Uno snodo

Giovanni Mazzetti

Ci sono due tendenze che hanno prevalso negli ultimi anni in quella che, un tempo, era la sinistra in Italia, da un lato, ci sono i disillusi, coloro che hanno cioè rinunciato alle loro conoscenze, aspettative, valori, analisi, ecc., appiattendosi sull’evoluzione in corso, concependola come una dinamica immanente. Dall’altro lato ci sono gli irriducibili, coloro che non sanno in alcun modo modificare le loro conoscenze, aspettative, valori, analisi, ecc., e si oppongono all’evoluzione in corso, considerandola come arbitraria. Personalmente non mi ritrovo in nessuna delle due.

Mi sembra che, da alcuni punti di vista, il testo collettaneo No/Made Italy, pur con i suoi pregevoli contributi conoscitivi, corra il rischio di scivolare nell’ambito del secondo approccio.

Per non essere frainteso, dico subito che trovo estremamente interessanti i primi due saggi, di Vasapollo e Martufi, sia per la ricca messe di dati sui cambiamenti intervenuti nella struttura produttiva italiana nell’arco degli ultimi quarant’anni, sia per l’organicità teorica con la quale vengono esposti. La loro indagine conferma in termini analitici il processo di crescente integrazione dell’economia italiana nel sistema degli scambi internazionali e le sue implicazioni. Un’evoluzione che, di per sé, non dovrebbe essere necessariamente considerata come negativa, appunto perché buona parte dello sviluppo continua ad essere mediato dai rapporti di scambio tra paesi. Gli autori sono molto attenti nel riferirsi a teorie generali della dinamica economica e sociale. Vale a dire che lo fanno con un approccio che non è mai unilaterale o aprioristico, e questo è per me un aspetto di grande pregio delle loro riflessioni.

Proprio perché condivido la maggior parte delle loro argomentazioni non mi soffermerò criticamente su quanto hanno scritto.

Mi sembra invece che le letture della dinamica sociale avanzate nelle successive parti del volume non siano altrettanto pienamente condivisibili, nonostante - sia ben chiaro - contengano numerosi passaggi sui quali concordo. Una disamina approfondita dei punti di convergenza richiederebbe un’analisi approfondita, che in questa sede non mi sembra opportuna, e che non mi è stata richiesta. Cercherò quindi di formulare brevemente le mie riserve, anticipando che esse si addensano attorno al quesito: “può lo Stato avere una sua ‘natura’? O la ‘natura’ dello Stato rinvia di volta in volta a quella delle soggettività che in esso si esprimono? A mio avviso non c’è differenza tra il sostenere che lo Stato è null’altro che uno strumento del capitale, ed il sostenere che sarebbe un’entità super partes. In entrambi i casi si incorre cioè nell’errore di non riconoscere che lo Stato raccoglie sempre, seppure in forme trasmutate, i caratteri della soggettività sociale egemonica nella fase sociale che è al centro dell’attenzione. Un approccio che non rinvia affatto ad un uso strumentale dello Stato, ma, al contrario, ipotizza che il prevalere di questa o di quella soggettività esprima la positiva capacità di questa o quella classe di dar corpo all’universalità prevalente.

Nel riflettere sull’interrogativo che ho sopra sollevato, prendo le mosse da un passaggio del contributo di Sergio Cararo che a me sembra centrale. Sostiene Cararo: “il New Deal americano, il fascismo europeo ed infine lo Stato sociale o Welfare State, sono state anche armi da combattimento con cui il capitalismo ha giocato a tutto campo contro la minaccia di un rovesciamento dei rapporti di forza con il movimento operaio” (pag. 131) Specificando, poco più avanti, che “il ruolo regolatore e di controllo dello Stato nel mercato è servito [1] soprattutto a depotenziare la spinta alla trasformazione radicale della società che veniva dal movimento operaio”. (pag. 132). In tal modo, lo Stato sociale e le sue conquiste vengono presentate come un qualcosa che promana solo dalla borghesia, in opposizione ad una capacità e ad un insieme di bisogni che avrebbero cercato di spingersi molto al di là dei rapporti che sono stati realizzati con lo Stato sociale; capacità e bisogni dei quali la classe operaia viene immaginata come - già all’epoca - portatrice. La situazione che si è venuta ad instaurare con la globalizzazione, consentirebbe però di “demistificare la concezione dello Stato come entità super partes”, perché rivelerebbe la “vera natura” del capitale. Il trucco sarebbe così stato svelato.

Sostengo, in radicale opposizione a questa tesi, che lo Stato sociale ha raccolto alcune delle istanze della classe operaia, dando ad esse una formulazione che nelle epoche precedenti quella classe non era stata in grado di conquistare. Vale a dire che lo Stato sociale - che a mio avviso si presenta dunque come una forma dello Stato [2] - ha espresso il massimo della potenzialità operaia, non una inibizione di questa potenzialità. Non c’è dubbio che, allo stesso tempo, esso ha raccolto anche alcune delle istanze della borghesia, come ad esempio, quella di un nuovo ampliamento dei mercati, con un recupero della possibilità di accumulare. Ma questo è uno dei paradossi di tutti i periodi di transizione, quando l’elaborazione di forze produttive nuove poggia su un’evoluzione che non può fare a meno della vecchia base. (Ciò che, a mio avviso, dimostra l’immaturità della classe operaia, e non un rapporto strumentale da parte della borghesia; con il corollario che “le capacità e i bisogni” dei lavoratori non trascendessero affatto la dinamica evolutiva in atto). La stessa tendenza a rappresentare lo Stato come super partes, ed in quanto tale come intrinsecamente depositario dell’universalità, rinvia infatti ai limiti propri dello sviluppo della classe operaia - che altrimenti avrebbe tranquillamente potuto accettare di definire la situazione come una (relativa e contraddittoria) “dittatura del proletariato” [3] - e non convalida uno dei luoghi comuni diffusi nella sinistra radicale, secondo il quale lo Stato è sempre uno strumento della borghesia.  [4] Vale a dire che, nello sviluppo degli ultimi cinquant’anni, non è ancora stata acquisita la chiara distinzione che Marx ha posto in essere tra un potere che, è “ancora costretto a conquistare la forma politica per rappresentare il suo interesse come l’universale”, cercando di esprimersi in una qualche forma di Stato, ed un potere che può cominciare a poggiare su una nuova base, conquistando la capacità di esprimersi al di là della forma Stato. (L’ideologia tedesca, pag. 32)

Intendiamoci, molte delle argomentazioni che Cararo svolge nelle pagine in questione, ciascuna presa in sé, sono senz’altro condivisibili. (Sono ad esempio molto calzanti gli argomenti svolti ai punti 4 e 5). Ma non ritengo accettabile il quadro teorico generale nell’ambito del quale vengono svolte.

Una conferma del sussistere di una possibile distanza tra il senso che si vuole dare alle ricerche incluse nel testo e la mia personale posizione la trovo nel commento conclusivo di Casadio.

Ritengo infatti che, nei paesi economicamente sviluppati, come il nostro, non ci sia spazio “per ridare peso e ruolo al lavoro e ai lavoratori [5]”. Il mio schema interpretativo è decisamente diverso. La crisi non sopravviene, negli anni ’70, perché il capitale reagisce (ad una momentanea egemonia dei lavoratori). Che questa reazione abbia luogo è del tutto ovvio e ragionevole, ma essa non è la causa del cambiamento, quanto piuttosto l’effetto. Vale a dire che essa sopraggiunge perché la strategia keynesiana del pieno impiego ha dato tutto quello che poteva dare, e cioè ha prodotto i suoi frutti [6]. Proletariato e capitale si trovano entrambi nei guai di fronte all’emergere di un problema ampiamente anticipato da Marx: la difficoltà, al sopravvenire di un sensibile aumento della capacità produttiva, di riprodurre su scala allargata il lavoro salariato. Se si ignora questa dinamica, i cui presupposti non posso ovviamente spiegare in queste brevi note, è del tutto ovvio che si finisca col credere che tutti i guai scaturiscano da una rinnovata soggettività positiva del capitale.  [7] Ma la mia convinzione è che in questi anni il capitale si sia comportato nel modo in cui si è sempre comportato, innovando, tagliando i costi e portando avanti - sulla sua stessa base - una battaglia ideologica tesa ad affermare la propria egemonia. Il guaio per noi è scaturito dal fatto che la maggior parte dei suoi antagonisti era rimasta ferma a quella “forma politica”, attraverso la quale era riuscita a conquistare un potere in grado di far uscire la società dal ristagno nel quale l’impotenza del capitale aveva finito col farla precipitare, nella fase tra le due guerre mondiali. Cioè nonostante volesse un superamento della crisi, non sapeva come realizzarlo, appunto perché rimuoveva i problemi relativi alla base economica sulla quale poggiava il potere acquisito.

Questo sapere non è tuttavia acquisibile ora, come sembra suggerire Casadio, mediante un opera di autonomizzazione. Al contrario, secondo me si deve partire dall’assunto di un’assenza di autonomia - riconoscendo che in fondo siamo tutti borghesi e cittadini - per elaborare le soluzioni a quei problemi che la forma data della vita ci ha trasmesso.

Qualche breve parola per sottolineare che le mie critiche non debbono essere fraintese. Stiamo discutendo tra persone che spingono per un cambiamento. Un bisogno che non può non essere confermato. Cosicché mi sento di dire che gli elementi che ci accomunano sono più di quelli che ci dividono. Ma, com’è noto, in “famiglia”, anche perché ci si parla di più, ci si critica di più che tra estranei. Forse se lì si sviluppasse la capacità di confrontarsi pienamente i cambiamenti sarebbero più facili. Da questo punto di vista mi sembra essenziale aggiungere una breve considerazione sul perché la crisi ha a che fare con la difficoltà di riprodurre il rapporto di lavoro salariato e di come questa difficoltà si intreccia con l’innegabile aumento della produttività intervenuto nel corso degli ultimi decenni.

Taluni svolgono teorie integralmente politicistiche della crisi in atto. Che ai loro occhi appare come una pseudo-crisi, cioè come una difficoltà generata ad arte, dal capitale, per rovesciarla sulle spalle altrui, in particolare sulla classe operaia. E dunque negano quello che, a mio avviso, costituisce il fondamento economico della fase che stiamo attraversando. Lo snodo attorno al quale ragionare è, secondo me, quello indicato da Marx nel secondo volume dei Grundrisse. Qui egli scrive “...il capitale riduce, senza alcuna intenzione, il lavoro umano (il dispendio di forza) ad un minimo. Ciò tornerà utile al lavoro emancipato ed è la condizione della sua emancipazione”. (Vol. II, pag. 396) Il lavoro salariato, ed alcuni suoi teorici, intrappolati nella dimensione della necessità della riproduzione di quel rapporto - in contrapposizione alla emancipazione da quello stato - si ribellano a questa prospettiva e pretendono di riuscire ad incarnare indefinitamente le condizioni dello sviluppo come crescita del lavoro salariato. Sperano di riuscire ad acquisire un “comando” sul procedere sociale, dalla propria condizione subordinata - un comportamento del quale la psicologia ci offre numerosi esempi - senza dover rovesciare lo stesso rapporto di dipendenza che lo contraddistingue.

Questa strada è però ovviamente preclusa, se, come sostiene Marx, sotto il dominio del capitale la produttività del lavoro aumenta in misura significativa. Infatti, ogni aumento della forza produttiva del lavoro comporta una svalorizzazione della forza-lavoro, e dunque si risolve in una perdita di potere contrattuale della classe operaia. Se la forza-lavoro pretende di riprodurre il lavoro, nonostante lo sviluppo renda via via superflua quella forza, è ovvio che tutte le lotte sono destinate a naufragare infelicemente. Per questo la questione del sussistere o meno di un aumento della produttività, nella fase attuale, è così importante.

Non potendo svolgere tutti i passaggi nella loro concatenazione, mi limito ad evidenziare l’errore che, a mio avviso, i miei avversari commettono. Il loro argomento appare relativamente semplice. Non c’è alcun aumento significativo della produttività, semmai è vero il contrario, e cioè che gli incrementi sono andati via via riducendosi, fino quasi a scomparire. Ma come misurano tale aumento? La produttività sarebbe a loro avviso coerentemente espressa da un rapporto tra il valore del prodotto venduto (PIL) e la forza-lavoro che lo ha prodotto. Ma questa misura risulterebbe valida solo se il valore del prodotto fosse immutabile. In questo caso la crescita del valore, misurerebbe direttamente la crescita del prodotto. Nei fatti le cose non stanno però in questi termini. L’aumento della produttività, dice Marx sin dalle primissime pagine del Capitale, abbatte il valore delle merci. Dunque un prodotto crescente può tranquillamente esprimersi, e normalmente si esprime, in un valore del prodotto decrescente. Dunque il rapporto PIL / forza-lavoro non misura affatto la produttività e le sue variazioni. Per quantificare le variazioni di produttività occorre entrare nei mutamenti del prodotto materiale. Da questo punto di vista se oggi un quarto dei lavoratori del settore delle telecomunicazioni, rispetto a quelli impiegati ancora negli anni ’70, ha prodotto in quindici anni connessioni mobili per un numero di utenti, pari ad una volta e mezza rispetto alle connessioni fisse create nei settant’anni precedenti, vuol dire che la produttività di quel lavoro è aumentata esponenzialmente, anche se magari essendosi abbattuto in termini reali il prezzo del servizio telefonico, ciò non si riflette nella misura che i miei colleghi propongono di adottare.


[1] È proprio in questo concetto che intravedo una teoria strumentale dello stato, che non sento di poter condividere.

[2] Che in altri scritti ho contrapposto, ad una forma “asociale”, ad una forma “borghese”, ecc.

[3] Chi ricorda oggi gli appelli di Guido Carli del 1975, in qualità di Presidente della Confindustria, che invitava gli imprenditori a riassumere il loro ruolo sociale e a smetterla di vergognarsi e di nascondersi.

[4] Alla quale talvolta si contrappone la tesi che lo Stato sarebbe uno strumento, punto e basta, utilizzabile, da questi o da quelli a piacimento - con un atto potestativo, che può andare anche al di là delle sue stesse capacità.

[5] Il concetto di “lavoratori” è ovviamente problematico. Si tratta di individui la cui determinazione sociale prevalente è quella di “lavorare”.

[6] Sia ben chiaro che in tal modo do una valutazione estremamente positiva dello Stato sociale.

[7] In questo dissento radicalmente dalle tesi proposte per il prossimo Congresso di Rifondazione Comunista, che parlano di una rivoluzione positiva del capitale.