RdB - CUB e i movimenti internazionali

Emidia Papi

La costruzione dell’Europa Unita, la nascita dell’Euro, il rafforzamento delle istituzioni comunitarie - che sempre più si sostituiscono alle istituzioni economiche, monetarie, politiche nazionali sottraendo loro poteri e competenze - la crescente mondializzazione dei mercati finanziari, che con i loro organi (FMI, Banca Mondiale, WTO, ecc.) questi sì globali, determinano la vita di intere nazioni, rendono sempre più necessario lo sviluppo e la costruzione di una rete di rapporti a livello europeo ed internazionale tra tutte le forze sindacali, antagoniste e di opposizione che non accettano i diktat imposti dal liberismo.

Non è una questione ideologica o di solidarietà internazionale; ormai di fronte all’espropriazione delle sedi di decisione, che diventano sempre più lontane, sempre più avulse da ogni rapporto “democratico”, svincolate da qualsiasi controllo politico o di mediazione del consenso, lo sviluppo della lotta contro i potenti che dominano il mondo necessita della più vasta mobilitazione ed unità dei lavoratori a livello internazionale.

In questo quadro da un anno a questa parte sia come CUB che come RdB, abbiamo sviluppato rapporti e partecipato a numerosi incontri ed avvenimenti internazionali.

Abbiamo già affrontato su un precedente numero di Proteo il senso della partecipazione nostra alle giornate di Genova dello scorso luglio; ora mi pare interessante fare un bilancio critico delle esperienze, che da allora abbiamo attraversato, e delle iniziative che abbiamo messo in campo dopo l’11 settembre anche in relazione all’esigenza di contrastare il ricorso alla guerra che si manifesta non solo come mezzo per imporre l’egemonia degli Stati Uniti e dell’imperialismo americano in questa o quell’area - magari rompendo le uova nel paniere a potenziali futuri concorrenti, come è stato per la guerra contro la Jugoslavia e la conseguente destabilizzazione dei Balcani in funzione antieuropea - ma come estrema risorsa per uscire da una crisi economica che ha radici strutturali profonde.

Non sarà un caso che dopo l’attacco alle Torri Gemelle e l’avvio conseguente della “guerra infinita”, alcuni indici economici siano ripartiti in America, grazie ad un rinnovato intervento dello Stato nell’economia, soprattutto nella produzione bellica, tali da far riconoscere a molti opinionisti nostrani da sempre favorevoli al libero mercato che hanno cominciato a riconoscere che la nuova guerra porterà più Stato e meno mercato.

Con la coscienza del fatto che la guerra possa diventare una realtà permanente, uno strumento per uno sviluppo che non ha in sé alcuna prospettiva sociale e civile per l’umanità, con l’inizio dell’intervento in Agfhanistan, abbiamo sentito la necessità di aprire nei posti di lavoro una campagna di solidarietà con la Palestina che non si esaurisse nella sottoscrizione a sostegno di alcuni progetti ma che avesse una funzione di chiarezza e di demistificazione sulle cause del conflitto e sui motivi reali che impediscono di giungere ad una soluzione negoziata, giusta ed accettabile per i palestinesi con la costituzione del loro Stato indipendente e l’attuazione delle innumerevoli risoluzioni dell’ONU che Israele, unico stato al mondo che può farlo impunemente, si ostina a disattendere.

2. RdB per la Palestina

Il nostro obiettivo, quando lo scorso Novembre costituimmo il Comitato Donne RdB per la Palestina, era anche di sviluppare un dibattito tra i lavoratori sui rischi che la crisi capitalistica assuma caratteri di irreversibilità i cui sintomi avvertiamo già da tempo: dalla crescente militarizzazione delle nostre società, allo svuotamento delle forme democratiche e di partecipazione, alla manipolazione dell’informazione, all’emarginazione di masse sempre più vaste a livello mondiale per le quali la competizione globale ha significato impoverimento estremo, distruzioni ambientali, epidemie, fame e morte.

Credo che questo obiettivo, pur con i limiti imposti dalle nostre forze, sia stato centrato abbastanza. Da molte parti d’Italia hanno risposto al nostro appello, raccogliendo fondi, organizzando assemblee interne ed esterne, promuovendo incontri e manifestazioni a livello locale.

La campagna di raccolta fondi si è sviluppata a sostegno del progetto degli asili nido di Ghassan Khanefani, costruito dall’Unione delle Donne Palestinesi, che è diventato un’istituzione in tutta la Palestina, con 87 asili tra Gaza e Cisgiordania. La grave crisi economica, conseguente agli accordi di Oslo e ai continui blocchi dei Territori Occupati ad opera di Israele, ha posto in seria difficoltà la possibilità di prosecuzione di un progetto, che oltre a formare il corpo insegnante, ha l’obiettivo di elevare il livello sociale, culturale, sanitario delle donne palestinesi, in un contesto laico.

Inoltre il Comitato Donne RdB per la Palestina, insieme ad altre realtà del sindacalismo di base, associazioni, ecc, ha partecipato fin dall’inizio, insieme ad un vasto arcipelago di organismi, alla preparazione della grande manifestazione nazionale del 9 Marzo a Roma, sotto lo slogan “Pace, Terra, Vita, Libertà per il Popolo Palestinese”, una manifestazione che forte di oltre centomila partecipanti, ha costituito la prima iniziativa autorganizzata di massa, quasi un momento liberatorio, visto che sulla Palestina da anni non si riusciva a mettere in piedi iniziative del genere, su parole d’ordine chiare, senza alcuna ambiguità né cedimenti a mistificanti equidistanze. Per mesi la preparazione di questa manifestazione aveva trovato reticenze, ostacoli, resistenze da parte delle forze della sinistra e dello stesso movimento dei Social Forum, in particolare a Roma. Ma migliaia e migliaia di lavoratori, studenti, donne, comitati, che non si approcciano più ai problemi secondo appartenenze predefinite a partiti, sindacati e quant’altro, hanno dimostrato che tra la gente c’è più maturità e coscienza dei fatti che tra il ceto politico.

Una nostra delegazione, inoltre ha partecipato insieme alle centinaia di “osservatori internazionali” alla spedizione pacifista che durante la settimana di Pasqua era presente in Palestina proprio mentre si scatenava l’ultima sanguinosa invasione israeliana dei Territori Occupati. Mentre assistevamo con orrore alla distruzione di ogni infrastruttura civile del futuro Stato palestinese e alla barbarie che il governo Sharon è stato capace di mettere in atto, con ancor più grande sgomento abbiamo assistito al dibattito che nelle settimane successive si è aperto nel nostro Paese e soprattutto tra la sinistra. Da una parte le fortissime pressioni delle lobbies filoisraeliane hanno tentato di trasformare qualsiasi critica all’operato del governo israeliano come un attacco all’esistenza stessa di Israele, rilanciando del tutto a sproposito accuse di antisemitismo, dall’altro è venuta alla luce tutta l’inadeguatezza di un’analisi che non riesce più a individuare le contraddizioni, i motivi profondi e strutturali, gli interessi che muovono le forze in campo, in una parola le categorie di interpretazione.

Oggi non è possibile parlare di una pace giusta in Medio Oriente senza mettere in discussione il modello colonialista israeliano, senza analizzare fino in fondo le relazioni economiche e strategiche tra Stati Uniti e Israele, senza evidenziare il ruolo dell’imperialismo e le contraddizioni provocate dal suo sviluppo.

E a chi parla di equidistanza di fronte al “conflitto mediorientale” vorremmo chiedere come si fa a rimanere inerti di fronte all’emergenza umanitaria, rappresentata dagli oltre tre milioni di profughi palestinesi, quando si è bombardata la Yugoslavia in nome di un’emergenza umanitaria in gran parte costruita ad arte? O davanti alla decisione del Ministro della Difesa d’Israele quando decide di recintare le città e i villaggi palestinesi con il filo spinato scavando fossi intorno ad essi e trasformandoli in prigioni a cielo aperto? E ancora come si fa a pretendere che l’Iraq accetti le ispezioni dell’ONU quando Israele ha rifiutato di far entrare una Commissione, che non era neppure ufficialmente d’indagine, addirittura pretendendo di sceglierne i componenti ? Che fine hanno fatto tutte le associazioni umanitarie, le ONG, che imperversavano sui nostri teleschermi all’epoca del Kossovo, perché ora non si recano a Jenin o nelle altre città palestinesi, martoriate e allo stremo?

Perché si accettano senza fiatare i bombardamenti ormai quotidiani sul territorio iraqeno, dichiarato noflight zone da USA e Gran Bretagna, e si accettano passivamente le minacce all’Iraq con l’alibi che possiede armi di distruzione di massa e si tace sul fatto che Israele possiede centinaia e centinaia di testate nucleari?

È evidente che qualcosa non funziona nella sinistra, sia in quella ufficiale che ha usato lo spauracchio dell’antisemitismo per rifugiarsi dietro la comoda posizione della condanna di ogni terrorismo per non rimettere in discussione anni e anni di politiche di cedimento al pensiero unico e al dominio unipolare sul mondo, esercitato dagli USA, sia all’interno del cosiddetto movimento dei movimenti che in alcune sue componenti fatica non poco a mettere a fuoco l’essenza vera di questi problemi.

Sembra quasi che dopo l’esperienza di Pasqua in Palestina si fatichi a ritrovare un filo che leghi la settimana della “diplomazia dal basso” ad un progetto di mobilitazioni che duri nel tempo. Per quanto ci riguarda pensiamo che la campagna di boicottaggio dell’economia e degli interessi finanziari israeliani che sta facendo i primi passi debba essere rafforzata e anzi estesa a livello internazionale, con il coinvolgimento di tutte le reti di informazione, di discussione e di contatto che in questi mesi si sono ritrovate a operare insieme.

La campagna di boicottaggio, oltre a diventare un ottimo strumento d’informazione a livello di massa, deve tendere a coinvolgere le istituzioni locali ed europee, con l’obiettivo di congelare sia i trattati e gli accordi bilaterali che i finanziamenti, sotto qualsiasi veste si presentino.

L’altro versante su cui, credo, bisognerà muoversi riguarda l’articolazione di progetti di solidarietà diretta ai campi profughi, sostenendo la ricostruzione delle strutture civili, scuole, ambulanze, ambulatori ma anche strutture di comunicazione che Sharon ha scientificamente distrutto.

3. Forum sociale mondiale

Le considerazioni che avevamo espresso, dopo Genova, in riferimento al movimento antiglobalizzazione, hanno trovato conferma rispetto a quanto abbiamo potuto vedere a Porto Alegre, in occasione del II Forum Sociale Mondiale.

Oltre 60.000 presenze, migliaia di associazioni di ogni tipo, organizzazioni sociali e popolari, intellettuali, centinaia e centinaia di dibattiti formali ed informali, hanno senz’altro permesso l’accendersi di una vasta rete di relazioni tra esperienze molto diverse tra loro.

Altrettanto chiaro, però, è apparso che a dirigere il tutto, dietro quinte neppure troppo oscure, è l’asse costituto dai francesi di Attac/le Monde Diplomatique/sinistra socialista francese e dai brasiliani del PT, il partito del socialista Lula, e dalla CUT, il sindacato molto legato al Partito del Lavoro e membro della CISL internazionale di cui fa parte anche l’AFL-CIO, conosciuto nel nostro Paese per aver pilotato nell’immediato dopo guerra la divisione del movimento sindacale e la nascita della CISL, e oggi molto attivo in Venezuela dove sta partecipando insieme all’Opus Dei e alla Confindustria locale al tentativo di destabilizzazione e di rovesciamento del legittimo governo Chavez, tentativo già fallito circa due mesi fa. Una situazione come si vede nient’affatto chiara, che cerca di avvicinare il movimento antiglobalizzazione all’Internazionale Socialista, magari tonificandola con queste nuove forze, ma che certo non potrà giovare alla lotta contro il liberismo.

La genericità delle parole d’ordine del movimento, delle sue piattaforme, -che possono andare bene sia a chi vuole lottare contro l’imperialismo e le sue istituzioni sia a chi pensa di risolvere i problemi con l’umanizzazione ed il governo della globalizzazione-, ha permesso finora di tenere insieme posizioni e forze assai diverse tra di loro.

L’organizzazione del Forum degli Amministratori Locali, tenutosi nell’immediata vigila del FSM, il Forum dei Parlamentari - che vedeva presenti anche deputati dei Democratici di Sinistra che hanno votato per l’intervento militare italiano nei Balcani (ricordiamo che una delle discriminanti fondamentali del movimento noglobal è l’opposizione tout court alla guerra) - la presenza di sette ministri francesi, il divieto di partecipazione per Fidel Castro, del venezuelano Chavez e di Herri Batasuna sono esempi di questa ambiguità che ci fa dire che a Porto Alegre c’erano più anime: una destra, un centro ed una sinistra. Ma il Forum Sociale Mondiale è stato anche un’enorme occasione di relazione e di dibattito per molte esperienze che compongono la vasta area di resistenza e di lotta al capitalismo e alla sua variante neoliberale. Un momento di crescita importante per la dimensione internazionale che il movimento, da Seattle in poi, ha assunto

Nel Forum dei Movimenti Sociali, si indicava come la sola alternativa possibile per un diverso mondo fosse il socialismo. L’analisi dell’imperialismo, della situazione oggettiva del conflitto di classe, evidentissime entrambe in paesi come l’Argentina, in tutta l’America Latina, in Asia, rendevano chiaro come l’obiettivo del socialismo non fosse affatto rimosso o abiurato come succede da noi.

Molto interessante è stato vedere come la realtà dei movimento sociali, di cui molto spesso sappiamo ben poco, da Via Campesina ai Sem Terra, dai Sem Techo, dalle organizzazioni delle donne ai movimenti per l’acqua, alle lotte per la casa, siano molto forti e molto orientati politicamente dalla sinistra.

Anche per quanto riguarda il campo sindacale abbiamo constatato una radicalizzazione non solo delle tematiche e delle lotte ma anche delle scelte organizzative. I sindacati latinoamericani, spesso nati da rotture con i sindacati tradizionali, estremamente corrotti e dominati da oligarchie filogovernative, esprimevano una fortissima opposizione sia alle privatizzazioni (molto avversate alla luce di quanto successo in Argentina seguendo le ricette del Fondo Monetario Internazionale) che all’ALCA, l’area di libero commercio delle Americhe voluta dagli Stati Uniti, e rimproveravano ai sindacati europei di non aver contrastato la costruzione dell’Europa Unita ma anzi di averla favorita con le politiche concertative e con il patto ed il dialogo sociale.

Al contempo suscitava molta attenzione la particolarità, tutta italiana, del sindacalismo di base, molto più di quanto succeda nel resto d’Europa.

In quei giorni in Brasile era in preparazione, sulla base di una piattaforma che richiamava molte delle nostre tematiche, lo sciopero generale proclamato dalla CUT e nel corso di una grande assemblea popolare convocata presso la stadio del Gigantinho, durante la quale hanno parlato tutti i dirigenti delle organizzazioni affiliate, un gruppo di sindacalisti ha distribuito una “lettera aperta ai militanti sindacali e ai partecipanti al FSM” in cui si mettevano in evidenza le contraddizioni e le ambiguità presenti nel Forum di Porto Alegre: la presenza di molte ONG promotrici attive del neoliberismo, che dispongono di cospicui finanziamenti provenienti dalla Banca Mondiale e da altre istituzioni finanziarie internazionali; l’inefficacia della Tobin Tax ed il ruolo di Attac che si propone di cambiare il mondo attraverso “un miglior controllo delle globalizzazione”. È possibile cambiare il mondo senza interrogarsi sulle fondamentali relazioni produttive, è possibile un altro mondo con una minima Tobin Tax che aiuta “a controllare la globalizzazione? Si domandano gli estensori della lettera; il concetto di società civile, diventato così popolare negli ultimi tempi, che cancella i confini tra le classi sociali e include nella stessa categoria, la società civile appunto, i padroni e i lavoratori, gli speculatori e chi soffre la fame, gli oppressori e gli oppressi. Il Comitato Organizzatore del Social Forum di Porto Alegre comprendeva l’Associazione Brasiliana dei Datori di Lavoro per i Cittadini insieme ad altri soggetti come il Movimento dei Sem Terra, MST, o la stessa CUT che sciopera per la difesa dei diritti contenuti nel Codice del Lavoro Brasiliano, che il Governo vuole modificare. Cosa ne pensano questi “padroni progressisti” di questi diritti? Cosa ne pensano le ONG che praticando il cosiddetto “volontariato”, lavoro precario e senza regole, stanno rimpiazzando nei fatti il ruolo del servizio pubblico secondo i dettami del Fondo Monetario Internazionale?

Come si vede una critica seria e pregnante che mette in luce anche l’esistenza di una dialettica molto aspro all’interno della CUT ma non diversissima dalla dialettica presente anche nel Social Forum Italiano dove le ambiguità rispetto alla presenza e al giudizio sulle organizzazioni sindacali tradizionali - dalla FIOM alla sinistra CGIL, che non hanno mai messo in discussione il ruolo dell’Europa Unita e dell’Euro o la politica delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni o l’attacco al diritto di sciopero, portati avanti dai Governi di Centro sinistra - o al ruolo del Terzo Settore e del no-profit, non sono mai state sciolte.

4. Rapporti Sindacali Internazionali

Un altro settore su cui stiamo concentrando la nostra attività viene dai rapporti con esperienze sindacali a livello sopratutto europeo.

L’esigenza di andare verso la costruzione di una rete di rapporti, che renda possibile momenti di coordinamento e iniziative concrete anche settoriali, è ormai comune a molti.

Innanzi tutto c’è da rilevare che l’esperienza del sindacalismo di base è una particolarità quasi del tutto sconosciuta fuori dal nostro Paese.

Non che negli altri paesi non esistano sindacati combattivi, al di fuori delle confederazioni tradizionali, concertative e subordinate, ma spesso si tratta di formazioni che hanno una tradizione storica derivante da scelte politiche: ad esempio tutte le organizzazioni legate alla tradizione anarchica oppure derivanti da lotte di liberazione nazionale, come i sindacati baschi, oppure a situazioni che, in seguito al dissolvimento della Federazione Sindacale Mondiale, si stanno ponendo il problema di costruire un ambito organizzativo in opposizione alle centrali sindacali ufficiali.

Spesso queste varie opzioni si muovono in contesti separati, non comunicanti tra di loro.

Un esempio: il 1º Giugno si terrà a Parigi un incontro internazionale promosso dal gruppo G10 Solidaires, sigla che comprende tutti i sindacati francesi denominati SUD, che significa Solidaires Unitaires Democratiques,con l’obiettivo di lavorare ad una rete sindacale europea per contrastare le politiche di privatizzazione dei servizi pubblici, di riduzioni degli spazi di democrazia, di cancellazione dei diritti. Sud non funziona come una confederazione, nasce dieci anni fa su basi essenzialmente professionali tanto che ancora oggi strutture sindacali diverse, che fanno comunque capo al G10 operano negli stessi ambiti lavorativi.

Nel corso degli anni alcune istanze più generali hanno permeato questa galassia permettendo a SUD Rail o a SUD Santè di caratterizzarsi in senso non corporativo.

Contemporaneamente ad Atene avrà luogo una Conferenza Sindacale Internazionale, con la partecipazione di oltre 300 delegati e rappresentanti di organizzazioni sindacali europei, che si pone il problema sia di lavorare alla costruzione di un movimento sindacale europeo antagonista che combatta la politica di compromesso e di subordinazione delle grandi organizzazioni sindacali ufficiali sia di ricostruire l’identità di classe dei lavoratori alla luce anche degli ultimi avvenimenti internazionali.

Gli obiettivi sembrerebbero comuni ma in realtà alcune differenze, anche vistose indicano che c’è ancora molto da lavorare e da chiarire prima di poter dire che si è vicini all’obiettivo.

Al primo appuntamento, quello di Parigi, ad esempio sono stati invitati la FIOM, la IG Metal tedesca, ed altri sindacati come la FGTB belga che sinceramente non vediamo come possano essere classificati d’opposizione o antagonisti; non basta certo la loro partecipazione al Social Forum per cancellare anni e anni di politiche dei redditi e di accordi sulla flessibilità / precarietà / licenziamenti o di supina accettazione dell’appoggio dato dalle loro confederazioni alla Guerra in Yugoslavia!

La Conferenza di Atene vede quale ispiratore principale il PAME, che in greco significa Avanti, ma anche, puntato, Fronte di tutti i lavoratori combattivi. È una struttura che nasce nel seno del sindacato unico ufficiale, che si è data propri ambiti organizzativi, proprie sedi di dibattito e di decisione,a cui hanno aderito interi sindacati di categoria, dagli insegnanti ai lavoratori elettrici, dagli edili ai marittimi.

A Genova, lo scorso luglio erano presenti con oltre 600 lavoratori e nei mesi scorsi sono stati protagonisti di scioperi generali e di lotte significative contro la distruzione dello Stato sociale in Grecia. Saranno presenti anche sindacalisti turchi, e la cosa è alquanto interessante visto le difficoltà che in Turchia esistono solo per esercitare anche i minimi diritti democratici!

Noi pensiamo che oggi ogni tentativo di ricostruire una rete sindacale europea conflittuale debba per prima cosa fare i conti con la realtà: siamo lontani da schemi ideologici unitari, abbiamo bisogno di rafforzare le ancor troppo deboli forze su obiettivi anche parziali, a partire dall’analisi dei processi di ristrutturazione che investono i servizi pubblici europei e dandoci scadenze anche minime ma che facciano risaltare questo sforzo unitario.

Il 20 Aprile scorso a Roma abbiamo promosso una riunione tra i lavoratori del Trasporto Aereo. In tutta Europa il settore è sottoposto a grosse ristrutturazioni e molte compagnie sono in crisi, denunciano migliaia di esuberi Alitalia, Britsh, fino ad arrivare al fallimento e alla scomparsa come nel caso della Sabena, compagnia di bandiera belga.

Nel corso della discussione è emerso con chiarezza come non sia stato l’11 settembre la causa di tutto ciò, ma la politica di concentrazione ad opera delle compagnie più grosse, AIR France e Lufthansa, che si considerano le due uniche compagnie continentali, relegando le altre sulle rotte regionali, attraverso il processo di spezzettamento che viene imposto dalla liberalizzazione voluta dall’Unione Europea.

All’incontro hanno partecipato lavoratori e delegati sindacali dell’IBERIA, dell’ex SABENA, dell’ALITALIA (CUB), di AIR FRANCE (SUD Aerien), dell’OLYMPIC (PAME), del LAB basco, della KLM.

Oltre allo scambio di esperienze e di analisi l’incontro ha ratificato l’esigenza di mettere in campo in un futuro non troppo lontano momenti di lotta comuni contro i progetti di smembramento e di licenziamento con un particolare occhio di riguardo alle direttive europee.

Crediamo che questo modo di lavorare, inclusivo come oggi è di moda dire, sia un modo di contribuire a superare pregiudizi e perplessità che troppe volte frenano percorsi che invece potrebbero avere grandi potenzialità.