“The Federal Business Revolution”

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Parte Seconda. Dal Terzo Settore al "Welfare dei Miserabili": gli altri strumenti della Grande Riforma della P.A.

1. Il nuovo ciclo flessibile del "Welfare dei miserabili"

1.1. Welfare State: cambiamenti e modifiche degli ultimi anni

 

E’ a partire dalla seconda guerra mondiale che si comincia ad usare il termine Welfare State ossia, lo "Stato del benessere", per indicare un sistema a carattere sociale, politico ed economico nel quale lo Stato si incarica di garantire ai cittadini il benessere sociale ed economico. Attraverso anche la creazione di imprese diventa predominante la presenza in settori quali l’assistenza sanitaria, l’istruzione, la previdenza, l’assistenza sanitaria.

Per dare una collocazione storica al concetto di Welfare State va ricordato che già nei primi secoli dell’era cristiana la Chiesa aveva realizzato una sorta di aiuto con interventi a sostegno dei poveri, dei malati, degli anziani, ecc.; in Gran Bretagna poi è del 1597-98 la cosiddetta Poor Laws (rimasta in vigore fino al 1834) che si fondava sull’obbligo del lavoro per i poveri abili, sul divieto di accattonaggio, sui sussidi per gli inabili e quelli per la disoccupazione temporanea. Si rafforza, così, un sistema di assistenza e di cooperazione tra pubblico e privato, in quanto mentre i governi avevano il compito di vigilare sull’ordine pubblico, sulla sanità e sul rischio di epidemie e carestie, le istituzioni laiche e religiose amministravano gli ospedali e fornivano i servizi necessari ai poveri. Nel 1800, la crescente industrializzazione e urbanizzazione collegate alla “questione operaia” fanno sì che il Welfare State diventi la risposta alle nuove e sempre più complesse esigenze che non avevano più la possibilità di contare sul solidarismo tradizionale. Il capitalismo industriale porta allo sviluppo sempre più massiccio della classe operaia che si ritrova ad essere il ceto sociale più bisognoso di interventi (malattia, invalidità, disoccupazione, anzianità). Bismarck (tra il 1883 e il 1889) introdusse in Germania una assicurazione obbligatoria gestita dallo Stato che tutelava le malattie, la vecchiaia, l’invalidità e gli infortuni. Questo nuovo modello di Welfare ebbe una grande influenza in tutta Europa, mettendo in discussione anche il cosiddetto “Welfare inglese”; il modello tedesco, infatti, si caratterizzava per il fatto che la protezione sociale era un diritto del lavoratore che doveva essere garantito dallo Stato.

È del 1942 il “Piano Beveridge” che ha istituzionalizzato una generalizzazione del Welfare a tutti i soggetti e a tutti i rischi; in altre parole furono introdotti i principi di onnicomprensività e di universalità ai quali si è aggiunto poi il principio dell’egualitarismo delle prestazioni. Dopo le due guerre mondiali sono state date applicazioni diverse nei vari paesi europei del “Piano Beverdidge”. Da un lato vi è stato il modello scandinavo che tutela tutti i cittadini (universalistico), il modello tedesco, occupazionale o particolaristico (applicato anche in Francia, Lussemburgo, Austria, Paesi Bassi e Belgio) che assicura i lavoratori ed infine il modello misto (nel quale rientra anche l’Italia).

Dalla fine degli anni settanta si è avuta una accelerazione del processo di globalizzazione in tutti i paesi; questo sia per la riduzione sempre più marcata delle restrizioni alla circolazione delle merci, delle persone e dei capitali sia per il progresso tecnico che ha notevolmente migliorato i costi di trasporto e di comunicazione.

Questa situazione pur portando alcuni vantaggi ha molte ripercussioni negative: in primo luogo va rilevato che i benefici non hanno una distribuzione uniforme in quanto non solo interessano diversamente i vari paesi ma, anche all’interno degli stessi spesso riguardano solo alcuni settori produttivi ed anzi peggiorano la situazione di altri. Infatti nei paesi dell’UE vi è una grande differenza tra i sistemi di Welfare, differenza dovuta soprattutto alla diversa storia civile, sociale, economica e religiosa esistente. Comunque vi sono due principali sistemi di Welfare State: il primo, al quale si rifanno i paesi europei si caratterizza per uno Stato sociale di tipo universalistico con una forte presenza pubblica e il secondo, tipico degli Stati Uniti, nel quale il ruolo pubblico è molto limitato e una grande parte delle prestazioni sociali è originata da accordi fra lavoratori e imprese.

Infatti "Nei paesi europei il sistema di protezione sociale copre praticamente la totalità della popolazione in tutti i comparti di spesa. In Europa è quindi ragionevole parlare di uno Stato sociale universalistico (che trova il necessario corrispettivo o nel finanziamento contributivo proporzionale al monte salari o nel ricorso alla fiscalità generale secondo una ripartizione riconducibile al reddito individuale)... in Europa, o perlomeno in Europa continentale, la componente privata è circoscritta. In Italia, solo il 14% della spesa era nel 1994 privata, rientrando in questa componente la spesa sanitaria privata ed i trattamenti di fine rapporto, oltre ad interventi minori... nei primi anni Novanta la quota di spesa privata sul totale della spesa sanitaria era pari in tutti i paesi europei al 25% del totale". [1]

Questi dati, anche se riferiti soprattutto alla prima metà degli anni ’90 (in quanto sono gli ultimi disponibili), confermano che la spesa complessiva per il Welfare in Europa (con valori tra il 27 e il 31% del PIL) è paragonabile a quella degli USA (i valori sono intorno al 28%). Va rilevato, però, che pur essendo abbastanza vicini i valori percentuali è molto diversa la composizione delle spesa tra i paesi europei e gli Stati Uniti; in questi ultimi, infatti, oltre il 40% della spesa è riferito al settore privato.

Con i piani di ristrutturazione post-fordista accompagnati da politiche monetariste restrittive e con il venir meno della conflittualità sindacale delle organizzazioni dei lavoratori, sono entrati in crisi tutti i sistemi di Welfare State fino ad arrivare addirittura ad una “cultura anti-assistenziale”, affermatasi soprattutto nella seconda metà degli anni ’90 quando la maggior parte dei paesi europei ha dovuto praticare politiche atte a riequilibrare la finanza pubblica per sottostare ai parametri di Maastricht.

Gli anni ’90, infatti, complessivamente evidenziano una generale diminuzione delle spese totali delle Amministrazioni Pubbliche in quasi tutti i paesi dell’area dell’euro. Tutti i sistemi di Welfare che caratterizzano i paesi industrializzati hanno in comune l’ipotesi guida secondo la quale coloro che si trovano in condizioni di bisogno fanno parte di una “società residuale” nei confronti della quale si deve intervenire in forma assistenziale.

Dopo una iniziale crescita della presenza dello Stato a garanzia dei diritti dei cittadini si è assistito, soprattutto negli ultimi anni, ad un drastico taglio della spesa sociale.

Qualche dato ci conferma quanto sostenuto: ad esempio "dal 1990 al 1993, le spese per la protezione sociale, rispetto al PIL, nel nostro Paese sono aumentate in linea con la media europea di quattro punti, passando dal 25 al 29 per cento; dal 1993, invece, il rispetto dei parametri di Maastricht è coinciso con una fase di contrazione della spesa... La Danimarca destina alla famiglia, all’abitazione e alla lotta contro l’esclusione sociale, il 19% del PIL, mentre l’Italia ne impegna il 3,4%... L’insieme dei dati... consente anche di confutare alcune teorie molto diffuse, prima fra tutte quella secondo cui a una bassa spesa sociale corrisponda un alto livello di occupazione. Si tratta di un equazione che non ha riscontri realistici, dal momento che, ad esempio, l’Italia, con il 24,6% di spesa sociale rispetto al PIL, ha un livello di disoccupazione dell’11%, mentre l’Olanda, con una spesa sociale del 31,6%, ha un tasso di disoccupazione pari al 5%." [2]

Se si guarda al rapporto del Censis del 1999 si rileva che la domanda di protezione sociale nel nostro Paese sta cambiando molto; ad esempio cresce "la diffusione di malattie cronico-degenerative a forte impatto assistenziale dovute all’invecchiamento della popolazione, tendenza che, secondo le previsioni di qui all’anno 2040, dovrebbe ancora accentuarsi: al 1 gennaio 1999, in Italia gli ultrasessantacinquenni sono oltre 10 milioni, rappresentano il 17,7% della popolazione, complessiva e, unico paese al mondo, superano il numero di ragazzi con meno di quindici anni (che sono il 14,5%)... Qualsiasi ridefinizione del Welfare, dal lato del finanziamento e dell’offerta di protezione sociale, non potrà, poi, prescindere dai più generali processi di innovazione tecnologica e sociale..." [3]

Negli ultimi decenni il cambiamento del panorama economico e politico europeo e mondiale, ha determinato sempre più l’esigenza di riformare e ridefinire il Welfare, per adattarlo alle nuove situazioni che si sono generate. Il Welfare in questo senso dovrebbe divenire tale da permettere la semplificazione della vita della famiglia, intesa non più in senso tradizionale, cioè salvaguardando il capofamiglia e i lavoratori dipendenti, ma più allargato, considerando dunque tutti i vari aspetti della società moderna e delle figure professionali e sociali che in essa si vanno affermando.

Questa situazione ha inciso profondamente sul cosiddetto sistema di Welfare State. Infatti “Disuguaglianza e rischi crescenti sembrano condurre alla conclusione che il «bisogno» di Welfare aumenta in un’epoca di globalizzazione... Si profila, quindi, la tesi secondo cui la globalizzazione esercita una duplice e contraddittoria pressione sul Welfare State: da un lato essa ne richiede l’espansione, dall’altro ne impone il ridimensionamento”. [4]

L’internazionalizzazione dell’economia, il superamento della cosiddetta era fordista e taylorista, il cambiamento del modello di sviluppo hanno portato alla nascita di nuovi bisogni che hanno acutizzato la crisi dello Stato sociale. Le difficoltà legate alla natura stessa del mantenimento dello Stato di benessere comportano la trasformazione del bisogno sociale da esperienza collettiva a esperienza individuale, con una capacità redistributiva favorevole soprattutto ai ceti medio-alti, che ha quindi provocato il prodursi di forme nuove di povertà.

Basta ricordare, ad esempio, che negli ultimi anni si sono avute forti ripercussioni negative nel mercato del lavoro: a partire dalla stagnazione e spesso diminuzione del salario dei lavoratori, alla crescita delle differenze di retribuzione tra lavoratori più o meno qualificati fino ad arrivare alla crescita impressionante della disoccupazione soprattutto dei lavoratori meno qualificati.

Alcuni elementi contribuiscono ad aumentare la crisi dello Stato sociale: ”Il progresso tecnologico in molti campi come quello sanitario, da un lato, ha favorito la riduzione dei costi, ma, dall’altro, ha dischiuso un ampio ventaglio di innovazioni particolarmente costose. Ne è derivata una domanda di nuovi beni e servizi con elevata elasticità rispetto al reddito... L’invecchiamento della popolazione ha accentuato la crescita della spesa sociale in campo sanitario e pensionistico... La crisi di alcune istituzioni sociali, come la famiglia, nell’ambito delle quali hanno luogo processi di fornitura di servizi (come la cura di bambini e di anziani) e di compensazione dei redditi, almeno in parte alternativi rispetto a quelli garantiti dallo stato sociale, ha implicato un accresciuto ricorso a quest’ultimo, con effetti simili a quelli derivanti dall’invecchiamento della popolazione” [5].

Va fortemente sottolineato che le esigenze che hanno fatto nascere il Welfare State (ossia combattere la povertà ed assicurare ad ogni persona attraverso la sicurezza sociale il trasferimento dei rischi dall’individuo alla collettività) sono a tutt’oggi ancora molto presenti soprattutto in una fase come quella attuale nella quale si accentuano sempre di più i disagi sociali e le differenziazioni tra le classi.

Ma l’attuale crisi del Welfare State è dovuta soprattutto al cambiamento del ruolo dello Stato, poiché l’eccezionale fase di trasformazione che sta vivendo l’economia da industriale a post-industriale richiede una più grande flessibilità del mercato del lavoro, rendendo inadeguata la forma-Stato legata al “ciclo vitale piatto e rigido fordista”.

È interessante evidenziare in che modo i vari sistemi di Welfare differiscono nei vari paesi dell’Unione Europea. Vi sono da fare subito quattro distinzioni [6]:

a) i modi delle le prestazioni;

b) le norme di eleggibilità o di accesso;

c) i modi di finanziamento;

d) gli apparati di gestione ed organizzazione.

Rispetto a questi elementi possono essere evidenziati accostamenti geopolitici e caratterizzazioni politico-economiche e sociali diverse.


I paesi anglosassoni (Irlanda e Regno Unito) costituiscono un primo raggruppamento; ad esempio solo la copertura sanitaria è a carattere universalistico mentre le prestazioni per i disoccupati non sono erogate se non a coloro che pagano i contributi ad una assicurazione (la National Insurance ad es.). I finanziamenti sono di tipo fiscale per quanto riguarda la sanità mentre le altre prestazioni (in denaro, tra le altre) sono quasi interamente finanziate con contributi sociali. In questo ambito di paesi l’apparato pubblico centrale gestisce quasi interamente l’organizzazione del Welfare mentre le parti sociali (sindacati, ecc.) non hanno un ruolo importante.

Il secondo gruppo è costituito dai paesi scandinavi nei quali vi è una copertura universale (infatti, ad esempio, in Finlandia e in Svezia l’assegno di malattia e maternità viene erogato anche a coloro che non lavorano), le prestazioni sociali costituiscono un diritto di cittadinanza e si esplicano in somme di denaro anche abbastanza elevate corrisposte automaticamente a chi ne necessita. Le persone occupate hanno, inoltre, delle prestazioni sociali integrative attraverso delle associazioni di categoria molto uniformi (in Svezia ne è presente uno solo). Le prestazioni sociali sono finanziate attraverso le tasse e sono le autorità pubbliche a gestirne lo svolgimento. L’unico settore lasciato alle organizzazioni sindacali e di tipo volontario è la l’assicurazione contro la disoccupazione.

La Francia, la Germania, l’Austria, la Svizzera e il Benelux costituiscono un terzo gruppo di paesi nei quali è ancora molto presente il collegamento tra prestazione sociale (garanzia sanitaria e del reddito) e lavoro. Vi sono, quindi, finanziamenti e prestazioni che risultano essere legati al reddito e si rapportano alle associazioni di categoria; i sindacati e le forze sociali influiscono e partecipano alla determinazioni delle coperture assicurative; infatti di solito, in sostanza, quando un lavoratore entra nel mercato del lavoro ha l’obbligo di aderire ad una assicurazione.

Va ricordato che l’Olanda la Svizzera hanno introdotto diversi schemi a caratteri più universalistico.

Vi è, infine, l’ultimo gruppo di paesi costituito da Spagna, Portogallo, Grecia e Italia che non pur non potendo essere accorpati completamente, perché hanno tipi diversi di Welfare, rientrano comunque in un sistema di Stato sociale a carattere corporativo-conservatore. Questi paesi, infatti, pur avendo alcune prestazioni in parte ancora abbastanza dignitose, non hanno un sufficiente sistema di protezioni minime di base, anche se hanno istituito (con differenti e spesso insufficienti risultati) dei servizi sanitari di tipo universale.

Si evidenzia, comunque, che "Il basso grado di «statualità» dei sistemi latini di Welfare è un tratto che isola decisamente questa famiglia di nazioni dalle altre presenti in Europa". [7]

Guardando più da vicino il nostro Paese, si nota che la crescita delle prestazioni era avvenuta in Italia attraverso una contrattazione politica e corporativa che ha visto confrontarsi, da un lato, le singole categorie preoccupate di migliorare la propria condizione senza riguardo per le altre, dall’altro i partiti politici intenzionati ad incrementare il proprio consenso sociale, dando luogo ad un sistema di assistenza di fatto corporativo e disegualitario. Lo Stato sociale in Italia ha, comunque, rappresentato un forte momento di regolazione e mediazione del conflitto capitale-lavoro, in un paese caratterizzato da una particolare forza del movimento operaio e sindacale.

Le trasformazioni economico-sociali hanno modificato oltre il concetto di povertà anche la fascia di popolazione interessata a tale fenomeno che, oramai, investe le realtà dei disoccupati, dei sottoccupati, dei precari, dei separati senza tutela, degli anziani, e dei minori in condizioni di marginalità. Ed è proprio in questa situazione che si sono venuti a creare dei meccanismi che, permettendo di mantenere la "socializzazione della distribuzione" ed in pratica "mercatizzano" la produzione. Si tratta di situazioni che sono da un lato "mercati" perché sostituiscono con una varietà di soggetti autonomi il monopolio degli erogatori pubblici e dall’altro sono "quasi mercati", perché sono diversi dai mercati tradizionali sia in quanto non hanno necessariamente il fine di rendere massimo il loro profitto, sia perché non sono necessariamente una proprietà privata (questo dal lato dell’offerta) ed, infine, anche poichè il potere di acquisto dei consumatori è centralizzato in "un’agenzia pubblica" e comunque non è espresso in termini monetari.

"I quasi-mercato hanno quindi la funzione di evitare soluzioni monopolistiche e, per quanto possibile, anche di monopolio bilaterale, riducendo l’accentramento sia della domanda che soprattutto dell’offerta, così da determinare l’emergere di un a pluralità di soggetti su entrambi i versanti, e lasciare che l’integrazione fra l’una e l’altra avvenga non per arbitrato burocratico ma attraverso meccanismi di mercato" [8]. Lo Stato potrebbe, così, divenire il regolatore della domanda e dell’offerta lasciando il suo monopolio; delle sperimentazioni in questo senso sono in corso nei settori della sanità e dei servizi sociali.

Si promuove, in tal modo, uno sviluppo del cosiddetto mercato sociale, accampando l’idea che solo così si potrebbero rendere più visibili le regole della solidarietà e dell’aiuto ai ceti più disagiati.

"Il mercato sociale trova un terreno fertile di crescita nel declino del Welfare State, un fenomeno macroscopico e veloce dovunque... I grandi sistemi istituzionali d’intervento sociale che si sono sviluppati nel suo alveo come dispositivi di base della cittadinanza - l’assistenza, la sanità, l’educazione, le garanzie del lavoro, la sicurezza sociale - sono oggi sottoposti dappertutto alla divaricazione tra crescenti vincoli di spesa e problemi sociali emergenti. Da un lato, essi sono oggetto di misure restrittive e tagli di spesa, considerati un costo non più sostenibile, uno spreco, un intralcio alla nuova crescita economica. Dall’altro, appaiono comunque inadeguati rispetto ai problemi sociali cui dovrebbero rispondere... Il trend demografico di invecchiamento della popolazione e soprattutto l’indebolimento drastico e veloce della condizione lavorativa creano profondi squilibri tra le generazioni e tra i lavoratori (e tra occupati e inoccupati) che indeboliscono non soltanto la base fiscale del Welfare State ma anche un suo fondamentale principio di qualificazione e legittimazione, le sue promesse universalistiche, rivelandovi anche risvolti selettivi e corporativi che penalizzano soprattutto i giovani, le donne e le persone senza una condizione lavorativa garantita". [9]

Sono ormai superati i due modelli di Welfare che si riferivano da un lato ad un criterio occupazionale- professionale classico in cui il lavoratore dipendente era il fruitore dei piani assistenziali (ad esempio le mutue o enti di assistenza di categoria) e dall’altro ad un criterio universalistico (che si riferiva all’intero corpo sociale).

Il nostro Paese che dagli anni seguenti al primo dopoguerra in poi si è basato su questi principi, si trova oggi in una situazione "mista", nella quale sono presenti fattori tipici del modello universalistico, fattori di tipo fiscale ed individuale e fattori tipici del modello professionale [10]. Ma va considerato che ormai anche in Italia il contesto economico, sociale e politico ha creato una situazione in cui interi settori sociali sono al di fuori dei tradizionali campi del Welfare (lavoro e sanità) in quanto fasce sempre più vaste di popolazione accusano un disagio sociale sempre crescente legato sia ai fattori della tossicodipendenza, dell’immigrazione, della precarietà, del lavoro atipico, flessibile, della disoccupazione strutturale, delle nuove povertà e marginalità che si aggiungono ai non risolti "vecchi" problemi legati alla sanità, alla previdenza e all’assistenza. C’è inoltre da evidenziare anche che fattori quali l’invecchiamento della popolazione, la diminuzione della natalità [11] hanno posto la necessità di più intense prestazioni nei settori pensionistici, sanitari e di servizio sociale. E, comunque, la ristrutturazione e riorganizzazione dello Stato sociale dovrebbe tener conto del fatto che oggi, oltre alle necessarie sicurezze relative alla salute, alla previdenza e all’assistenza, i cittadini necessitano di altre sicurezze, di natura spesso anche psicologica ed immateriale legate al bisogno di cultura, ad un diverso standard di qualità della vita, a nuovi e moderni diritti di cittadinanza.

Gli interventi risultano, quindi, essere insufficienti e inadeguati alla situazione attuale e risulta sempre più necessario porre rimedio alle "falle" di un sistema che, a fronte dei processi di ristrutturazione post-fordista non ha più bisogno del ruolo di mediazione dello Stato sociale.

Anche il diverso ruolo assegnato dal modificarsi delle relazioni economico-sociali alla famiglia influenza le prestazioni del Welfare.

"La famiglia europea è diventata un istituto assai meno stabile e protettivo che nel passato, come è attestato in quasi tutti i paesi dalla crescita di divorzi e separazioni, di famiglie monogenitoriali, di nuclei familiari con un solo componente (spesso molto anziano) e dalla preoccupante diffusione di fenomeni di isolamento ed emarginazione... La tendenza alla precarizzazione dei rapporti sociali non presenta una fisionomia uniforme in tutti i paesi europei: è decisamente più accentuata nell’Europa del Nord, mentre al Sud le reti familiari continuano per molti versi a svolgere le proprie tradizionali funzioni di ammortizzatori sociali... Lo Stato del benessere europeo deve oggi fare i conti non solo con una struttura demografica profondamente diversa rispetto al passato, ma anche con nuove e mobili configurazioni di rapporti familiari e più in genere sociali, non sempre capaci di autosufficienza e comunque esposte al rischio di cader vittima delle possibili «trappole» (della povertà, della dipendenza, dell’esclusione) spesso causate proprio dai vigenti istituti di protezione o tassazione, che sono stati congegnati avendo come punto di riferimento la famiglia nucleare di tipo tradizionale". [12]

È chiaro che la lotta alle forme di disagio sociale e alla povertà rientrano negli scopi di un Welfare equilibrato e giusto ma non possono essere i soli obiettivi da raggiungere in quanto "il ritorno alla combinazione ottocentesca di carità e assicurazione è contraddetto proprio dalla nuova articolazione delle società moderne, il cui governo richiede soluzioni complesse e dunque politiche pubbliche adeguate, ispirate ai principi di equità, solidarietà, eguaglianza". [13]

In questo contesto le funzioni dello Stato vanno risistemate, ridefinite ma non devono essere assolutamente eliminate e in questo senso non si può pensare di delegare a privati, o ad associazioni che si definiscono non interessate al profitto, la realizzazione di politiche che garantiscano le necessarie sicurezze ai cittadini.


"La maggiore responsabilità a cui i singoli e gruppi sono chiamati non solo convive con, ma richiede maggiori libertà e, dunque, un Welfare delle opportunità, ma anche un Welfare delle libertà... Libertà strumentali (quantità di libertà per fare ciò che si vuole), libertà come valore intrinseco, libertà come autonomia e integrità della persona, libertà politiche. Molto di più e di meglio della difesa liberale classica che ha sempre finito col concepire la libertà come mera libertà di scelta nel mercato". [14]

La globalizzazione con la conseguente competitività sempre più radicale delle imprese rende sempre meno favorevole il rapporto tra occupazione e concorrenza del mercato; diventa quindi necessario strutturare un "nuovo Welfare" che sia in grado di trovare la soluzione ai problemi che l’ormai tradizionale Stato sociale non è più in grado di risolvere.

La situazione odierna rende, quindi, sempre più necessario l’adattamento dello Stato del benessere alle nuove esigenze; si tratta di cambiare l’attuale sistema con un nuovo e moderno Welfare capace di redistribuire ricchezza facendo fronte ai nuovi diritti di cittadinanza e non impostando uno Stato sociale di tipo residuale che si interessa solo delle fasce più povere e che si fa carico delle prestazioni minime per i più bisognosi, quello che a suo tempo, appunto, abbiamo definito "Welfare dei miserabili".

 

1.2. Alcuni dati sul Welfare

 

L’analisi del PIL pro-capite nei primi anni ’90 evidenzia come l’area centro-europea sia quella più ricca ed omogenea (ci si riferisce a paesi come la Germania, l’Austria, l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo e la Francia); anche l’area scandinava (Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia) si pone al di sopra della media europea, pur con qualche eccezione (ad es. La Finlandia). I paesi dell’area anglosassone (Regno Unito e Irlanda), invece, si pongono leggermente al di sotto della media europea. Vi è poi l’area sud-europea (Spagna, Portogallo, Grecia) che presenta un livello di ricchezza pro-capite molto al di sotto della media europea (di ben 12 punti percentuali); l’unica eccezione è rappresentata dall’Italia che presenta un indice superiore a quello della media europea.

Se, invece, si prende in esame la spesa pubblica (i dati si riferiscono ad uno degli ultimi anni in cui sono disponibili a livello omogeneo europeo, cioè il 1995) si può rilevare che i paesi appartenenti all’area anglosassone (Regno Unito e Irlanda) presentano dei valori percentuali sul PIL inferiori alla media europea (che è del 48,5%) rispettivamente con il 41,2% e il 40,9%; i paesi appartenenti all’area scendinava invece (es. Svezia, Danimarca, Finlandia) presentano valori molto al di sopra della media europea (rispettivamente il 65,1%, il 58,2% e il 50,6%). Tra i paesi appartenenti all’area continentale e mediterranea, con l’eccezione della Germania e del Lussemburgo che sono al di sotto della media europea di circa un punto percentuale, gli altri paesi dell’Europa centrale (Austria, Francia, Belgio, ecc.) hanno uno scarto positivo di circa due punti percentuali. Infine, i paesi dell’area mediterranea presentano valori inferiori alla media europea di circa 2 punti percentuali (Portogallo e Spagna); l’Italia raggiunge invece quasi la media europea con un valore del 48,2%.

Se si analizza invece la quota di PIL che i paesi destinano alla protezione sociale (sempre riferendosi all’anno 1995) si vede ad esempio che l’Italia presenta un valore inferiore a quello della media europea del 3,5%. Infatti a fronte di un valore medio dei dodici paesi allora appartenenti all’UE, del 28,1%, l’Italia registrava un livello della spesa sociale nel suo complesso pari al 24,6%, e la situazione del 2001 non si è modificata molto in termini percentuali. Anche il Portogallo e la Spagna registravano valori al di sotto della media europea (rispettivamente con il 20,7% e il 21,9%). I paesi appartenenti, invece, all’area scandinava, anglosassone e continentale (con l’eccezione dell’Irlanda e del Lussemburgo) presentano valori superiori alla media europea.

Se consideriamo le voci principali del Welfare, ossia malattia, invalidità e infortuni, vecchiaia e superstiti, maternità e famiglia, collocamento e disoccupazione, alloggio e spese relative all’esclusione sociale, si evidenzia come queste prestazioni assorbano la quasi totalità delle spese sociali con valori che vanno da un minimo dell’88,9% in Portogallo fino al massimo del 97,2% in Danimarca.

Se si analizza, poi, la spesa sociale globale, si evince che per il Belgio si è verificata dal 1990 un’alternanza di incrementi e decrementi; per l’Italia il decremento è uniforme dal 1992 in poi; anche per la Finlandia si è verificata un’alternanza di incrementi e decrementi anche se gli scarti tra i dati sono minori rispetto a quelli del Belgio; per i restanti paesi si è verificata costantemente una tendenza alla restrizione delle spese sociali e all’abbattimento del Welfare anche tramite intense politiche di privatizzazione dei servizi di prestazione sociale.

Va ricordato che le prestazioni sociali sono i trasferimenti in denaro o in natura effettuati dai regimi di protezione sociale a favore delle famiglie e dei singoli individui e finalizzati a permettere loro di far fronte a determinati eventi o di soddisfare particolari bisogni (associati alla vecchiaia, alla malattia, alla maternità e alla famiglia, all’invalidità, alla disoccupazione ecc.). I dati, però, sono eterogenei a causa delle diverse disposizioni nazionali. Tra i paesi che, ad esempio per gli assegni familiari, più contribuiscono a tale prestazione sociale c’è il Belgio con 65 ecu mensili per un figlio, 190 per due figli e 380 per tre figli; il Lussemburgo con 80 ecu mensili per un figlio, 235 per due figli e 425 per tre figli; la Finlandia con 92 ecu mensili per un figlio, 205 per due figli e 340 per tre figli; invece tra i paesi che contribuiscono di meno troviamo il Portogallo con 15 ecu mensili per un figlio, 25 per due figli, 40 per tre figli; la Spagna con 20 ecu mensili per un figlio, 35 per due figli e 55 per tre figli; la Grecia con 7 ecu mensili per un figlio, 15 per due figli e 40 per tre figli; l’Italia si colloca nella fascia medio-bassa. Per quanto concerne l’indennità di maternità va rilevato che confrontando i dati si trova un certo equilibrio tra i vari paesi, fatta eccezione per la Svezia che congeda le donne dopo il parto per ben 64 settimane; mediamente (tenendo conto che il dato della Svezia è un dato anomalo) i periodi di congedo sono 6,33 settimane prima del parto e 19,73 settimane dopo il parto. Va anche considerata l’indennità fornita durante il congedo di maternità; a questo proposito i paesi che mantengono invariata l’indennità di maternità rispetto alla retribuzione sono la Germania, la Danimarca, la Spagna, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, l’Austria e il Portogallo; per l’Italia l’indennità è dell’80%, per il Belgio è dell’82%, per la Grecia è del 50%, per la Francia è dell’84%, per l’Irlanda è del 70%, per la Finlandia è del 65%, per la Svezia è dell’80% e per il Regno Unito è del 90%. Ed ancora, sempre in riferimento all’anno 1995, nei paesi presi in considerazione, si rileva che la funzione vecchiaia e superstiti è la prima componente per importanza (in Belgio rappresenta l’11,8% in percentuale del PIL, in Danimarca il 12,5%, in Italia il 15,4%, in Olanda l’11,2%, in Spagna il 13%, ecc.).

Va sottolineato che il capitolo pensioni risulta essere molto delicato e oggetto di particolare attenzione da parte dei diversi organismi finanziari internazionali (OCSE,FMI, ecc.), tant’è che ogni volta che si discute dei piani di sviluppo dell’economia dell’area dell’euro, si pone l’accento sui tagli pensionistici e sulla riforma strutturale della spesa pensionistica, con l’unico obiettivo di accelerare i processi di privatizzazione a partire dal consolidamento dei Fondi Pensione privati. Negli anni ’90 in tutti i paesi dell’Unione Europea è infatti in atto un forte e continuo ridimensionamento della spesa previdenziale pubblica (a tal proposito si confronti: R. Martufi, L.Vasapollo, “Le pensioni a fondo”, Mediaprint, Roma, 2000).

Tra le prestazioni sociali assume un ruolo fondamentale anche la spesa sanitaria, poiché considerando che la sanità è uno degli aspetti più importanti per valutare il grado di sviluppo di un paese si ricorda che è grazie all’analisi della spesa sanitaria pubblica che si riesce a capire quanto un paese rivolge la sua politica verso il sociale [15].

Ricordando che i dati si riferiscono sempre al 1995, si rileva che la Spagna, la Grecia, il Lussemburgo ed il Portogallo sono i paesi che hanno incrementato di più la spesa sanitaria totale pro capite (cioè la somma della spesa pubblica e privata) nei primi anni ’90; tuttavia la Grecia è ancora lontana dai livelli degli altri paesi. Oltre la Germania anche il nostro Paese, la Francia e i Paesi Bassi presentano dati elevati anche relativamente alla quota del PIL destinata alla spesa sanitaria totale. Ricordando che la media dei paesi europei è il 7,62%, i dati evidenziano che la Francia risulta essere il paese che destina la quota più elevata del PIL alla spesa sanitaria totale (9,6% nel 1996); l’Italia e la Germania presentano quote sensibilmente più basse (7,6% e 7,5% rispettivamente nel 1996) della Francia ed entrambi i paesi, dopo aver aumentato tali quote nella prima metà degli anni novanta (con punte dell’8,6% nel 1993 per l’Italia e del 9,3% nel 1992 per la Germania), hanno subito un calo negli anni successivi tagliando fortemente sulla spesa sanitaria pubblica. Dati inferiori alla media sono quelli della Grecia e della Danimarca (5,9% e 6,4% rispettivamente nel 1996); dati superiori alla media sono quelli dell’Austria e dei Paesi Bassi (8,2% nel 1996 per la prima, 8,8% nel 1995 per la seconda).

Infine, si ricorda, che le spese per la disoccupazione raggiungono il massimo valore in Danimarca (il 4,9% in percentuale del PIL) ed il valore minimo in Italia (lo 0,5%), dove analizzando l’andamento del rapporto spesa sociale / PIL si evidenzia che le risorse destinate alla collettività (sanitarie, previdenziali e assistenziali) si sono mantenute tra il 18% e il 25% rispetto alle risorse prodotte in Italia e si sono stabilizzate fortemente al ribasso a partire dal 1990.

Nel 1995 la media EUR 12 ed EUR15 della spesa per prestazioni sociali sul PIL è di poco superiore al 28%, con l’Italia al 24,6%, con percentuali molto basse di Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna e con percentuali superiori al 30% di Francia, Olanda, Finlandia, Danimarca, Svezia. Questa tendenza, anche se diversificata, alla contrazione della spesa per protezione sociale si accompagna in tutti i paesi dell’UE a dinamiche occupazionali sempre molto inferiori alle variazioni percentuali del PIL. Tali differenze fra variazioni percentuali medie del PIL e dell’occupazione già significative negli anni ’90, anche perché nel periodo ’91 / ’97 la variazione percentuale media dell’occupazione assume in molti paesi valori negativi (Belgio, Danimarca, Germania, Francia, Portogallo, e in maniera più accentuata Italia e Svezia). Nonostante ciò, ad esempio, nel decennio 1985-1995 i livelli di spesa per il mercato del lavoro in percentuale del totale delle prestazioni sociali sono fortemente diminuiti in molti paesi dell’Unione Europea, si pensi, ad esempio, alla Spagna che passa dal 19,1% del 1985 al 14,3% del 1995, al Regno Unito che passa dal 10,8% al 5,9%, all’Olanda dall’11,6% al 10,1% (tutti paesi dove le statistiche ufficiali segnalano aumenti occupazionali senza evidenziare la flessibilità e precarietà del lavoro e i tagli, appunto, alle prestazioni sociali per il lavoro); infine, in Italia il già bassissimo livello di spesa per il mercato del lavoro con il 3,4% del 1985, passa alla metà (1,7%) nel 1990, per attestarsi al 2,2% nel 1995.


Aumenti della disoccupazione, bassi, se non negativi, incrementi occupazionali (e dove sono stati positivi si tratta di occupazione ad alto livello di precarietà), continui tagli allo Stato sociale, incrementi salariali sempre più bassi del tasso di inflazione reale, aumenti dei ritmi e degli straordinari, tutto ciò necessariamente porta a continui aumenti dell’indice di povertà dei più importanti paesi europei. A ciò si aggiunga il forte differenziale fra costo del lavoro e variazioni della produttività, ancora più alto negli anni ’90 rispetto agli anni ’80, andamento che evidenzia che i forti incrementi di produttività sono stati assorbiti solo dal profitto e comunque dal fattore capitale, non realizzando alcuna forma redistributiva al fattore lavoro né in termini di salario diretto, né in salario indiretto e differito.

2. Terzo Settore e privatizzazioni negli Enti Pubblici Locali: altre modalità di attuazione della Grande Riforma della P.A.

 

La crisi dei sistemi di Welfare esistenti ha portato alla nascita di nuove e più profonde conflittualità tra il pubblico e il privato; questo fatto ha determinato la nascita del concetto in base al quale la carenza dello Stato nelle politiche sociali possa essere colmata attraverso le organizzazioni filantropiche. In questo senso sono nati dei modelli di sviluppo dell’intreccio tra pubblico e terzo settore che meritano di essere ricordati.

Si intende parlare del cosiddetto "terzo settore" ossia di quell’insieme d organizzazioni private non aventi scopo di lucro che erogano servizi utili alla collettività. In questo campo non vanno identificate solo le associazioni di volontariato ma ci si riferisce ad un vero e proprio ambito che produce sia beni sia servizi contraddistinto da una domanda e da un’offerta; va inoltre rilevato che il termine "terzo" sta a indicare il fatto che ci si riferisce ad una sfera distinta sia dallo Stato sia dal mercato.

In primo luogo vi è il modello di Contract Welfare secondo il quale lo Stato ha il compito di cercare di sviluppare e favorire la nascita dei settori privati in grado di fornire in maniera più efficiente i servizi diretti di Welfare; si tratta di una riorganizzazione pubblica del terzo settore.

Vi è poi il modello neocorporativo (attuato soprattutto in Italia e in Germania) secondo il quale "il coinvolgimento del terzo settore corrisponde allo sviluppo di pratiche concertative tra autorità pubbliche e grandi organizzazioni di interesse (tra cui anche organizzazioni non profit), attraverso cui vengono scambiate risorse finanziarie e consenso politico... il sostegno alle non profit avviene in assenza di una chiara regolamentazione... Il finanziamento pubblico assume una natura assistenziale, funzionale ad un utilizzo «deviato» e particolaristico delle organizzazioni non profit". [16]

Nel caso del modello di Welfare universalistico, essendo lo Stato il principale garante delle politiche sociali, il terzo settore ha il compito di integrare il ruolo tenuto dall’operatore pubblico che svolge anche la funzione di controllo sulle attività non profit.

Comunque, in sostanza, il ruolo del terzo settore è diverso a seconda delle impostazioni delle politiche pubbliche dei vari paesi e delle diverse relazioni tra settore privato e settore pubblico.

Si cerca anche in questo modo di riformare il mercato del lavoro in una impostazione che nella realtà dei fatti si traduce, in un modo o in un altro, in progetti conformi alle dinamiche dell’accumulazione flessibile del neo-liberismo post-fordista; si tratta cioè di inserire modelli di precarizzazione e di un lavoro sottopagato flessibile e a scarso contenuto di diritti, attraverso la cosiddetta economia dell’impresa sociale, o economia del no-profit. Ecco che il terzo settore, oltre a servire per privatizzare il Welfare diventa il modo per precarizzare e flessibilizzare sempre più il mercato del lavoro.

I presupposti per lo sviluppo di tale impostazione economica nascono, nelle intenzioni, dalla considerazione di uno stato diffuso di disagio sociale, da una disoccupazione che assume carattere strutturale, dall’incapacità dello Stato e dei privati di garantire una crescita sociale equilibrata della società. Tutto ciò ha portato alla nascita e allo sviluppo di un nuova tipologia di lavoro o meglio di fare impresa attraverso il cosiddetto terzo settore o settore no-profit, o le diverse forme di cooperazione ed imprenditorialità sociale.

Vanno ricordati a questo punto i principali modi utilizzati per sostenere le attività private di fornitori di servizi storicamente pubblici; stiamo parlando del meccanismo del conctracting- out, dei vouchers o dei sussidi.

Per quanto attiene al primo meccanismo si ricorda che con il contracting-out la parte pubblica non produce direttamente i beni e i servizi ma li affida a operatori privati attraverso delle selezioni; si tratta in sostanza di una delega al privato per la produzione di quei servizi che l’Amministrazione Pubblica non esercita più direttamente.

Per quanto attiene al meccanismo dei vouchers invece si ricorda che:

"Attraverso i vouchers l’operatore pubblico distribuisce potere d’acquisto, sotto forma di «buoni» per l’acquisto di beni o servizi, ai cittadini ritenuti idonei ad ottenere la prestazione del servizio o la fornitura del bene. Si tratta di « buoni» (di valore prestabilito) che il cittadino può spendere sul mercato per procurarsi beni o servizi a cui ha diritto... La caratteristica fondamentale del voucher è quella di affidare al cittadino la scelta del fornitore privato che maggiormente soddisfa le sue esigenze" [17].

Vi è infine il meccanismo del sussidio alle organizzazioni private che di loro volontà forniscono servizi ai cittadini; in questo caso l’Amministrazione Pubblica finanzia determinate organizzazioni che per le loro caratteristiche sono meritevoli di un aiuto finanziario.

Le organizzazioni non profit comunque si caratterizzano per il fatto di interessare soprattutto il settore dei servizi mentre sono quasi del tutto assenti nella produzione industriale o nella produzione agricola; inoltre la loro presenza è molto alta nei servizi alle persone e alle collettività mentre sono assenti nel campo dei servizi alle imprese.

Per analizzare più da vicino queste organizzazioni si ricorda che negli Stati Uniti vi sono oltre 1,7 milioni di organizzazioni no-profit che hanno come scopo principale l’offerta di servizi e che si mantengono attraverso donazioni e solo in minima parte con finanziamento pubblico.

In Germania il settore no-profit, molto legato alle organizzazioni ecclesiastiche, rappresentava già a inizio anni ’90 il 3,9% dell’occupazione totale del paese (le associazioni erano più di 350.000). Anche in Inghilterra questo settore è molto strutturato in quanto si hanno circa 350.000 organizzazioni di volontariato che presentano un fatturato pari a circa il 5% del PIL. In Francia il 4,5% dell’occupazione totale è rappresentato da lavoratori del terzo settore; in questo paese si riconosce uno stipendio a lavoratori disoccupati che si prestino a svolgere attività di volontariato e nella Pubblica Amministrazione.

Uno studio di alcuni ricercatori della John Hopkins University di Baltimora ha analizzato dodici paesi per determinare l’impatto economico del terzo settore sugli aggregati economici. Precisando che per questa ricerca con il termine non profit si identifica un’organizzazione che:

1. "sia formalmente costituita

2. privata

3. non distribuisca profitti

4. sia autogovernata

5. sia volontaria, cioè non presupponga alcun meccanismo di iscrizione obbligatoria". [18]

È stato appurato che in sette paesi, il Regno Unito, la Francia, gli USA, la Germania, l’Ungheria, l’Italia e il Giappone, nel 1990 il terzo settore utilizzava l’equivalente di quasi 12 milioni di occupati a tempo pieno; sempre nel 1990 il non profit è risultato essere il primo settore di nuova occupazione in Germania, Francia e USA.

Nel 1995 un altro studio della stessa Università rileva che questo settore occupava circa 19 milioni di persone (ossia quasi il 5% dell’occupazione totale non agricola dei 22 paesi considerati).

La tabella che segue mostra chiaramente come il settore non profit sia più esteso nei paesi a capitalismo avanzato che nei paesi in via di sviluppo, come ad es. quelli dell’America Latina.

È importante rilevare poi che gli USA, di solito ritenuto uno dei paesi in cui questo settore è maggiormente sviluppato, in realtà evidenzino percentuali più basse di molti paesi dell’Europa occidentale (Olanda, Irlanda, Belgio).

Altro dato interessante: in questo settore molto ampia è la presenza di volontari, ossia di persone che lavorano ma non percepiscono alcun reddito.

La Tabella 2 [19]invece analizza la concentrazione dell’occupazione nei settori più rappresentativi ed evidenzia per ogni paese quali sono i campi più diffusi: si vede allora che mentre in paesi quali l’Austria, la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna il primato va al settore dei servizi sociali, il primato della sanità va a paesi come il Giappone, gli Stati Uniti e l’Olanda e quello dell’educazione a Belgio, Irlanda e Gran Bretagna.

Nel nostro Paese il settore non profit ha i suoi primi sviluppi addirittura nel Medioevo con le grandi istituzioni caritatevoli, sanitarie ed educative nate in quel periodo; nella seconda metà dell’Ottocento poi, il movimento operaio e quello cattolico hanno sviluppato opere sociali di natura anche economica e finanziaria.

Una ricerca svolta dall’IRS (Istituto per la Ricerca Sociale di Milano) rileva che nel nostro Paese (nel 1991) le organizzazioni non profit offrivano l’1,8% degli occupati nazionali (va ricordato che a questo dato vanno aggiunti i volontari che non percepiscono retribuzione); ed ancora uno studio svolto dall’IREF (Istituto Ricerche Educative e Formative) rileva che sempre nel 1991 il terzo settore rappresentava circa il 5% dell’occupazione.

"Il terzo settore comprende organizzazioni rispondenti ai seguenti cinque requisiti: essere formalmente costituite, essere private, non distribuire profitti, essere auto-governate, implicare un certo grado di partecipazione volontaria. Il volontariato è certamente una componente importante del terzo settore, ma non l’unica. Si trovano fondazioni bancarie e di ricerca, cooperative sociali e associazioni culturali, comunità per il recupero dei tossicodipendenti e sindacati, associazioni imprenditoriali e ospedali gestiti da religiosi, club archeologici, organismi non governativi e centri di formazione professionale..." [20]

Ed ancora: nel 1993 vi erano 430.000 persone occupate in queste associazioni ed il numero arriva a 470.000 se si includono gli occupati nelle organizzazioni professionali, imprenditoriali e sindacali; vi sono poi da aggiungere circa 290.000 volontari e oltre 15.000 obiettori di coscienza.

I dati del rapporto IREF indicano che tra il 1983 e il 1994 si è avuta una crescita degli iscritti ad associazioni sociali (con una percentuale del 23,2% della popolazione tra i 18 e i 74 anni per circa 9,5 milioni di persone).

Un’indagine più recente dell’IREF (1998) ha rilevato come il settore non profit abbia impiegato circa 690.000 persone occupate in varie organizzazioni (180.000 in associazioni, 9.000 in organizzazioni di volontariato, 81.000 in cooperative sociali e 420.000 in altre organizzazioni non profit).

Va ricordato che le associazioni e le fondazioni (enti non commerciali) usufruiscono di un particolare trattamento fiscale agevolato.

Anche le associazioni di volontariato hanno dei benefici fiscali, qualsiasi sia la loro forma giuridica; secondo la legge del 1991 n. 266 l’attività di volontariato è quell’ "attività personale, spontanea, gratuita e senza fini di lucro, con fini di solidarietà".


Vi sono poi le cooperative sociali (legge 381/91) che hanno come scopo "il perseguimento di un fine che è esterno al gruppo sociale che le costituisce, ossia l’interesse sociale alla promozione umana ed alla integrazione sociale dei cittadini, diversamente dal perseguimento degli interessi dei soci della cooperativa" [21].

Normalmente i settori che interessano queste cooperative sono quelli socio-sanitari e quelli relativi all’inserimento nel mercato del lavoro di soggetti svantaggiati. In queste cooperative vi sono soci volontari (che prendono solo il rimborso spese), soci prestatori (retribuiti) e soci fruitori (i diretti beneficiari dell’azione della cooperativa. Anche queste cooperative godono di benefici fiscali.

Le organizzazioni non-profit hanno assunto un ruolo fondamentale anche nei paesi del Terzo Mondo; sono decine di migliaia le associazioni che si occupano di interventi nei paesi in via di sviluppo e riguardano i settori più disparati: dalla sanità, alla lotta alla fame, allo sviluppo rurale, alla assistenza e pianificazione familiare, alla promozione dello sviluppo economico.

Se si analizza più da vicino il settore non profit negli Stati Uniti va ricordato che in questo paese vi sono delle differenze tra gli enti che agiscono per fini caritatevoli o pubblici (public benefit corporations), enti che rappresentano gruppi o categorie (trade associations, fraternal orders, mutual benefit societes) ed infine enti che agiscono con scopi prettamente religiosi (religious corporations); di queste solo le prime e quelle religiose possono godere dei privilegi di esenzione fiscale.

Il grant system è il sistema di contribuzioni pubbliche al settore non profit; vi sono le agenzie (agencies) che sono intermediarie fra il pubblico e il privato e che presentano le "proposte pubbliche"; gli enti e le associazioni espongono le loro offerte che vengono analizzate da queste agenzie che decidono poi a chi dare le sovvenzioni.

Vi è poi il sistema del contracting out; in questo caso le agenzie ricorrono a istituzioni private per raggiungere un determinato obiettivo con maggiore facilità (ad esempio quando si tratta di trattamento di tossicodipendenze, di alcolisti, per l’assistenza alla terza età, ecc.)

Se ci si riferisce a dati del 1995 si rileva che le organizzazioni non profit occupavano quasi 19 milioni di persone (retribuiti) ai quali si aggiungono le quasi dieci milioni di persone che prestavano servizio come volontari. È interessante notare che i paesi sviluppati impiegano più persone nelle organizzazioni non profit (il valore è del 6,9% dell’occupazione totale) rispetto ai paesi in via di sviluppo I valori vanno dall’1,6% al 2,2%); il settore non profit inoltre sembra essere in grado di generare nuova occupazione ad un tasso decisamente superiore (4%) rispetto agli altri settori dell’economia (1%). [22]

Questi dati non devono però indurre a facili ottimismi in quanto è necessario ricordare che le organizzazioni del non profit sono concentrate solo sul settore dei servizi essendo del tutto assenti nella produzione di beni manifatturieri o nel settore agricolo; va inoltre rilevato che i servizi che queste associazioni offrono sono diretti alla persone o alle collettività ma mai alle imprese.

Le associazioni non profit infatti si concentrano soprattutto nella sanità, nella cultura o ricreazione e nell’educazione.

Queste associazioni sono finanziate prevalentemente da fonti pubbliche (39,3%) e private (48,2%) in quanto le donazioni sono molto esigue (12,5%)

La tabella seguente mostra come in paesi quali gli Stati Uniti, il Giappone e la Spagna queste organizzazioni abbiano forti entrate di fonte privata mentre per gli altri paesi europei di solito è la fonte pubblica ad essere prevalente. (Cfr. Tab.3 [23]).

Ed ancora è interessante vedere quali sono i settori nei quali il finanziamento pubblico ha più rilevanza (Cfr. Tab.4 [24])

I dati evidenziano che le donazioni influiscono poco sulle dotazioni economiche di queste imprese mentre un ruolo predominante è assunto dal pubblico seguito dalle entrate provenienti dai privati.

Solitamente lo Stato sostiene maggiormente le associazioni che operano nell’ambito della sanità, di servizi sociali e dell’educazione mentre i privati finanziano maggiormente le organizzazioni che agiscono nell’ambito dell’ambiente, della cultura e a livello locale.

Le donazioni invece sono soprattutto rivolte ad organizzazioni che agiscono nell’ambito di aiuti internazionali ed operano in ambito umanitario.

Ed ecco che si ritorna al sempre più attuale principio della sussidiarietà per il quale le fonti pubbliche con i loro finanziamenti devono far funzionare queste associazioni che hanno il compito di operare laddove lo Stato non riesce ad arrivare (non riesce o meglio si è deciso ormai il non intervento).

Di solito infatti, i fondi pubblici vengono utilizzati per sostenere la somministrazione di servizi sanitari, sociali ed spesso diventano così importanti da sostituire la presenza dello Stato in questi servizi.

Basti a questo proposito ricordare il caso ad esempio della sanità negli Stati Uniti, Paese in cui ogni forma di protezione sanitaria è affidata a organizzazioni ed assicurazioni private.

Occorre quindi stare molto attenti ai facili ottimismi che lo sviluppo del non profit potrebbe produrre e ricordare che l’affermazione della sussidiarietà porta con sé la sostituzione del privato al pubblico con i pericoli e i rischi che questo può comportare.

È per questo che lo Stato anche nel nostro Paese ricorre sempre più ai processi di privatizzazione delle imprese pubbliche o degli enti locali.

È importante infatti sottolineare che anche le imprese del terzo settore, o non profit come le si voglia chiamare, nonostante il favore con il quale vengono viste da molti, molto spesso non sono altro che imprese come le altre che producono utili e hanno come scopo quello di espandere il loro capitale e la loro presenza sul mercato; anche i servizi o i beni che queste imprese producono sono di solito soggetti alle normali regole di compravendita nel mercato.

Infatti "non sono rari i casi di imprese non profit che sono tali solo formalmente perché gli utili, pur dando luogo a dividendi, si traducono in vari tipi di guadagno per i dirigenti danno luogo comunque ad accumulazione di potere economico. Nel mondo non profit, anche in Italia, ci sono vere e proprie holding finanziarie. Per non parlare dei casi in cui la formula non profit è di fatto associata a regimi lavorativi e fiscali, sostanzialmente, se non formalmente, illegali e selvaggi: vi si annidano sacche di sfruttamento di lavoro sottopagato mascherato da volontariato". [25]

In Italia comunque si è in presenza di una sempre più estesa tendenza a riformare il sistema di Stato sociale seguendo il principio della sussidiarietà; questo comporta il fatto che in settori quali assistenza e sanità, lo sviluppo occupazionale del terzo settore tende a sostituire il pubblico con il privato. In sostanza quindi il tanto decantato aumento di occupazione che porterebbe il settore non profit rischia di diventare una semplice sostituzione tra lavoratori pubblici e lavoratori occupati.

Oltre a questo, visti i delicati settori che il non profit va a toccare (sanità, assistenza, cultura, educazione) lo sviluppo di imprese nel terzo settore implica la privatizzazione di ambiti da sempre appannaggio dello Stato e del pubblico in generale.

Va ricordato che l’obiettivo delle aziende pubbliche non va ricercato nella massimizzazione del profitto ma in una diversa serie di traguardi che devono essere raggiunti in nome dell’interesse della collettività. È chiaro che pur dovendo queste aziende raggiungere dei risultati di gestione positivi, è comunque necessario tenere in seria considerazione tutti i fattori collegati all’economia nazionale e all’interesse economico e sociale generale. In questo senso si può dire che un’impresa pubblica ha tra i suoi obiettivi principali il raggiungimento dell’efficienza allocativa, redistributiva e sociale che permettano di rendere massima la soddisfazione dei consumatori, di assicurare la maggiore trasparenza possibile e di correggere i fallimenti del mercato.

Va ora effettuato un attento esame delle privatizzazioni degli enti pubblici locali [26], fenomeno che nel nostro Paese sta ormai diventando sempre più attuale. La prima norma che ha regolato il passaggio della gestione dei servizi pubblici locali è sta la legge 142/90 che prevede, all’art. 22, 3° comma, lett. e, la possibilità di utilizzare la società per azioni a maggioranza pubblica del capitale.

Tra i motivi che vengono addotti per giustificare il passaggio dal pubblico al privato vi è in primo luogo l’idea che in questo modo sia possibile migliorare il servizio e sviluppare diverse e nuove capacità organizzative. In questo senso il progetto di privatizzazione può avvenire sia a livello generale dell’ente, sia a livello di una singola funzione e infine a livello di singolo servizio.

"Retrocede lo Stato amministratore dei servizi pubblici per via diretta o indiretta, cioè attraverso propri organismi strumentali. Avanza invece lo Stato regolatore. Questo è l’aspetto principale del processo di liberalizzazione dei servizi pubblici. Con tutti i problemi consequenziali che si pongono, naturalmente anche per i servizi pubblici locali, che assumono qui un rilievo particolare e forse una maggiore complessità [27]"


A questo proposito va ricordato che l’art.116 del decreto legislativo del 18 agosto 2000 riguardante il "Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali" testualmente recita:

1. Gli enti locali possono, per l’esercizio di servizi pubblici e per la realizzazione delle opere necessarie al corretto svolgimento del servizio, nonchè per la realizzazione di infrastrutture ed altre opere di interesse pubblico, che non rientrino, ai sensi della vigente legislazione statale e regionale, nelle competenze istituzionali di altri enti, costituire apposite società per azioni senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria anche in deroga a disposizioni di legge specifiche. Gli enti interessati provvedono alla scelta dei soci privati e all’eventuale collocazione dei titoli azionari sul mercato con procedure di evidenza pubblica. L’atto costitutivo delle società deve prevedere l’obbligo dell’ente pubblico di nominare uno o più amministratori e sindaci. Nel caso di servizi pubblici locali una quota delle azioni può essere destinata all’azionariato diffuso e resta comunque sul mercato. Ed ancora al capo 2. La costituzione di società miste con la partecipazione non maggioritaria degli enti locali è disciplinata da apposito regolamento adottato ai sensi dell’articolo 4, comma 1, del decreto-legge 31 gennaio 1995, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 marzo 1995, n. 95, e successive modifiche e integrazioni.

L’Articolo 120 invece è così strutturato:

1. Le città metropolitane e i comuni, anche con la partecipazione della provincia e della regione, possono costituire società per azioni per progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana, in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti. A tal fine le deliberazioni dovranno in ogni caso prevedere che gli azionisti privati delle società per azioni siano scelti tramite procedura di evidenza pubblica.

Se si esamina più da vicino la situazione dei servizi pubblici locali va ricordato che mentre fino a tutti gli anni 80 questi erano gestiti direttamente dagli Enti Locali, dal 1990 la situazione è mutata. I motivi che si adducono sono:

"- riduzione della spesa pubblica. Per effetto del processo di adesione all’unione Monetaria calano i trasferimenti e i contributi statali, con un significativo impatto sui bilanci degli Enti Locali;

- ristrutturazione del settore. Inizia un processo di riorganizzazione aziendale e di riposizionamento sul territorio...

- apertura al mercato e privatizzazione. Cresce la spinta alla liberalizzazione dei servizi pubblici - anche per l’impulso dell’Unione Europea e dell’Autorità Antitrust Nazionale -, si afferma il ricorso a formule gestionali «privatistiche», come la società per azioni, e inizia un processo di riallocazione proprietaria degli operatori." [28]

Si ricorda che i servizi di pubblica utilità (telefonia, trasporti, gas, elettricità, ecc.) sono sostanzialmente "servizi a rete" ossia il servizio che viene fornito agli utenti prevede in alcune sue fasi delle infrastrutture a rete; di solito i costi da sopportare nella gestione della rete sono quasi sempre inferiori se si tratta di una sola rete anziché di varie e frammentarie reti distribuite sul territorio; è per questo che negli anni precedenti questi servizi sono sempre stati caratterizzati da una gestione monopolistica con un unico operatore produttore solitamente pubblico.

Tra le più importanti privatizzazioni di enti locali attuate in Italia vi sono senza dubbio quelle relative alle gestioni delle acque, alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti e quelle relative alla distribuzione del gas naturale [29].

Per quanto riguarda il primo settore va ricordato che la riforma dei servizi idrici è iniziata con la legge del 1994 n.36 (legge Galli) anche se le Regioni non hanno attuato le norme di recepimento della legge e non hanno individuato i territori e le autorità necessarie ad applicare le norme; queste prevedevano il raggiungimento di economie di scala, una concentrazione dei gestori e l’indicazione di tariffe in grado di aumentare l’efficienza e incentivare la gestione dei servizi.

Il processo di attuazione della L. 36/94 (c.d. “Legge Galli”) solo recentemente, ha iniziato a realizzare qualche modifica nella struttura industriale del settore. Anche se sono trascorsi sei anni dall’approvazione delle Legge di riforma del settore, le innovazioni effettivamente introdotte sono ancora limitate e a livello organizzativo e gestionale, vi sono ancora le gestioni dirette dei comuni; fino ad ora un solo ambito territoriale ottimale ha iniziato il servizio idrico integrato e degli 89 Ambiti Territoriali Ottimali previsti ne sono stati insediati 40.

In sintesi i servizi idrici sono gestiti da più di 8.100 soggetti indipendenti, il maggior numero dei quali è concentrato nelle regioni del Nord (60% dei gestori), mentre nel Mezzogiorno e nel Centro si collocano rispettivamente il 29% e l’11%3. [30]

Le grandi città del Centro e del Nord che hanno operato una trasformazione delle aziende pubbliche in società per azioni sono ad esempio l’AMGA di Genova, l’ACEA di Roma.

In particolare si ricorda che l’ACEA, legata all’evoluzione sociale, urbanistica e politica di Roma si è occupata dal 1984 del teleriscaldamento e nel 1985 anche della gestione e depurazione delle acque; nel 1992 l’ACEA è divenuta azienda speciale (legge 142/90) e dal 1998 è stata trasformata in società per azioni.

Nel 1999 l’ACEA S.P.A. ha realizzato un riassetto del Gruppo societario; nella nuova configurazione di gruppo societario, l’ACEA S.P.A. è la società capogruppo e l’holding industriale. Questo ruolo fa sì che eserciti sul Gruppo l’indirizzo, il controllo e il coordinamento generale.

Le società operative ACEA DISTRIBUZIONE S.P.A. ed ACEA ATO 2 S.P.A esercitano la gestione diretta dei servizi di distribuzione di energia elettrica e del ciclo. [31]

Se si guardano i diversi paesi europei si ricorda che mentre in Francia è presente una sorta di integrazione verticale caratterizzata da un grado di concentrazione molto alto, in Inghilterra è la legge a definire le dimensioni delle utenze e in Germania invece sono presenti una varietà di soggetti che gestiscono il settore in una sorta di "catena del valore" del servizio.

Il settore dello smaltimento dei rifiuti, invece, rifacendosi a specifiche direttive dell’UE (91/156, recepita con l’ordinamento Ronchi del 1997), si basa su norme che prevedono lo smaltimento dei rifiuti in luoghi vicini al posto in cui si realizzano (in base al principio della prossimità), che i costi siano da addossare a coloro che producono i rifiuti (in base al principio che dice "chi inquina, paga"), ed infine a norme che decretano che ogni territorio deve essere autosufficiente ed avere una appropriata capacità di smaltimento (principio dell’autosufficienza). Di solito anche questo settore viene gestito da imprese pubbliche sia attraverso aziende municipalizzate sia attraverso gestioni dirette (la percentuale delle imprese pubbliche sfiora il 90%).

La stragrande maggioranza dei rifiuti urbani è depositato nelle discariche e solo una piccola parte viene raccolto in maniera differenziata. In base al citato Decreto Ronchi viene diminuito molto l’uso delle discariche e saranno gli Enti locali a dover provvedere alla raccolta differenziata dei rifiuti. Ad oggi mentre nella raccolta di solito sono le imprese pubbliche ad intervenire, per quanto riguarda lo smaltimento sono gli Enti Locali (i privati) a doverlo gestire. [32]

Il settore del gas naturale invece è stato sottoposto ultimamente ad un processo di liberalizzazione in nome di una ipotetica migliore efficienza. Va ricordato che, essendo questo un settore a larga espansione (si prevede che nel 2010 la domanda di gas naturale arrivi a 95 miliardi di mc a fronte di un valore del 1999 di 67 miliardi di mc), il nostro Paese è e sarà sempre più assoggettato alle importazioni che sono circa i 2/3 dei consumi nazionali. Il metano è usato ormai dall’80% della nostra popolazione ed è arrivato a coprire il 60% dei comuni.

Fino ad ora questo settore è stato caratterizzato da una grande concentrazione ed il servizio di distribuzione è di solito assegnato ai comuni che lo gestiscono direttamente oppure lo danno in concessione ad aziende private.

Il gruppo ENI che ha una posizione prevalente nel settore della distribuzione a monte (ossia riguardanti la produzione, il trasporto e l’importazione) in quanto copre delle fasce di mercato superiori al 90% sta procedendo alla dismissione delle quote; anche il gruppo Edison possiede una percentuale rilevante delle imprese operanti con una percentuale del 10%.

Per quanto riguarda invece la distribuzione locale del gas naturale si è in presenza di una situazione di prevalente frammentazione dell’offerta (ad esempio le aziende municipalizzate) ma dal 1994 si è avuta anche in questo campo una modifica delle imprese in società per azioni nelle quali è entrato prepotentemente il capitale di grandi multinazionali quali l’ENI, l’AEM ecc.

Una tra le aziende più importanti nel settore del gas per usi civili è senza dubbio l’Italgas che ha più di 6 milioni di utenti e oltre 10 miliardi di metri cubi di metano distribuiti in un anno.

"Le diciassette aziende del Gruppo sono infatti guidate dall’Italgas, una società per azioni a azionariato diffuso con oltre 76 mila azionisti tra cui Snam (ENI) con il 40,9% del capitale.

Oltre che nella distribuzione del gas naturale, il Gruppo Italgas opera nel settore idrico gestendo il servizio idropotabile in circa 300 Comuni italiani, per un totale di quasi 2,2 milioni di abitanti serviti.

Con la pubblicazione della Carta del Servizio Gas, la cui prima edizione risale al 1995, il Gruppo Italgas è stato uno dei primi operatori di livello nazionale in Italia ad aver reso noti i criteri e gli standard di qualità che caratterizzano il servizio di erogazione del gas naturale. Inoltre, nel dicembre 1996 la capogruppo Italgas S.p.A. ha ottenuto la Certificazione del Sistema di Assicurazione Qualità conforme alla normativa internazionale UNI EN ISO 9001". [33]

Il settore dell’energia è stato sottoposto, con il Decreto Bersani (inizio anno 2000), ad una liberalizzazione della domanda anche attraverso l’istituzione dei consorzi di acquisto riguardanti imprese di piccola o media dimensione; fino ad ora però gran parte dell’energia è ancora fornito dall’ENEL. Questo ha fatto sì che il Governo, nonostante il forte veto posto dai lavoratori, stia cercando di vendere in fretta le varie centrali ENEL ai privati in nome della sempre più decantata efficienza ed efficacia nel mercato.

Si ricorda che L’ENEL è stata istituita nel 1962 (L.6 Dicembre 1962, n. 1643) come ente pubblico, operante in regime di monopolio, per consentire di concludere il processo di elettrificazione dell’Italia garantendo al contempo una riduzione complessiva dei costi di produzione, di distribuzione e di commercializzazione.

Nel 1992 l’ENEL è stata trasformata in Società per Azioni con unico azionista il Ministero del Tesoro. La legge n.359 dell’agosto 1992 ha disposto la trasformazione dell’Enel in società per azioni ed ha conferito al Ministero del Tesoro l’incarico di elaborare un programma di riordino anche in merito al collocamento della proprietà azionaria sul mercato.


Perquanto concernel’operazionediprivatizzazionein senso stretto dell’ENEL, occorre subito chiarire che il settore elettrico è altamente strategico in tutte le strutture economiche e in particolare per il nostro Paese che è fortemente dipendente dall’estero per quanto attiene le materie prime e i prodotti energetici.

Comunque, a seguito della trasformazione societaria sono state istituite tre divisioni: Produzione, Trasmissione e Distribuzione (tali divisioni sono articolate in sei strutture di servizio tecnico-gestionali che si occupano di ingegneria e costruzioni, ricerca, servizi di telecomunicazioni, sistemi informatici, gestione impianti nucleari, immobiliare e servizi) [34].

Per adeguarsi al mutato scenario competitivo delineato dal decreto Bersani, nel Gruppo Enel nascono nuove società che hanno la missione di ottimizzare i servizi offerti e bilanciare la progressiva riduzione della presenza aziendale nel mercato elettrico con lo sviluppo di nuove opportunità in business contigui, valorizzando competenze, risorse e servizi in precedenza utilizzati solo a scopi interni.

Nell’area della generazione nasce Enel Produzione, cui si affianca Erga, per le attività nel settore delle fonti rinnovabili. Sono inoltre costituite Eurogen, Elettrogen e Interpower, che raggruppano impianti per una capacità produttiva netta di 15.000 MW da cedere sul mercato.

Nell’area della trasmissione nasce Terna, cui viene conferita la proprietà della rete: infrastruttura fondamentale per lo sviluppo del mercato elettrico che Terna dovrà gestire secondo criteri di eccellenza tecnica e in sintonia con il "Gestore della rete" (la nuova società controllata dal Ministero del Tesoro cui è attribuito in concessione il controllo delle attività di trasmissione e dispacciamento e la gestione unificata della rete di trasmissione nazionale).

Nel settore della distribuzione nasce Enel Distribuzione, che garantisce lo sviluppo e il miglioramento del servizio ai "clienti vincolati" (il cosiddetto "servizio universale", comprendente, tra l’altro, i circa 29 milioni di clienti domestici). Ad essa si affiancano Enel Trade per i clienti industriali che già operano in regime competitivo (i cosiddetti "clienti idonei") e Enel.si per i servizi post-contatore e altri servizi alla clientela diffusa. La gestione degli impianti di illuminazione pubblica (urbana e monumentale) viene affidata a So.l.e. Inoltre viene ultimato il decentramento delle responsabilità sul territorio per ciò che riguarda il rapporto con la clientela.

Nei nuovi business particolarmente significativo è il successo di Wind, che rappresenta la più evidente realizzazione della strategia di diversificazione aziendale.

Ma Wind non è che un esempio. Nel settore delle infrastrutture idriche, della distribuzione e trattamento delle acque ha iniziato ad operare Enel.Hydro; in quello dell’ingegneria e della grande impiantistica Enelpower, che opera con prevalente attenzione al mercato internazionale e nei Paesi in via di sviluppo. Elettroambiente è la nuova società dedicata al riciclo dei rifiuti con produzione di energia.

Nell’area del trading immobiliare e dei servizi alle aziende è nata Sei, cui si affiancano Dalmazia Trieste per la gestione immobiliare e Conphoebus per attività tecnologiche relative a immobili e al fotovoltaico applicato.

A Enel.it è affidato il settore informatico, cruciale per il lavoro quotidiano di reingegnerizzazione dei processi all’interno del Gruppo e delle singole società.

Per ottimizzare le attività di logistica e trading dei combustibili nasce Enel.FTL, mentre le competenze nei servizi specialistici e di ricerca per il settore elettrico sono affidate a CESI. Per la formazione del personale e lo sviluppo delle risorse aziendali nasce Sfera. Infine, con l’acquisizione della Colombo Gas, il Gruppo Enel entra anche nel mercato del gas.

Il complesso delle attività fa sì che il 1999 resti un anno memorabile nella storia dell’Enel, non solo per l’impegno nella liberalizzazione del mercato elettrico, ma anche per l’avvio del processo di privatizzazione aziendale: nel mese di novembre vengono collocate sul mercato 3,848 miliardi di azioni ordinarie, pari al 31,74% del capitale sociale, per un controvalore di 31.045 miliardi di lire. Si tratta della più grande offerta pubblica iniziale in Europa e la seconda mondiale sia per valore, sia per numero di sottoscrittori, con oltre 3,83 milioni di investitori privati e istituzionali coinvolti... Nei primi mesi del 2000 continua la riorganizzazione interna del Gruppo, con particolare riguardo alle iniziative nel campo dei servizi alle imprese e ai consumatori... L’accordo con Echelon Corporation dà vigore al progetto "contatori digitali", che permetterà ad Enel non solo di offrire ai propri clienti una misura accurata e puntuale dell’energia utilizzata, con profili tariffari personalizzati e opportunità di risparmio energetico, ma anche servizi a valore aggiunto per la gestione "intelligente" e a distanza della casa e dell’ufficio". [35]

Per quanto riguarda la produzione va ricordato che il decreto Bersani tende a liberalizzare la produzione e obbliga l’ENEL a diminuire la stessa sotto al 50% in luogo del 75% attuale entro il 31 dicembre 2002; per questo motivo l’ENEL ha istituito tre società che dovranno essere vendute entro il termine dato (2002). La distribuzione dell’energia rimane al momento affidata i monopoli naturali rappresentati dalle aziende municipalizzate e dall’ENEL; comunque a partire da metà del 2001 è atteso il rilascio della concessione unica per l’erogazione del servizio negli ambiti comunali; nel caso siano presenti due operatori ne sarà individuato uno soltanto (società mista ENEL/operatore locale, oppure solo operatore locale).; mentre per la trasmissione, pur restando la proprietà ai soggetti che la detengono tutt’ora, la gestione viene data a soggetti pubblici che le "terranno in caldo" per le nuove società che entreranno in gioco a seguito della liberalizzazione della produzione.

Nell’ambito della cosiddetta "privatizzazione selvaggia" che ormai contraddistingue il nostro Paese è interessante portare alcuni esempi che chiariscono meglio come e quali siano le conseguenze per i cittadini di questo processo di "liberalizzazione-modernizzazione" dei servizi pubblici.

È cosa di pochi giorni infatti la cessione di 84 farmacie comunali avvenuta nel comune di Milano alla multinazionale tedesca dei farmaci Hehe (con un fatturato di oltre 25.000 miliardi) che ha già al suo attivo le farmacie comunali di Mantova, Cremona, Bologna e sta gareggiando per Cesena. Ai primi di Aprile di questo anno infatti la giunta comunale di Milano ha approvato la cessione dell’80% della società per azioni che gestisce tutte le farmacie comunali presenti nel comune. La transazione è stata attuata con un prezzo di 205 miliardi e poco importa se circa 300 tra farmacisti e dipendenti sono a rischio licenziamento.

Va ricordato che in base a un principio che risale al 1800 è uso che la vendita dei farmaci debba essere effettuata non da società che li producono ma da soggetti terzi (i farmacisti appunto) in modo da garantire un minimo di corretezza. Questa correttezza non può essere esercitata se i produttori e i venditori di farmaci sono la stessa cosa (come è il caso della Gehe) in quanto le imprese sono invece interessate a vendere quanti più farmaci possibile a dispetto dell’adeguatezza al consumo dei farmaci. È quindi lampante che il processo di privatizzazione delle farmacie comunali affida anche i farmaci alle leggi del mercato senza alcun interesse per la salute dei cittadini. Ricordando che le farmacie comunali sono più di 1600 su un totale di 15.000 farmacie si comprende quanto sia vasto e "estremamente pericoloso" questo fenomeno. Tutto ciò avviene nonostante il fatto che, con eccezione dell’Inghilterra, in nessun paese europeo siano consentite le "catene" in quanto un conduttore può avere solo la sua farmacia.

3. E le condizioni di lavoro dei dipendenti pubblici?

 

Il decreto legislativo del 3 febbraio 1993, n. 29, che prevede l’introduzione dei sistemi informativi nelle Pubbliche Amministrazioni (PA) come mezzo necessario per aumentare l’efficienza, razionalizzare i costi e fornire servizi efficaci e le successive emanazioni delle varie leggi Bassanini (di cui si è discusso nel precedente numero di Proteo) hanno effettivamente provocato una rivoluzione nell’ambito delle condizioni dei lavoratori del pubblico impiego.

Innanzitutto vi è stato un radicale cambiamento dovuto al fatto che mentre il pubblico impiego in precedenza veniva trattato in modo diverso dal lavoro privato in quanto soggetto ad un regime autonomo, con le nuove disposizioni viene uniformato quasi del tutto al regime privato e viene pertanto sottoposto alle norme del Codice Civile, allo Statuto dei lavoratori in una sorta di vera e propria "privatizzazione del pubblico impiego".

Il principio della sussidiarietà è invocato a gran voce per consentire alle nuove "aziende" di raggiungere livelli ottimali di efficienza, economicità ed efficacia. (Su tutto ciò si veda la precedente puntata di questa analisi-inchiesta).


Infatti "Il passaggio di competenze verso regioni ed enti locali sta avvenendo con l’obbligo di liberalizzare e di privatizzare i servizi. Si tratta di un federalismo "orientato" che decentra competenze togliendo libertà di scelta agli enti locali e alle regioni e li trasforma in tanti protagonisti di un "liberismo dal basso". Quello che avviene non è il decentramento dello Stato ma una distruzione e privatizzazione dello Stato per via decentrata... Il taglio alle risorse disponibili sta spingendo gli amministratori locali... a mettere in pratica il principio anticostituzionale della sussidiarietà orizzontale. Si sta cioè affermando nei fatti il principio che lo Stato - l’ente locale, la regione - intervengono solo la dove non sia intervenuto il privato. Questa situazione di regionalizzazione spinta pone grandi problemi al mantenimento dei diritti sia per quanto riguarda l’utenza in generale che per quanto riguarda i lavoratori dei servizi in particolare. È infatti del tutto evidente che i diritti concretamente esigibili dalla cittadinanza non saranno più determinati dalle leggi nazionali ma dalle risorse concretamente stanziate dalla regioni, con il rischio di trovarci di fronte a 20 mini Welfare, con crescenti disparità di diritti". [36]

Sempre con riguardo alla situazione dei lavoratori pubblici va ricordato il decreto legislativo del 31 marzo 1998 n.80 recante "Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59" che all’art.1 testualmente cita:

All’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, la lettera c) è sostituita dalla seguente "c) realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle Pubbliche Amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato."

Le Amministrazioni Pubbliche quindi riorganizzano la struttura dei propri uffici seguendo principi di funzionalità, flessibilità e imparzialità; inoltre " I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del Codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto." Il rapporto di lavoro è quindi determinato dai contratti collettivi [37] così come avviene per i rapporti di lavoro privati ed è inserito il concetto della mobilità del personale.

Le assunzioni avvengono con contratti individuali di lavoro, attraverso l’avviamento degli iscritti alle liste di collocamento. [38]

Le leggi chiamate comunemente "Bassanini" hanno introdotto un ulteriore momento di discriminazione a beneficio (nelle spiegazioni del legislatore) del ruolo della contrattazione collettiva; vi è stata, infatti, l’introduzione dei limiti di rappresentatività delle organizzazioni sindacali che possono essere ammesse alle trattative (il fatidico 5%). Vi è, inoltre, l’introduzione del contratto integrativo ed anche la legge n.80 del 1998 istituisce anche per i lavoratori pubblici il lavoro flessibile con i contratti di formazione e lavoro, i contratti a termine, i contratti di fornitura e il lavoro a prestazioni temporanee.

In questo ultimo periodo si è avuto un attacco sferrato dalle imprese soprattutto ai contratti di "secondo livello o integrativi".

Si ricorda che tutte le categorie di lavoratori sottostanno nella loro contrattazione agli accordi di luglio 1993 (accordi tra i sindacati confederali, il governo e le organizzazioni delle imprese) per i quali vengono garantiti solo i livelli minimi dei salari in base anche alla revisione, ogni due anni, delle differenze che intervengono per l’inflazione. Questo ha portato evidentemente a una stabilità molto precaria dei salari, soprattutto per i lavoratori del pubblico impiego, nei quali "il recupero attraverso la contrattazione decentrata... è specificatamente limitato dalle disponibilità finanziarie definite centralmente, e l’attitudine "burocratica" è molto più presente, in particolare nelle controparti". [39]

Va evidenziato poi il nuovo ruolo assunto dai dirigenti pubblici che vengono retribuiti attraverso contrattazione individuale (il livello di retribuzione cambia a seconda della responsabilità e dell’incarico assunto).

Esaminando ora il trattamento economico dei pubblici dipendenti, si ricorda che da studi condotti "negli anni ’80 hanno osservato che in quegli anni la gran parte dei dipendenti pubblici percepiva le stesse retribuzioni: oltre il 60% dei dipendenti pubblici erano inquadrati tra il 3° e il 5° livello su otto o nove livelli previsti, dove le reali differenze salariali tra la retribuzione minima e quella massima è del 14%; nel settore sanitario il 55% dei dipendenti era concentrato su due livelli di inquadramento con un differenziale dl 9%; negli Enti Locali l’84% dei dipendenti era concentrato su quattro livelli con un differenziale del 16%. Le competenze accessorie o sistemi di retribuzione variabile costituiscono il 10% del trattamento economico nei Ministeri; l’8-10% nel settore sanitario; il 6% negli enti locali e l’1% nelle scuole... Nelle Amministrazioni locali, ad esempio, le differenze salariali erano dovute principalmente all’anzianità e agli straordinari più che al tipo e al risultato della prestazione”.

Arrivando invece all’anno 1999 sono molto interessanti le due tabelle seguenti che analizzano le retribuzioni lorde medie nel pubblico impiego; dai dati si segnala che l’aumento percentuale delle variazioni delle retribuzioni rispetto all’anno precedente è molto elevato per quanto riguarda i dirigenti (si arriva intorno al 15%) che comunque risultano essere quasi sempre il settore più pagato.

Se si prende in esame ad esempio il settore dei ministeri i dati sono ancora più eclatanti: da un articolo apparso su Liberazione del 10 aprile 2001 emerge come il divario tra i dirigenti e i semplici impiegati sia arrivato a livelli insostenibili:

"Nei ministeri gli ultimi aumenti medi ai dirigenti hanno portato cifre variabili tra i 17 e gli 82 milioni, mentre ai dipendenti un milione e mezzo... Si può fare addirittura una ideale classifica in cui il primo della lista si porta a casa, al netto del premio di risultato e della retribuzione individuale, qualcosa come 199 milioni mentre l’ultimo, il ministeriale di livello A1 la miseria di tredici milioni e mezzo. Naturalmente, ci sono due diverse modalità di "composizione" della busta paga. Nel primo caso si tratta di una vera e propria pattuizione tra il singolo dirigente di prima fascia e l’amministrazione, una sorta di stipendio "fai da te". Nel secondo caso basta un semplice rinnovo contrattuale che tenga conto della cosiddetta inflazione programmata, che non è mai uguale all’inflazione reale". [40]

 

Bibliografia ESSENZIALE

Armuzzi L., Contratti e democrazia, in Quale Stato, gennaio 2001

Barbetta G.P., Il settore non profit italiano, settembre 2000, il Mulino

Cavazzuti F., Privatizzazioni comunali, Impresa e Stato n. 42.

CNEL, Rapporto su: Statualità, mercato e socialità nel welfare, assemblea marzo 1996.

De Nardis S. (a cura di), Le privatizzazioni italiane, il Mulino, Bologna, 2000.

Ferrera M., Le trappole del Welfare, Il Mulino,1998

Ministero del Tesoro, Relazione sulle privatizzazioni, anni 1997, 1998, 1999 e 2000

Nivarra L., Le privatizzazioni tra riforma del mercato azionario e democrazia economica", in www.ansa.it

Ota de Leonardis, In un diverso Welfare, Feltrinelli, Milano, Marzo 1998.

Pennacchi L., Lo Stato sociale del futuro, Donzelli editore, Roma, 1997.

PROTEO, annate varie

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Ranci C, Vanoli A., Beni pubblici e virtù private, Fondazione Adriano Olivetti, 1994

Siniscalco D., Bortolotti B., Fantini M., Vitalini S.; Privatizzazioni difficili, Il Mulino, Bologna, 1999.

www.ansa.it

www.Italgas.it/homepage

www.acea.it/

www.enel.it/storia/


[1] N. Acocella (a cura di), “Globalizzazione e Stato...”, pag. 192.

[2] Crf. G. Berlinguer, "Albert Einstein e Gioacchino Belli", in Qualità, Equità, n.18/2000, pag. 8,9.

[3] Censis, Rapporto 1999, tratta da Internet.

[4] N. Acocella (a cura di), “Globalizzazione e Stato sociale”, il Mulino, Bologna, 1999, pag. 37,38.

[5] N. Acocella (a cura di), “Globalizzazione e stato...”, op. cit., pag. 171, 172.

[6] Sull’argomento si veda: M. Ferrera:, "Le trappole del welfare", Il Mulino, 1998.

[7] Cfr. M. Ferrera, "Le trappole del ..., op. cit., pag. 83.

[8] Cfr. CNEL, Rapporto su: "Statualità, mercato e socialità nel welfare", assemblea marzo 1996, pag. 9.

[9] Cfr. Ota de Leonardis, "In un diverso welfare", Feltrinelli, Milano, Marzo 1998, pag. 12, 13.

[10] Cfr. CNEL, Rapporto su: "Statualità, mercato...", op. cit.

[11] Si ricorda che mentre nel 1960 le persone di oltre 60 anni erano circa il 15,5% della popolazione europea, nel 1995 si era arrivati al 21% con circa il 3% di persone con più di ottanta anni.

[12] Cfr. M. Ferrera, "Le trappole del..., op. cit., pag. 15.

[13] L. Pennacchi, "Lo Stato sociale del futuro", Donzelli editore, Roma, 1997, pag. 6.

[14] L. Pennacchi, "Lo Stato sociale...", op. cit., pag. 145, 145.

[15] La spesa sanitaria totale comprende la spesa per l’assistenza sanitaria e le altre spese del settore (ad es., amministrazione e investimenti). La spesa sanitaria pubblica si riferisce all’assistenza prestata presso strutture di proprietà sia pubblica sia privata, finanziata dalle Amministrazioni centrali e locali, dagli enti preposti all’assistenza sanitaria e dagli istituti di assicurazione sociale.

[16] Cfr. C Ranci, A. Vanoli, "Beni pubblici e virtù private", Fondazione Adriano Olivetti, 1994, pag. 27.

[17] Cfr. G.P.Barbetta, "Il settore non profit italiano", il Mulino, 2000, pag. 50, 51.

[18] Cfr. G.P. Barbetta, "Il settore non...", op. cit., pag. 26.

[19] Cfr. G.P. Barbetta, "Il settore non...", op. cit., pag. 56.

[20] Cfr. CNEL, Rapporto su: Statualità, mercato..., op. cit., pag. 70.

[21] Cfr. CNEL, Rapporto su: Statualità, mercato..., op. cit., pag. 87.

[22] Cfr. Barbetta G.P., Il settore non profit italiano, settembre 2000, il Mulino.

[23] Cfr. Barbetta G.P., "Il settore non profit...", op. cit.

[24] Cfr. Barbetta G.P., "Il settore non profit...", op. cit., pag. 60.

[25] Cfr. Ota de Leonardis, "In un diverso...", op. cit. pag. 71.

[26] "Da un punto di vista storico si può dire che il termine "privatizzazione" esprime innanzitutto la tendenza alla riduzione del ruolo dello Stato e degli enti pubblici nell’ambito dell’economia. Le esperienze finora citate, invece, hanno costituito e ancora costituiscono un filone importante del regime di economia mista che ha caratterizzato il rapporto fra Stato e mercato nel nostro e in altri Paesi per una lunga fase storica, dalla cui uscita il termine "privatizzazione" è divenuto praticamente il sinonimo. Nel caso dei servizi pubblici, al contrario, il termine "privatizzazione" ha acquistato una particolare enfasi dal momento che essa si riferisce ad attività tradizionalmente rientranti nei compiti dell’ente pubblico locale sulla base di una consolidata tradizione anche politica: si ricordi infatti quel "socialismo municipale" che in epoca ormai lontana diede segno di sé alle prime municipalizzazioni dei servizi pubblici locali anche se non deve essere dimenticato che, in epoca successiva, l’utilizzazione della S.p.A. come metodo di gestione dei servizi pubblici locali venne espressamente prevista dal Testo unico sulla finanza locale del 1934", in F. Cavazzuti: Privatizzazioni comunali, Impresa e Stato n. 42.

[27] Cfr. Quadro Curzio A., Fortis M.," Le liberalizzazioni e le ...", pag. 104.

[28] Cfr. Quadro Curzio A., Fortis M.," Le liberalizzazioni e le privatizzazioni dei servizi pubblici locali", il Mulino, 2000, pag. 45.

[29] Per questo argomento si confronti: Quadro Curzio A., Fortis M.,"Le liberalizzazioni e le...", op. cit., pagg. 22-24.

[30] Fonte: Istat, 2000.

[31] Va ricordato che "In linea con il processo di liberalizzazione, il GRUPPO ACEA ha perseguito alleanze con altre ex aziende municipalizzate, al fine di raggiungere una necessaria massa critica, idonea a concorrere con altri operatori nel processo di acquisizione delle centrali ENEL, nell’ambito di una immissione nel mercato di una parte della capacità produttiva dell’operatore nazionale prevista dal Decreto Bersani. È nato così ITALPOWER, consorzio che vede la partecipazione di ACEA, AEM (MI), AEM (TO) ed ATEL, costituito appositamente per partecipare alla gara per l’acquisizione di una delle tre GENCO (società costituite da ENEL a seguito dell’obbligo di alienare 15.000 MW a favore del mercato e nelle quali sono state conferite le centrali oggetto di cessione).

Successivamente alla definizione da parte del Governo delle modalità di cessione delle centrali, nel novembre 2000, il Governo è ulteriormente intervenuto nel processo di cessione (avviato più di un anno prima) fissando con decreto un tetto del 30% alla partecipazione di “imprese pubbliche” ai soggetti ammessi alla partecipazione alla gara. Alla luce di tale decreto ed al fine di soddisfarne le condizioni poste, ITALPOWER sta predisponendo le opportune alleanze con partner privati.", Cfr. La relazione 2000 dell’ACEA S.p.A in www.acea.it/.

[32] Per questi argomenti si confronti: Quadro Curzio A., Fortis M., "Le liberalizzazioni e le...", op. cit.

[33] Cfr. www.Italgas.it/homepage.

[34] La divisione Produzione gestisce gli impianti di produzione ed energia elettrica presenti sul territorio per consentire il massimo decentramento possibile e la migliore vicinanza dell’azienda alla clientela. La divisione Trasmissione assicura l’efficienza del sistema e l’interconnessione con i paesi stranieri attraverso una razionalizzazione delle strutture operative e gestionali. La divisione Distribuzione gestisce le attività commerciali relative alla vendita di energia.

[35] Cfr. www.enel.it/storia

[36] Liberazione del 10 aprile 2001, pagg. 6/7.

[37] Infatti l’art. 6. recita:

1. L’articolo 10 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, è sostituito dal seguente: "Art. 10 (Partecipazione sindacale) - 1. I contratti collettivi nazionali disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti della partecipazione anche con riferimento agli atti interni di organizzazione aventi riflessi sul rapporto di lavoro."

[38] Titolo III - CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E RAPPRESENTATIVITÀ SINDACALE

Art. 45 - Contratti collettivi nazionali e integrativi

1. La contrattazione collettiva si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali.

2. abrogato

3. Mediante appositi accordi tra l’ARAN e le confederazioni rappresentative ai sensi dell’articolo 47 bis, comma 4, sono stabiliti i comparti della contrattazione collettiva nazionale riguardanti settori omogenei o affini. I dirigenti costituiscono un’area contrattuale autonoma relativamente a uno o più comparti. Resta fermo per l’area contrattuale della dirigenza del ruolo sanitario quanto previsto dall’articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modifiche. Agli accordi che definiscono i comparti o le aree contrattuali si applicano le procedure di cui all’articolo 46, comma 5. Per le figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi oppure tecnico scientifici e di ricerca, sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto.

4. La contrattazione collettiva disciplina, in coerenza con il settore privato, la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi, la struttura contrattuale e i rapporti tra i diversi livelli. Le pubbliche amministrazioni attivano autonomi livelli di contrattazione collettiva integrativa, nel rispetto dei vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. La contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono; essa può avere ambito territoriale e riguardare più amministrazioni. Le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate.

5. Le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi dalla data della sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti.

[39] Armuzzi L., "Contratti e democrazia" in Quale Stato, gennaio 2001, pag. 11.

[40] Liberazione del 10 aprile 2001 pag. 8-9.