano la sostituzione processuale, tra soggetto leso e soggetto che agisce in giudizio (Pret. Roma, decr., 31 marzo 1999, in LPA 1999, III, 1045, n. 1). Cosicché essendo inammissibile per difetto di legittimazione attiva il ricorso proposto ex art. 28 Stat. lav. da Sindacati nazionali (tra le tante v. Pret. Roma, decr., 11 novembre 1997, in LPA 1999, III, 1046, n. 4) l’interesse generale dell’associazione sindacale sarebbe tutelabile solamento per le vie ordinarie (Pret. Roma, decr., 26 gennaio 1996, in LPA 1999, III, 1046, n. 5) con ciò creando una disparità di strumenti tutt’altro che giustificabile e su cui, pure, sarebbe opportuno un intervento estensivo del legislatore.