La disoccupazione meridionale. Note per una ricerca

Luigi Cavallaro

1. “È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: - il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido deserto” [1].

Sulla stupefacente attualità di queste parole di Gramsci credo vi possano essere pochi dubbi; forse, l’unico aspetto di inattualità è da collegarsi alla stagnazione dell’“esplosione di grandi geni”, ma se accettiamo l’idea che si possa essere anche geni del male, credo che un Riina o un Brusca abbiano ben poco da invidiare a Pirandello o Sciascia.

Scherzi a parte, l’ideologia della ‘poltroneria’, mondata magari di quel tanto di ‘lombrosianismo’ che pure doveva influenzare le menti degli italiani del primo Novecento e riverniciata di un’aura di scientificità economica, costituisce la base della spiegazione della disoccupazione che è dovuta a Milton Friedman [2]: i disoccupati, secondo Friedman, non sono persone che non riescono a trovare un lavoro, piuttosto sono persone che preferiscono non lavorare, perché
 dato il basso livello di salario che potrebbero conseguire - ritengono più vantaggioso godere di tempo libero oggi e programmare di trovare un reddito da lavoro domani, quando eventualmente i salari saranno più alti. E la disoccupazione del Mezzogiorno d’Italia sembra offrire ai suoi seguaci, che qui non mancano, puntuali riscontri a questa tesi.

In effetti, dal punto di vista dell’andamento della disoccupazione, tutti i dati disponibili registrano la presenza di almeno ‘due Italie’: nel Centro-Nord, massimamente nella zona del Nord-Est del nostro Paese, i tassi di disoccupazione oscillano tra il 4% ed il 7%; nel Sud e nelle Isole balzano mediamente al 20%, con punte del 50% tra i giovani in cerca di prima occupazione. E si tratta di un fenomeno che riguarda un po’ tutti: donne e uomini, ex-operai di fabbrica, edili, braccianti agricoli, gente di mezza età, scolarizzati e senza titolo di studio, mentre nel Centro-Nord il problema tocca specialmente coloro che, espulsi dal ciclo produttivo a seguito di una certa ristrutturazione, non possiedono il corredo di qualificazione professionale necessario per essere nuovamente assunti nelle imprese attualmente in espansione. Non solo: ma, mentre nel Centro-Nord la dinamica della disoccupazione si mostra oscillante nel tempo, nel senso che il tasso medio cresce o decresce in relazione all’andamento del ciclo economico, nel Mezzogiorno la disoccupazione aumenta pressoché sistematicamente, in misura più pronunciata quando la situazione economica generale è negativa, ma senza mostrare significativi cali quando la situazione economica volge al bello.

Un andamento siffatto costituisce musica per le orecchie dei teorici monetaristi: quale migliore riprova della tesi per cui la disoccupazione dipenderebbe esclusivamente dalla cattiva volontà dei meridionali, riluttanti ad accettare salari inferiori o posti non prestigiosi, scarsamente disponibili alla mobilità territoriale - insomma, ‘poltroni’, nel senso pieno del termine?

In una tale temperie culturale, era quindi inevitabile che venisse rispolverato un arnese sociologico vecchio quanto insidioso, il “familismo amorale” che contraddistinguerebbe le popolazioni meridionali. Che cosa sia il familismo amorale è noto a tutti: si tratta di un concetto coniato da un antropologo americano, Edward Banfield, con il quale egli intendeva descrivere l’incapacità degli abitanti di un paese lucano, assunto a paradigma dell’intera popolazione meridionale, di agire insieme per il bene comune, o più in generale per qualsivoglia fine che trascendesse l’interesse materiale immediato del nucleo familiare (Banfield, infatti, distingueva tra atteggiamenti ‘morali’ all’interno del nucleo familiare e atteggiamenti ‘amorali’ al suo esterno). In senso ampio, l’espressione è passata a designare un rapporto specifico tra famiglia, società civile e Stato, in cui i valori e gli interessi della famiglia sono posti in opposizione rispetto agli altri momenti principali della convivenza umana, al punto che ad una unità familiare fortemente coesa si contrappongono una società civile assai debole e un atteggiamento nei confronti dello Stato caratterizzato da profonda sfiducia (Ginsborg 1994, p. 78). E proprio questo familismo sarebbe stato all’origine degli errati comportamenti della forza-lavoro, specialmente di quella giovanile: i giovani meridionali, infatti, avrebbero trovato proprio all’interno della famiglia il modo di soddisfare i propri bisogni (dal vitto, all’alloggio, allo studio, allo svago), senza dover ricorrere necessariamente al reddito da lavoro; sempre la famiglia, inoltre, avrebbe frenato il potenziale flusso migratorio da Sud verso Nord, congelando così l’offerta di lavoro nel Meridione e lasciando, al Nord, le imprese a secco di forza-lavoro [3].

La famiglia, insomma, sarebbe entrata in conflitto con la società civile, inibendo l’ottimale allocazione delle risorse produttive (anche la forza-lavoro è una risorsa produttiva), e con lo Stato, richiedendo cospicui flussi di spesa pubblica al solo fine di mantenere gli ‘oziosi’ [4].

2. Non è difficile, su un piano strettamente empirico, formulare delle obiezioni ad un siffatto modo di ragionare. Non è difficile, per esempio, rilevare che in Giappone il tasso di mobilità della manodopera è largamente inferiore a quello di tutti i Paesi dell’Ocse e, ciò nonostante, la disoccupazione è bassissima, mentre in Francia - con un tasso di mobilità triplicato - la disoccupazione è più che doppia rispetto a quella giapponese (Dal Bosco 1993, p. 40). Non è nemmeno più arduo verificare che i costi per mantenersi al Nord (vitto, alloggio) spesso travalicano gli stipendi ed i salari (eventualmente) offerti dalle imprese settentrionali e che la famiglia veneta, emiliana o lombarda, provvedendo quanto meno all’alloggio della propria prole occupata, le garantisce un vantaggio che l’emigrante non ha.

Ma l’obiezione più decisa va fatta sul piano analitico. Si tratta, infatti, di una spiegazione della disoccupazione che attribuisce rilievo esclusivamente al comportamento degli aspiranti lavoratori (dell’offerta di lavoro), trascurando del tutto di analizzare il lato della domanda di lavoro.

È vero, infatti, che in alcune regioni italiane la produzione e l’occupazione viaggiano (anche se forse sarebbe il caso di dire: viaggiavano) a gonfie vele, ma si tratta di qualcosa che non è minimamente paragonabile all’espansione che, negli anni Cinquanta, vide la nascita del ‘triangolo industriale’ (verso il quale - come vedremo meglio in seguito - nei trent’anni compresi tra il 1946 ed il 1976 partirono, alla ricerca di miglior fortuna, oltre quattro milioni di meridionali) [5]. Nel Centro-Nord è ormai tramontata la ‘grande fabbrica’ e le aziende si ristrutturano sulla scorta di un diverso modello organizzativo che possa adeguarsi alle mutate condizioni esterne di una economia internazionale in cui la competitività - per effetto dell’apertura delle frontiere - si è fatta totale. La sostituzione della tecnologia meccanica con quella informatica comporta una ulteriore diminuzione della forza-lavoro necessaria al processo produttivo e il mercato del lavoro si avvia verso una segmentazione di tipo ‘castale’, per cui, accanto ad una ristretta cerchia di occupati ‘stabili’, si allarga una consistente area di precariato, destinata a svolgere lavori occasionali in imprese minori, a condizioni salariali e contrattuali deteriori, o a fungere da manodopera di riserva nel caso di temporanei aumenti della produzione.

Presupposto di questa rivoluzione organizzativa, sulla cui portata ed i cui esiti il dibattito è tuttora in corso, è la contrazione della domanda di merci a livello mondiale, foriera dell’abbassamento dei rendimenti attesi dall’investimento produttivo: la cura dimagrante imposta all’intervento statale dai principî del monetarismo riduce, è vero, l’inflazione, ma rende l’investimento non più soggetto ad un ‘rischio’ razionalmente calcolabile, ma un affare ‘incerto’, ossia privo di elementi su cui poter fondare un qualsiasi calcolo revisionale; di conseguenza, mentre durante l’“Età dell’Oro” dei tre decenni seguiti alla seconda guerra mondiale le aspettative degli investitori erano modulate sull’andamento della spesa pubblica e la misura della sua crescita era l’indicatore chiave che garantiva alle imprese che la loro produzione aggiuntiva sarebbe stata venduta (Cavallaro 2001, p. 41), oggi i consistenti aumenti della produttività del lavoro connessi alla ristrutturazione organizzativa e all’innovazione tecnologica, piuttosto che tradursi in riproduzione allargata del capitale, pongono le premesse per la formazione di ingenti quantitativi di risparmio, che accrescono la stagnazione produttiva e certo non contribuiscono a ridurre significativamente la disoccupazione [6].

Né può dirsi che la responsabilità della cattiva performance della disoccupazione sia addebitabile alla scarsa flessibilità salariale. In generale, può osservarsi che, nonostante i salari dei paesi Ocse siano significativamente diminuiti nel ventennio 1969-1989, la disoccupazione, nel medesimo periodo, è aumentata (Dal Bosco 1993, p. 44). A ciò si aggiunga che in Italia sono state in vigore, per un lungo periodo, le famigerate ‘gabbie salariali’ e che, abolite queste ultime, si decise di fiscalizzare gli oneri sociali e di introdurre sgravi contributivi per le imprese che assumessero manodopera nel Mezzogiorno, trasferendo così a carico dello Stato tutta quella parte del costo del lavoro che dipende dai versamenti agli istituti previdenziali. Ora, a parte il rilievo per cui questa politica di favore per le imprese ha assorbito ingenti quote del cosiddetto intervento straordinario [7], la cui finalità si è surrettiziamente trasformata nel mantenere il costo del lavoro al Sud ad un livello inferiore rispetto al Nord, va sottolineato che il differenziale tra il costo del lavoro per unità di prodotto tra Nord e Sud è arrivato, nel 1991, fino al 22,6%: in altri termini, se l’assunzione di un operaio dei Nord costava - tra retribuzione e contributi - 100 lire, quella di un operaio meridionale ne costava poco più di 77. Se il Sud non è riuscito a sviluppare un apparato industriale ‘competitivo’ e a riassorbire l’ingente numero di disoccupati con un simile differenziale retributivo rispetto al Centro-Nord, vuol dire che insistere su questo punto è decisamente fuorviante.

3. Ciò nonostante, la Finanziaria 2002 palesa che la politica economica del governo in carica si muove lungo la falsariga di simili ed inefficaci ricette. Di più: tende ad accreditarle presso l’opinione pubblica presentandole come premessa per un nuovo “miracolo economico”.

A guardarle bene, in effetti, le misure varate dal governo Berlusconi ricordano in più d’un aspetto quel mix di interventi che, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, seguirono alla scelta di discostarsi (seppure parzialmente) [8] dalla politica protezionista del regime fascista e di aprire cautamente l’economia italiana agli scambi con l’estero: un programma che punta al controllo dell’inflazione, al ridimensionamento della spesa pubblica per il welfare (per tener fede al Patto di stabilità), alla riduzione della pressione fiscale, al contenimento del costo del lavoro e ad un programma di ‘grandi opere’ infrastrutturali per il Mezzogiorno (Ponte sullo Stretto in primis) affida in modo inequivocabile il rilancio della nostra economia alla ripresa della domanda estera (segnatamente quella statunitense), così come auspicato da Bankitalia nelle Considerazioni finali presentate un anno fa.-----

Molti dimenticano, però, che quel famoso ‘miracolo’ ebbe due facce: tra il 1955 ed il 1963, infatti, si verificò non soltanto il conseguimento di tre obiettivi tradizionalmente ritenuti incompatibili (aumento degli investimenti, stabilità monetaria ed equilibrio della bilancia dei pagamenti), ma anche un grave peggioramento della distribuzione del reddito, il boom delle emigrazioni, l’acuirsi del divario tra la struttura produttiva del Nord e quella del Mezzogiorno, la congestione delle grandi città e - in seno a queste - il consolidamento del potere mafioso.

Uno scherzo della storia? Non proprio. Come hanno spiegato molti economisti sulla scia di Augusto Graziani [9], era lo stesso meccanismo dello sviluppo fondato sul traino delle esportazioni a creare le premesse perché la crescita avvenisse in modo distorto. Per intercettare la domanda estera, infatti, le imprese italiane avevano bisogno di specializzarsi nelle produzioni a tecnologia avanzata, caratterizzate da un elevato grado di meccanizzazione, e ciò impedì loro di riassorbire l’elevata disoccupazione generata dalla contemporanea espulsione di forza-lavoro dall’agricoltura: basti pensare che, tra il 1958 ed il 1963, mentre 1.679.000 lavoratori venivano cacciati dalle campagne e il terziario stabilizzava la propria quota sul totale dell’occupazione, l’industria (edilizia compresa) riuscì a creare meno di un milione di posti di lavoro, nonostante le esportazioni crescessero ad un tasso medio di poco inferiore al 18% e gli investimenti registrassero la crescita più elevata dal dopoguerra (+12% all’anno). Ne venne una stagnazione dei salari a tutto vantaggio dei profitti e la quota dei redditi da lavoro sul valore aggiunto dell’industria manifatturiera scese, tra il 1951 e il 1963, di quasi dieci punti percentuali, attestandosi a poco più del 60%.

Al Sud, intanto, l’intervento pubblico, centrato essenzialmente (almeno fino al 1957) sulle grandi opere infrastrutturali, contribuiva assai poco a creare occasioni di lavoro stabile per una manodopera che sempre più raramente riusciva a trovare di che vivere nelle campagne (solo in Sicilia gli occupati in agricoltura scesero dai 760.000 del 1951 ai 610.000 del 1961). La conseguenza - lo si ricordava poc’anzi - fu un massiccio flusso di migrazioni interne e verso l’estero: tra il 1958 ed 1963 i trasferimenti di residenza dal Mezzogiorno (in particolare Campania, Puglia e Sicilia) verso il ‘triangolo industriale’ del Centro-Nord furono circa 900.000, con una punta massima di 240.000 nel 1961. Logica conseguenza fu un inurbamento selvaggio, che interessò non soltanto le città del Centro-Nord, ma anche quelle meridionali, dove le più ignobili speculazioni edilizie, insieme alla manna degli appalti pubblici, costituirono nuove occasioni di ricchezza per la mafia, piazzatasi nel frattempo a ‘proteggere’ gli snodi di diffusione del potere e del denaro pubblico.

Si può obiettare che le condizioni del nostro Paese non sono più quelle del dopoguerra e che, di conseguenza, non è affatto detto che non si possano realizzare gli aspetti positivi del ‘miracolo’, evitando quelli negativi. Ma si può contro-obiettare che ci sono numerosi fatti che inducono a pensare il contrario. In primo luogo, la posizione della nostra economia in seno alla divisione internazionale del lavoro è segnata dalla specializzazione in settori relativamente tradizionali (tessile, abbigliamento, cuoio, calzature, automobili, prodotti alimentari) e ciò la rende particolarmente esposta alla concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione, che possono contare sul vantaggio competitivo di costi inferiori dovuti a salari irrisori; il mantenimento delle quote di domanda postula, di conseguenza, un rigoroso controllo del costo del lavoro (di qui l’appello ossessivo alla ‘flessibilità’) e l’approfondimento dei processi di decentramento produttivo avviati a partire dagli anni Ottanta. Sembra illusorio, perciò, sperare in tassi di crescita del prodotto che possano assicurare il riassorbimento di una disoccupazione che, specie al Sud, attinge livelli veramente patologici, a meno che non si estendano ulteriormente le forme di impiego precario, discontinuo e scarsamente remunerato.

In secondo luogo, la difficoltà di trovare un’occupazione a decenti livelli di reddito rappresenta la causa prima della ripresa di un consistente flusso migratorio (221.000 trasferiti dal Sud al Centro-Nord negli ultimi tre anni, 72.000 solo l’anno scorso), che - qui c’è senz’altro una differenza rispetto agli anni Cinquanta - coinvolge soprattutto i giovani di ceto culturale e sociale medio-alto. E contraendosi ulteriormente la spesa socio-assistenziale, che nel Mezzogiorno funge assai spesso da paracadute contro la povertà (basti pensare all’enorme contenzioso sulle invalidità civili), è ragionevole prevedere che la gran massa dei disoccupati siciliani e meridionali in genere finirà con l’affollarsi intorno ai cantieri per la realizzazione delle ‘grandi opere’ promesse dal governo, spopolando ulteriormente i centri dell’interno.

È proprio qui, peraltro, che un ruolo rilevante può giocare la mafia. Dovrebbe essere ormai chiaro che la strategia di ‘inabissamento’ posta in essere all’indomani delle stragi del 1992-93 non ha nulla a che fare con la fine della sua capacità di condizionare la società meridionale e quella siciliana in particolare: caso mai, è vero il contrario, visto che le azioni più eclatanti - dalla strage di Portella della Ginestra a quelle di Capaci e via D’Amelio - sono coincise con la messa in discussione degli assetti di potere che l’avevano vista indiscussa protagonista. C’è molto da fare, invece, nello scenario che si va ad aprire: c’è da ripartire in una miriade di subappalti l’imponente flusso di denaro pubblico che servirà a realizzare le suddette grandi opere; c’è da ‘rimodulare’ piani regolatori, piani territoriali, piani paesistici e quant’altro (la sanatoria discutibilmente passata nell’art. 71 della Finanziaria e quella proposta nella legge regionale siciliana di riordino delle coste lo testimoniano oltre ogni dubbio); c’è da regolare l’afflusso di manodopera scarsamente qualificata nei cantieri, evitandone la sindacalizzazione e assicurando che si accontenti di bassi salari e condizioni contrattuali deteriori rispetto a quelle dei contratti collettivi nazionali; soprattutto, c’è da organizzare un consenso politicamente duraturo, che possa far digerire anche quelle ‘misure coraggiose’ (cioè impopolari) invocate da Confindustria e che si sono constatate nelle deleghe richieste dal governo in materia di licenziamenti e previdenza sociale, all’origine dello scontro sociale in atto.

Si potrebbe dire che una simile ‘agenda’, per quanto approssimata per difetto, servirà a misurare la qualità della nostra borghesia: per capire, cioè, se essa continuerà a ricercare attivamente la ‘protezione’ mafiosa, come ha fatto negli anni d’oro del sacco di Palermo, o sarà finalmente capace di affrancarsene (e in quest’ottica, bisogna pur dirlo, provvedimenti legislativi come quelli concernenti il falso in bilancio, le rogatorie internazionali, il rientro dei capitali illegalmente esportati, specie se uniti a certe affermazioni sulla presunta necessità di dover “convivere” con la mafia o al sistematico attacco condotto nei confronti della magistratura, non lasciano certo ben sperare). Quel che è certo è che servirà poco o nulla al Mezzogiorno, rischiando anzi di aggravarne ulteriormente i non pochi mali.

4. Quanto fin qui argomentato potrebbe indurre il lettore a ritenere che chi scrive concordi con quanti ritengono che, “nelle condizioni attuali, nelle quali (diversamente da quanto accadeva al tempo di Keynes) normalmente un’estesa disoccupazione non si associa ad un’ampia capacità inutilizzata, il problema non è quello di riattivare una domanda aggregata caduta da alti livelli precedenti, ma è invece quello di allargare la capacità produttiva, non solo e non tanto attraverso l’espansione delle imprese esistenti, quanto attraverso la creazione di nuove imprese nell’industria e, ancora di più, nei servizi” (Sylos Labini 1997, p. 47).

In effetti, quella appena esposta è una diagnosi sulla quale si registra un consenso diffuso, specie a sinistra. Se ne traggono, è vero, prescrizioni assai divergenti quanto al “che fare”, differenziandosi coloro che raccomandano la creazione di condizioni idonee allo sviluppo di distretti industriali [10] da quanti, viceversa, ricordano la funzione insostituibile della “grande impresa esterna, come fonte di nuove tecnologie, fornitrice di sbocchi di mercato, suscitatrice di capacità imprenditoriali indotte” [11]; purtuttavia, direbbe Sraffa, “il fatto dell’accordo rimane”: pochi, ormai, dubitano del fatto che per ‘salvare’ il Mezzogiorno dalla piaga della disoccupazione sia necessario allargarne la base produttiva.

Il problema, a mio sommesso avviso, è che una simile diagnosi è tutt’altro che incontrovertibile, potendosi considerare altrettanto plausibile (anzi, maggiormente plausibile, almeno a stare ai riscontri econometrici) [12] la già accennata tesi ‘sottoconsumistica’ di stampo keynesiano, secondo la quale la stagnazione della domanda di forza-lavoro deriverebbe dal fatto che le imprese sarebbero razionate sul mercato del prodotto da una dinamica che, da vent’anni in qua, associa elevati tassi di crescita della produttività con scadenti tassi di espansione della domanda, ulteriormente indeboliti dalle politiche di rientro dal debito pubblico.

Si obietterà che una simile costruzione non spiega il motivo per cui la disoccupazione si è concentrata nel Mezzogiorno. Ma la risposta, a mio avviso, potrebbe collegarsi al fatto che lo sviluppo dei cinquant’anni trascorsi dal dopoguerra ha ‘territorializzato’, per così dire, l’offerta e la domanda di prodotti industriali. In altre parole, e schematizzando grossolanamente, mentre il Centro-Nord ha acquisito una capacità produttiva idonea a provvedere al consumo locale e a quello del Sud, quest’ultimo è cresciuto massimamente in forza della capacità di acquisto che gli derivava dalla spesa pubblica, vera artefice del miglioramento del tenore di vita delle popolazioni meridionali. È senz’altro vero che questa struttura della produzione e del consumo ha fatto sì che la spesa pubblica non potesse funzionare da ‘volano’ per lo sviluppo industriale, dato che il reddito speso dalle popolazioni meridionali tornava al Centro-Nord, da dove provenivano i flussi dei manufatti industriali; ma, c’è poi da chiedersi, ciò è necessariamente un male? Intendo dire, era proprio necessario ‘industrializzare’ anche il territorio meridionale se l’offerta capace di soddisfare i suoi bisogni esisteva già?

I problemi ‘quantitativi’, in effetti, sono sorti appena si son chiusi i rubinetti della spesa pubblica. Data la conformazione territoriale della struttura produttiva, venuto meno l’intervento straordinario e svalutata la lira, il Centro-Nord è riuscito a barcamenarsi con l’export, mentre la situazione al Sud è drammaticamente peggorata. Le cifre, drammatiche, sono note a tutti e si sono accennate in apertura di queste riflessioni. Ma la situazione è peggiorata, a mio parere, non perché manchi una capacità produttiva, ma perché è venuta meno la capacità di spesa, cioè il reddito. Lasciato a se stesso, il Mezzogiorno non poteva che crollare - ed è crollato.

Ora, a me pare che la proposta di rilanciare l’industrializzazione
 ‘leggera’ o ‘pesante’ che si voglia - è valida se si accetta quello che ne è l’ineliminabile presupposto analitico: vale a dire, il legame tra persistenza della disoccupazione e scarsità di capitale produttivo. Ma rimossa la diagnosi che sta alla sua base, la proposta di rilanciare l’industrializzazione risulta contraddittoria: a parte il problema dell’impatto ambientale (sul quale inopinatamente tutti tacciono, salvo poi stracciarsi le vesti per l’inquinamento e la cementificazione), perché, ad esempio, ostinarsi ad abbassare le condizioni di erogazionedella prestazione lavorativa nel tentativo di creare fantomatici “distretti industriali”, fidando su presunte capacità di sviluppo che la produzione capitalistica dimostra di non possedere più? Capovolgendo le tesi di Becattini (1998, pp. 175-187), si potrebbe infatti sostenere che, se fossero ancora così magnifiche e progressive le sorti dello sviluppo capitalistico, le imprese italiane dei distretti non avrebbero affatto bisogno di cercare al di fuori del territorio nazionale (ma in realtà al di fuori del modo di produzione capitalistico stesso, come spiegava Rosa Luxemburg)  [13] le condizioni per la propria riproduzione, fidando sui salari da fame della Romania o dell’Albania. E in ogni caso, potrebbe obiettarsi che, quand’anche riuscisse, l’allargamento della base produttiva recherebbe con sé l’aumento dell’offerta di manufatti industriali da parte del Sud; quest’offerta avrebbe l’ovvia necessità di incontrare una domanda corrispondente e quest’ultima, a sua volta, non potrebbe che venire dal Sud (a scapito però dei prodotti provenienti dal Centro-Nord), dal Centro-Nord (e allora lì si avrebbe necessariamente una contrazione della domanda di prodotti locali) o dall’estero. In tutti e tre i casi, l’aumento dell’offerta di merci da parte del Mezzogiorno avrebbe come ‘prezzo’ l’aumento della disoccupazione al Centro-Nord o all’estero (immagino ci si ricordi degli ammonimenti del ventiquattresimo capitolo della Teoria generale di Keynes) [14]. A meno che, certo, la domanda non cresca ad un ritmo più rapido del tasso di crescita della produttività, ciò che è il vero problema con cui si misurano le economie capitalistiche nientemeno che dal 1920 o giù di lì, visto che, già nel 1930, Keynes rilevava che “la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera” [15] e che i tassi di crescita del reddito del periodo 1950-1975 non sarebbero stati pensabili senza l’intervento pubblico.-----

Incurante di quest’ordine di problemi, di fronte a livelli di disoccupazione che si attestano al 25-30% e a infrastrutture degne di competere con quelle dell’Albania (absit iniuria verbis), l’Ulivo, nel quinquennio trascorso, non ha saputo fare di meglio che esortare gli “imprenditori coraggiosi” a investire nel Mezzogiorno, demandando ai sindacati e agli enti locali il compito di ‘sporcarsi le mani’ e di mercanteggiare con i predetti coraggiosi gli abbassamenti delle tutele e le franchigie necessarie a rendere conveniente il fare impresa nel Sud. Non ha inteso che questo modello di sviluppo era il tanto famigerato ‘brodo di coltura’ della criminalità (micro e macro, cioè mafiosa), che pure diceva con toni roboanti di voler combattere per il buon pro della sicurezza dei cittadini onesti. E si è illuso che qualche migliaio di posti di lavoro in più, precari, flessibili e/o in affitto, potessero invertire la tendenza, piuttosto che accentuare quel senso di incertezza e di esclusione (e di rabbia) che oggi serpeggia nella nostra terra. Il risultato lo ha scritto a chiare lettere uno studio dell’Itanes: in occasione delle elezioni politiche del 2001, solo il 26,8% degli elettori riteneva il centro-sinistra in grado di affrontare il problema della disoccupazione, contro il 40,5% a favore del centro-destra [16].

Non sarebbe meglio, allora, come proponeva lo stesso Keynes (e come saggiamente ripropone da tempo Giorgio Lunghini) [17], pensare a un programma di lavori pubblici che abbelliscano le città del Mezzogiorno, dotandole “di tutto ciò che è connesso all’arte e alla civiltà al più alto livello raggiungibile da ciascun cittadino”  [18], piuttosto che vivere con “l’incubo del contabile” [19], come i nostri governanti? Non sarebbe più efficace un intervento pianificatorio sul territorio, prima che anche al Sud si diffondano quelli che l’urbanista Vezio De Lucia ha efficacemente denominato “istituti eversivi della pianificazione” - contratti di programma, patti territoriali, contratti d’area, con i quali si sta estendendo all’intero paese “il modello veneto delle fabbrichette e dei centri commerciali sparpagliati nel territorio agricolo, con costi pazzeschi per la mano pubblica e insopportabili per la qualità della vita” [20]?

5. Una proposta come quella abbozzata abbisogna, innanzi tutto, di una precisazione. Non è certo tra gli obiettivi di chi scrive un disegno di politica industriale che concentri i nuclei di produzione manifatturiera da un parte del nostro paese (e, in prospettiva, da una sola parte del mondo: il Sud Est asiatico, gli Stati Uniti e i circondari annessi, la Germania, magari qualche fabbrichetta in Francia...) e lasci all’altra parte il compito di sviluppare la qualità della vita. Non si intende qui sostenere, in altri termini, che la produzione capitalistica ‘debba’ essere territorializzata; si vuol piuttosto richiamare l’attenzione sul fatto che essa si è territorializzata e, non potendosi più prescindere da questo dato strutturale (a meno di dare per inesistenti i problemi di sbocco che si è provato ad indicare), l’intervento pubblico, piuttosto che esser teso semplicemente a favorire le condizioni ambientali per l’insediamento delle imprese, quali che esse siano, dovrebbe perseguire proprie finalità - appunto, la riqualificazione del territorio urbano e agricolo. Tra l’altro, essendo noto che all’intervento pubblico si accompagna la ripresa del processo di accumulazione capitalistica, non è nemmeno vero che, in un disegno come quello sopra abbozzato, la produzione capitalistica non giochi spazio alcuno; piuttosto, essa occupa una posizione subordinata rispetto all’indirizzo programmatorio - non “si produca purchessia”, ma “si producano quelle merci che servono alla riqualificazione del territorio”.

C’è poi un’obiezione piuttosto forte, che si può mettere in questi termini. È indubbio e si è già ricordato che, negli anni precedenti la crisi di quella che, con gioviale incoscienza, vien detta ormai la “prima Repubblica”, cospicui flussi di spesa pubblica furono indirizzati nel Mezzogiorno [21], causando un indiscusso miglioramento del tenore di vita delle popolazioni meridionali, ed è altrettanto indubbio (e si è parimenti ricordato) che la dotazione di servizi sociali e infrastrutture pubbliche presenta, in questa parte d’Italia, carenze, distorsioni e ritardi paurosi, senza che, peraltro, i partiti e i gruppi sociali (in specie, quelli criminali) che controllano l’erogazione della spesa abbiano visto incrinare le basi del loro consenso diffuso. Perché mai una politica di ‘lavori pubblici’ come quella sopra accennata dovrebbe fare eccezione? E d’altra parte, in che cosa si differenzierebbe dalla proposta di ‘opere pubbliche’ avanzata dal governo in carica, già ricordata al § 3?

La risposta a quest’ultima domanda è semplice e, in parte, la si è già accennata. L’attuale governo assume che il compito di promuovere lo sviluppo spetti alle imprese e, proprio per ciò, le opere pubbliche da esso programmate sono genericamente orientate a favorire l’insediamento industriale, senza preoccuparsi di sceglierne natura, qualità e composizione. Viceversa, la proposta che qui si è abbozzata muove da un’opinione opposta, che cioè spetti al potere pubblico programmare natura, qualità e composizione degli insediamenti industriali, in funzione dell’obiettivo di riqualificare il territorio urbano e agricolo. Per la prima, l’intervento pubblico è il mezzo e lo sviluppo imprenditoriale è il fine; per la seconda, l’intervento pubblico è il fine e le imprese sono uno dei mezzi.

La risposta alla prima domanda è invece più complessa e qui, per ragioni di spazio, non si potrà che abbozzarla. Un’acuta indagine (Trigilia 1992) ha individuato un nesso molto stretto fra la destinazione maggioritaria della spesa pubblica verso trasferimenti alle famiglie (pensioni, cassa integrazione, spesa sanitaria, spese per il personale degli enti locali), la sua scarsa produttività sociale (cioè in termini di dotazione infrastrutturale e di servizi) e la sua elevatissima “produttività politica” (cioè di consenso) e ha concluso che lo ‘sviamento’ del denaro pubblico verso fini ‘privati’ sarebbe stato (e sarebbe tuttora) conseguenza della struttura ‘particolaristica’ della domanda politica:

“L’estensione dell’intervento pubblico che si è verificata nel dopoguerra, sia per effetto delle politiche ordinarie che di quelle straordinarie e speciali, ha [...] ampliato, in generale, le opportunità per la classe politica di destinare le risorse in modo da massimizzare la loro divisibilità a fini di consenso. Tutto ciò che non si presta facilmente ad essere trasformato in risorse divisibili viene trascurato o genera non-decisioni. Ma in quest’area rientrano proprio i beni collettivi, che sono per loro natura non divisibili, e che sono essenziali per qualificare l’ambiente sociale e economico: la scuola, la formazione, i servizi sociali, i servizi alle imprese. Se si tiene conto di questo quadro è possibile spiegare meglio diversi fenomeni [...]: la persistente carenza di servizi e infrastrutture, e specie la loro cattiva qualità, nonostante la spesa per abitante non sia inferiore a quella del Centro-Nord; l’esistenza di quote spesso rilevanti di risorse non utilizzate, specie per interventi poco divisibili (residui passivi); la preferenza per politiche di tipo erogatorio che enfatizza la divisibilità della spesa e i rapporti diretti fra singoli interessi e singoli esponenti o gruppi della classe politica.” (Trigilia 1992, pp. 82-83).

Ora, se si può convenire con quest’analisi nella misura in cui rinviene la causa delle distorsioni dell’intervento pubblico nell’inesistenza di gruppi sociali portatori di interessi sufficientemente “inclusivi” à la Olson [22] - e, inversamente, pone l’esistenza di questi ultimi come condicio sine qua non per la riuscita anche di un disegno come quello abbozzato in conclusione al § 4 -, non si può certo seguirla allorché, riecheggiando il famigerato “familismo amorale”, individua la causa di tale inesistenza nel fatto che “la politica di massa si [sarebbe] affermata nel Mezzogiorno senza lo sviluppo di forti identificazioni collettive, come è avvenuto invece in altre aree del paese”, il che avrebbe portato “a enfatizzare il ruolo di difesa della famiglia e della parentela rispetto alle minacce e alle incertezze dell’interazione sociale” (Trigilia 1992, pp. 82 e 91).

In realtà, il Mezzogiorno (e in particolare la Sicilia) ha anticipato il resto d’Italia non solo nelle dinamiche politiche, ma anche - e per quanto paradossale possa sembrare - in quelle sociali (di classe, si sarebbe detto una volta). Lo scontro sociale tra proletariato e borghesia assunse nelle campagne meridionali toni asperrimi ben prima dell’autunno caldo del 1968-69 e, correlativamente, ben prima della strage di Piazza Fontana i meridionali sperimentarono la “strategia della tensione” messa in atto dai settori più retrivi della classe dominante: più esattamente, dal 1° maggio 1947, con l’eccidio di Portella della Ginestra, cui seguirono decine e decine di omicidi ai danni dei dirigenti sindacali e dei partiti di sinistra che organizzavano l’occupazione delle terre.

Fu quella tragica stagione che chiuse al proletariato meridionale la speranza in una mobilità collettiva, legata cioè al suo essere come classe. L’imponente movimento migratorio che ne seguì cancellò in chi restava financo la memoria delle lotte passate (con una boutade, si potrebbe dire che, se Bauman fosse stato siciliano, Memorie di classe non sarebbe mai stato scritto) e, quel che è peggio, rimosse le stesse ideologie, che di quelle lotte erano state anima. L’ascesa sociale, di conseguenza, cessò di esser concepita come possibilità comune e diventò destino da ricercarsi su base individuale, mentre l’‘alternativa’ (cioè il Pci) cominciò fin da allora a pensarsi solo come “compromesso storico” con i cattolici (l’operazione Milazzo, come si ricorderà, è del 1958 e Achille Occhetto negli anni Settanta era segretario del Pci siciliano). Del resto, Marx aveva spiegato già nella Questione ebraica che, una volta imbrigliato lo Stato al servizio del capitalismo, la democrazia politica avrebbe potuto assumere solo la forma evanescente di una “democrazia cristiana”.

E “cristiana”, in questo specifico senso marxiano, è stata appunto la democrazia politica nel Mezzogiorno: cristiana, perché ha avuto come protagonista l’individuo “nella sua manifestazione selvaggia e insociale”, incapace di distinguere l’interesse collettivo dal proprio interesse personale immediato; di concepire un interesse ‘generale’ superiore agli interessi individuali e diverso da questi; di rappresentarsi l’autorità in modo diverso da una forza cieca e arbitraria, che atterra l’uno nello stesso tempo in cui suscita l’altro; incapace, più in generale, di considerarsi come appartenente ad un unico corpo sociale, sottoposto ad una legge comune ed eguale per tutti, invece che come membro di una ‘famiglia’ perennemente in lotta con altre. Il che, del resto, ben si comprende: se agire collettivamente è impossibile (perché ti sparano), non resta che raggrupparsi intorno ad uno o ad alcuni individui più potenti e a loro rivolgersi per far valere i propri diritti o, che è lo stesso, per commettere abusi. L’invocazione del ‘padrino’, sia esso un mafioso o un onorevole, è insomma solo conseguenza.

Di quanto si è venuto dicendo per il Mezzogiorno ognuno potrà trovare l’equivalente nella storia del Centro-Nord seguita all’autunno caldo: l’inasprirsi delle lotte sociali; la risposta violenta della borghesia reazionaria; la sconfitta operaia; il dissolvimento delle ideologie; la trasformazione dei partiti di massa in macchine elettorali; la corruzione diffusa nella gestione del potere; l’individualizzazione dell’agire sociale e politico; il trionfo del personalismo, del leaderismo, fino alla manifestazione - il 13 maggio 2001 - dell’Uebermensch. Se sia trattato del punto più basso della curva non è dato, al momento attuale, saperlo; per ora, si può solo sperare che la forte mobilitazione del movimento dei lavoratori e di ampi settori dei ceti medi in queste prime settimane del 2002 possa segnare un’inversione di tendenza. Senza la quale è facile prevedere che della tragedia della disoccupazione nel Mezzogiorno scriveremo ancora a lungo.

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Riferimenti bibliografici

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[1] Gramsci [1926], p. 9.

[2] Cfr., ad es., Friedman [1977].

[3] Si ricorderà che nel novembre 1995 i principali quotidiani italiani diedero molto rilievo alla notizia, stralciata dal Bollettino della Banca d’Italia, secondo cui il 46,3% del 49,5% delle 725 imprese del Nord oggetto di un’indagine statistica condotta dall’istituto di emissione, aveva incontrato ‘difficoltà’ nel reperimento di manodopera. L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci, titolò: “Mancano operai. Aziende in allarme”. Ogni commento è superfluo.

[4] Noto per inciso (e con addolorato stupore) che, tra i sostenitori del “familismo amorale” pare adesso doversi annoverare anche Paolo Sylos Labini, secondo il quale “una quota molto importante dei disoccupati meridionali è costituita da giovani forniti di licenza di scuola media inferiore o di diploma; questi giovani appartengono a famiglie che possono mantenerli anche dopo la fine degli studi: ciò ha spinto in alto la quota della disoccupazione fisiologica ed ha frenato le migrazioni dal Sud al Nord” (Sylos Labini 1997, pp. 52-53). E non è tutto: “poiché spesso nella media nazionale le retribuzioni sono cresciute più che nel settore privato [...] molti giovani forniti di titoli di studio medi, non di rado perseguiti proprio per ottenere un posto nella pubblica amministrazione, preferiscono aspettare piuttosto che cercare un impiego o avviare un’attività autonoma nel settore privato” (ibid., p. 53). Insomma, par di capire che l’elevata disoccupazione è, per buona parte, ascrivibile a colpa dei giovani meridionali; se così fosse, l’unica differenza tra la disoccupazione ‘fisiologica’ di Sylos Labini e quella ‘naturale’ di Milton Friedman starebbe nel fatto che Sylos Labini preferisce la voce greca...

[5] Cfr. Bevilacqua 1993, p. 111.

[6] Per una panoramica della crescita della produttività dall’inizio degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, cfr. Pini 1997.

[7] Poco più dell’80% dell’intera spesa per gli incentivi per l’occupazione effettuata nel Mezzogiorno (Musumeci 1996, p. 124).

[8] La parzialità dello scostamento e la sostanziale continuità fra la politica economica fascista e quella del secondo dopoguerra è stata convincentemente messa in luce da Petri 2002.

[9] Cfr. ora Graziani 2000, pp. 63 sgg.

[10] Posizione, questa, sostenuta con vigore da Becattini (1998, pp. 146 sgg.) e recepita, fra l’altro, nella Relazione revisionale e programmatica per il 1999 del Ministero del Tesoro (cfr. Ministero del Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica 1998, spec. pp. 73 sgg.).

[11] Graziani [1990], p. 183. L’A., d’altra parte, rimarca che “la presenza pura e semplice di una grande impresa esterna non produce altro che cattedrali nel deserto. Per dare luogo a uno sviluppo diffuso, l’impresa esterna deve impegnarsi consapevolmente in una attività propulsiva” (ibid.).

[12] Cfr. Pini 1997.

[13] Cfr. Luxemburg [1913], trad. it., pp. 361-362.

[14] “La guerra ha parecchie cause. Dittatori e simili cui la guerra offre, almeno come aspettativa, una piacevole eccitazione, trovano facile operare sulla bellicosità naturale dei loro popoli. Ma al di sopra di ciò, a facilitare il loro compito e ad alimentare la fiamma popolare, vi sono le cause economiche della guerra, vale a dire la pressione della popolazione e la lotta per la conquista dei mercati in concorrenza” (Keynes [1936], trad. it., pp. 338-339).

[15] Keynes [1930], trad. it., p. 277.

[16] Cfr. ITANES 2001, p. 163.

[17] Cfr. Lunghini 1995, pp. 74 sgg.

[18] Keynes [1933], trad. it., p. 102.

[19] Ibid., p. 101.

[20] Cfr. De Lucia 1998.

[21] Cfr. Trigilia 1992, pp. 57 sgg.

[22] Cfr., da ult., Olson [2000].