Una panoramica del sindacalismo in Spagna (1920-2002): dall’antifranchismo al pro-liberalismo

Diego Guerrero

I. Introduzione: le origini storiche del sindacalismo spagnolo [1]

È possibile che il lettore italiano non sappia con dettagli sufficienti che la situazione sindacale nella Spagna degli inizi del XXI secolo è molto distante da quella che era un secolo prima, più facilmente individuabile nella letteratura storica sul socialismo europeo. Se nella prima decade del XX secolo i due grandi sindacati spagnoli erano, da una parte, l’Unione Generale dei Lavoratori (UGT) -vincolata al Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), fondato da José Mesa, Pablo Iglesias e altri sindacalisti che si ispiravano al “marxismo”-, e dall’altra, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT, o CNT-AIT), che si fondava sul sindacalismo rivoluzionario che si divulgò in Europa a partire dalla Carta di Amiens del CGT francese (1906) -si veda Rivera (2002)-, attualmente la situazione è molto diversa.

Continua ad esserci una tradizione anarchico-sindacale, sebbene sia rappresentata al momento da due sindacati diversi: la CNT e la nuova Confederazione Generale del Lavoro (CGT), scissa da quella nel 1979 (si veda Iñiguez, 2002). Comunque, il predominio dei due grandi sindacati detti “di classe” (con più dei due terzi dei rappresentanti dei lavoratori alle elezioni sindacali del periodo post-franchista) è più che evidente. Queste due importanti concentrazioni sindacali sono la UGT, ancora legata al PSOE, e le Commissioni Operaie (CCOO) [2], sorte negli anni ’50 e legate storicamente con il Partito Comunista Spagnolo (PCE), oggi integrato nel gruppo elettorale Sinistra Unita (IU).

Negli anni ’80, quando il PSOE era al Governo spagnolo e celebrò il centenario come partito, coniò per la commemorazione il motto “100 anni di dignità”, al quale il sapere popolare aggiunse un sicuro e più che giustificato: “... e 40 di vacanza”. Qualcosa di simile accadde anche al sindacato fratello. Dopo il suo collaborazionismo durante l’epoca della dittatura (dictadura) di Primo de Rivera (incluso la cosiddetta “dittatura molle” -“dictablanda”) -1923-1931, anni in cui la UGT partecipò agli schemi organico-rappresentativi e parafascisti della destra di allora-, e dopo la sua importante crescita durante la II Repubblica (1931-’39), insieme a quella del CNT, il panorama cambiò radicalmente sotto il franchismo. Di fronte al lungo periodo di sosta della UGT (che terminò solamente quando, negli anni ’70, Willy Brandt e l’Internazionale Socialista si resero conto che bisognava immettere denaro fresco nel sindacalismo spagnolo tardo-franchista se si volevano bloccare le inquietudini rivoluzionarie dei lavoratori dell’epoca), la ribellione spontanea dei lavoratori culminò nel movimento scioperistico e combattente che dette origine, nelle due decadi del 1950 e 1960, alla nascita e crescita delle CCOO in tutti i nuclei della popolazione, cominciando dai centri industriali di vecchia tradizione o di nuova creazione (si veda David Ruiz, 1993).

In un primo periodo, le Ccoo erano molto critiche con il sindacalismo convenzionale, al quale, malgrado non esistesse in Spagna -dove gli unici sindacati legali erano i cosiddetti “verticali” (franchismi)-, davano la colpa di essere “riformista, conformista e burocratico”. Uno dei fondatori delle CCOO, Marcelino Camacho, che trascorse lunghi anni nelle prigioni franchiste, durante gli anni della prigionia espose la sua idea di sindacalismo a molti dei compagni che passavano per Carabanchel e altre carceri della dittatura. Il riassunto di questi insegnamenti, le critiche al sindacalismo convenzionale e l’inclinazione verso una concezione alternativa, dei sindacati di base, vicina al ‘consiglismo’ storico (si veda Pannekoek, 1941-47), sono chiare in Camacho (1976), un libro che cadde subito nella più assoluta dimenticanza (e, come sembra, persino per lo stesso Camacho, a giudicare dal Camacho del 2002) [3].

Comunque, quelle stesse critiche si possono estendere ugualmente all’altro centro sindacale, la UGT, che ha appena celebrato il suo 38° Congresso Confederale (13-16 marzo 2002). Poiché non c’è molto spazio qui per dilungarsi sulle questioni di fondo, in questo breve articolo mi limiterò a porre in risalto, in forma quasi giornalistica, alcune frasi estrapolate da recenti esposizioni dei due attuali segretari generali di entrambi i sindacati, tanto del UGT (sezione II) quanto delle CCOO (sezione III).

 

II. Riformismo e liberalismo contemporanei nei “sindacati di classe” spagnoli: il caso della UGT

In un’intervista concessa a El País, il segretari generale della UGT, Cándido Méndez (si veda Méndez, 2002), prima di presentarsi alla rielezione per un terzo mandato, mostrava chiaramente la posizione “politica” attuale del suo sindacato, criticando il governo del PP per la sua politica liberale (Méndez si riferiva al trio di moda in Europa: Aznar- Blair- Berlusconi), e segnalando che il PSOE “dovrebbe apportare un’altra visione dell’Europa” (dando ad intendere che non lo fa in maniera soddisfacente).

Allo stesso tempo, Méndez segnalava che il segretario generale dell’IU, Gaspar Llamazares, “sinceramente [...] sta facendo degli sforzi in questo senso”. Ma se dal politico-elettorale passiamo al terreno delle strategie sindacali, non c’è altro da fare che cogliere le due frasi che estrapolano i giornalisti che lo intervistano come riassunto della posizione “di classe” del suo sindacato. Méndez afferma che “gli immigrati sono il nuovo proletariato” e che “esigiamo dalle imprese i valori etici, e che non si limitino al valore in Borsa”; che non sembra altro che pura ideologia liberale, vuota del più minimo contenuto di classe. Ma vediamo il percorso intellettuale che porta a queste conclusioni giornalistiche.

1. Alla domanda se si sta aprendo adesso una “nuova tappa”  [4] nell’UGT, Méndez risponde che certamente sì: la “tappa” del XX secolo “è arrivata al culmine favorevolmente” perché “gli obiettivi difesi da Pablo Iglesias all’inizio del secolo scorso [...] oggi sono riconosciuti come diritti costituzionali, e inoltre sono condivisi da tutta la società” [sic]. Sembra che Mèndez dimentichi che gli obiettivi che sta attribuendo a Pablo Iglesias sono quelli che già stavano nelle “Leggi Fondamentali” di Franco - che svolgevano il ruolo di Costituzione nella sua peculiare “democrazia organica” -. Secondo lui, gli obiettivi di Pablo Iglesias e dei socialisti di un secolo fa erano “difendere per la via riformista e democratica la dignità del lavoro, e i diritti che scaturiscono da esso come il diritto alla pensione, alla sanità e alla scolarizzazione”. Cioè, il socialismo inteso come il miscuglio tra la dottrina sociale della Chiesa e la Sicurezza Sociale che anche Franco e il suo ministro falangista, Girón de Velasco, contribuirono ad ampliare.

2. Dopo, Méndez ci fa scoprire, una volta ancora, un Mediterraneo ben conosciuto: che “la struttura della classe operaia è cambiata ed è molto più ampia”, non solo perché ci sono sempre più donne nel mercato del lavoro [5] (ciò che sembra gli piaccia tanto e tanto acriticamente come ai capitalisti che approfittano di esso), ma perché, dopo essere “ufficialmente” scomparso il proletariato, ora riappare nella nuova Spagna, prima emigrante ed adesso ricevente di migliaia di immigranti magrebini, sudamericani, africani, etc. Poiché Méndez e i suoi teorici mille volte hanno dovuto ingoiare questa pillola, e l’hanno digerita senza alcun problema e senza effetti secondari conosciuti, si nota che già si è allontanato dalla credenza liberale che noi proletari che non siamo emigranti non siamo proletari ma facciamo parte di quella grandissima e meravigliosa “classe media” (“nuova” o “vecchia”) che tanto sfrutta il santo “Stato del benessere”, il benefico ricordo della “dorata” era keynesiana e l’acqua benedetta del “modello social-europeo” battezzato anche da papa Wojtila.

3. Inoltre Méndez evidenzia il cavallo di battaglia intellettuale contro il “pensiero unico”, che consiste nell’opporre ai sindacati “professionali” o “corporativi”, e contro il suo fondamento ideologico occulto - l’intento di “restringere il ruolo dei sindacati a difensori del valore del lavoro di fronte al valore del denaro” [sic] -, il “modello sociale” che lui difende, che è quello dei sindacati “pragmatici” e “moderati” d’Europa, che “si configurano nell’ambito della sinistra”. Poi, dopo aver pagato il notorio tributo alla dea della globalizzazione - l’obolo che consiste nel reclamare “che la globalizzazione adotti una nuova rotta”, che è ciò che chiedono tutti i politici e i finanzieri, escluso i fanatici eccentrici -, e dopo aver riconosciuto che i sindacati stanno passando un periodo di stanca, contrattacca con una ricetta che non si sente neanche nelle riunioni dei retrobottega del secolo XIX: “vogliamo rivendicare un nuovo modello di impresa dove vengano incorporati i valori etici e che l’elemento fondamentale non sia il valore in Borsa” (amen).

4. A seguire, dopo aver fatto un “bilancio modesto, ma positivo” [sic] sull’inserimento delle 35 ore in Spagna [6], Méndez spiega ad Aznar in cosa consiste la politica d’impiego più favorevole ai lavoratori: non si tratta di rendere i mercati del lavoro “più flessibili” - quella è la ricetta neo-liberale -, ma si tratta di imitare quello che fanno gli statunitensi, e cioè: “degli investimenti in nuove tecnologie che duplichino nell’Unione Europea e triplichino nella Spagna”. Infine, dopo aver tirato le orecchie al PSOE e felicitandosi con l’IU (come abbiamo detto), e dopo aver ricordato che “l’unità d’azione” con le CCOO si va mantenendo, passa al tema che preoccupa realmente le centrali sindacali, nella misura in cui tutto il suo comportamento liberale (nell’ideologia) non è altro che la controparte mentale del suo comportamento liberale (nel sociale: in quanto “agenti di mercato” e, in particolare, del mercato elettorale, sono il segmento “sindacale”). Nell’opinione di Méndez si deve discutere con le CCOO, con la organizzazione padronale e col governo “in profondità sul modello di dialogo [sociale]”, di modo che il Governo “deve rispettare quegli incarichi che sono le funzioni concesse dalla Costituzione alle organizzazioni padronali e ai sindacati, per esempio, la negoziazione collettiva”.

Mi fermo qui, visto che ci siamo imbattuti per caso con la Costituzione, e come difensore della nostra Costituzione capitalista non c’è nessuno che sia capace di trionfare se davanti ha le CCOO.

 

III. Il legame di classe delle CCOO: “Viva la Costituzione e la democrazia borghese, per questo Dio fece venire al mondo i lavoratori”

Cándido Méndez poteva terminare la sua intervista solamente con un inno alla Costituzione spagnola del 1978, così democratica e così sociale, così avanti ed europea, e, soprattutto, così elogiata dal suo rivale ed antagonista, le CCOO. Nella monografia citata della Gazzetta Sindacale (si veda la nota 2) - che puzza di incenso costituzionale più intensamente che la cattedrale di Santiago de Compostela dell’altro incenso -, c’è poco che fuoriesce da questo fetore così puro [7]. Ma il più orgoglioso di tutti, per l’importante ruolo svolto dalle CCOO nell’instaurare la democrazia liberale, è, senza alcun dubbio, l’attuale segretario generale, José María Fidalgo, che inizia il suo articolo rallegrandosi, non solo del fatto che il suo sindacato non possa essere incluso nella “lista dei nemici della Società Aperta”, ma assicurando che “abbiamo contribuito a crearla” (in Spagna, si suppone), per la disgrazia di quanti siamo convinti che non c’è niente di più chiuso della “società aperta” di Popper (si veda Popper, 1945) o della “libera società” di Hayek (1944).

Fidalgo (2001) si riferisce orgogliosamente all’“estesa storia del nostro vecchio continente” delle tre istituzioni che intende come la massima aspirazione possibile dei lavoratori: il “contratto di lavoro”, il “sistema di pensionamento della Previdenza Sociale”, e la “negoziazione collettiva e altre istituzioni basilari dello stato sociale” [sic]. Sicuramente in testa ha, come possibile antagonista dialettico, il tipico “neoliberale” difensore del fatidico “modello americano”. A mio giudizio, quella è una delle debolezze dell’attuale discorso delle CCOO e dell’UGT e dei sindacati liberali (e la sinistra) di tutto il mondo: scegliendo come avversari intellettuali le posizioni liberali più estremiste, uno può apparire critico e contrario a quelle con la sola ripetizione dell’evidenza del più timido senso comune, ma in assoluto non significa che ci sia un legame con posizioni di classe combattive né con l’intento di cambiare l’idea della società che ancora esiste in molti affiliati. Fidalgo si limita a dare tre brevi argomentazioni:

1. Il Diritto del Lavoro servì per “regolamentare il conflitto fra lavoro e capitale”. Con questo sembra che ci si limiti a rivendicare che continui ad esserci un Diritto Lavorativo, ma a nessuno sorge il dubbio che staremmo peggio anche se non ci fosse stata neanche una legislazione “tutelante”, dei Tribunali del Lavoro, etc, come sembra che abbia già conseguito il famoso “sinistrofilo” Cardoso in Brasile. Ma alla direzione intellettuale delle CCOO non passa neanche per la mente che laddove c’è un Diritto (borghese, sebbene a qualcuno faccia vergogna ammetterlo) per regolare la relazione tra capitale e lavoro (salariato), ci sarà anche una “relazione capitalista”. Prima, il problema era, precisamente, la relazione capitalista stessa, che i sindacalisti più rivoluzionari volevano abolire. Ora le CCOO hanno perfettamente assunto il discorso liberale, che dice: “siccome il capitalismo è eterno, e pensare il contrario è da illusi o visionari che non tengono neanche i piedi per terra, adattiamoci addolcendo le raffinate torture che il ‘moderno’ capitale impone al lavoro”. Alcuni penseranno che affermazioni del genere non sono sprovviste di senso comune. Altri pensiamo che anzi riflettano l’opportunismo più vergognoso.

2. Anche i sistemi di Sicurezza Sociale esercitano una funzione “stabilizzatrice e di pace” nella nostra società. Gli economisti neoclassici parlano molto di “equilibrio” del mercato, e sappiamo che lo fanno pensando all’equilibrio o al mantenimento dello status quo. I sindacati liberali sentono un orrore simile per qualsiasi cosa possa “destabilizzare” la società capitalista, e perciò al centro delle loro aspirazioni c’è il contribuire alla “stabilità sociale” (che non è altro che un’altra forma di accettazione del più puro e crudele status quo capitalista). E che dire della “funzione pacificatrice” che egli rivendica? Fino a quando servirà il rifiuto implicito degli “eccessi” della guerra civile come scusa per cercare di convincere i lavoratori spagnoli che la lotta o guerra di classe si è già conclusa e per sempre? Già si vedeva dove sarebbe arrivato: si inizia citando Popper con elogi e si conclude con il voler portare Fukuyama ad una conferenza di affiliati dell’Ateneo culturale delle CCOO, perché spieghi la fine della storia contemporanea e smettiamo, una buona volta, di mettere in dubbio il sistema capitalista.-----

3. La “negoziazione collettiva” è niente di meno che il paradiso sulla terra, o la pietra filosofale per l’armonia delle classi, quindi permette di “organizzare il regolamento per il conflitto capitale/lavoro e dare una razionalità positiva all’unione dello sforzo del lavoratore per migliorare la sua situazione e dell’impresa per aumentare le quote del mercato”. Una simile ipocrisia non si azzardava a dirla neanche il giustamente dimenticato filosofo massone e liberale K. C. F. Krause, l’ideologo tedesco degli “istituzionalisti” e sinistrofili liberali spagnoli del XIX secolo, che voleva che la sua confraternita massonica si trasformasse in un’ “alleanza dell’umanità” aperta a tutti gli esseri umani. Questa è pura ideologia liberale neoclassica, ma rediviva in status nascendi, dove l’ “utilizzazione” -conclusione a cui era giunta l’Economia politica classica come risultato naturale dell’analisi del processo di produzione capitalista- deve essere sostituita a tutti i costi con il paradigma della “giustizia distributiva”, e dove il conflitto insuperabile di classe tra operai e capitalisti dia il via ad una armoniosa festa da ballo (finanziata dal Ministero del Lavoro, forse) dove per primo “le parti” si prendono per mano, dopo si apprestano al corteggiamento danzante, e finalmente, se l’occasione è propizia, se ne vanno a letto per suggellare il loro patto appassionatamente.

Ma Fidalgo va molto più in là, e ci mostra fino a che punto le CCOO si sono ingoiate, senza masticare, tutto l’intero discorso del liberalismo, ingannate da quelli che ne presentano la caricatura sotto la forma restrittiva e ridicola del “neoliberalismo”. Sotto le apparenti critiche al neoliberalismo (né Regan né Bush né nessun liberale effettivo hanno mai fatto caso a Milton Friedman e tutti quanti se non nel catechismo), questi liberali criptati -autentici liberali essenzialmente, ma ancora “vergognosi”, sebbene alcuni già pronti a dare il via, ad uscire dall’armadio e dichiararsi apertamente liberali- si dedicano a propagare il più stantio liberalismo retorico e vuoto. Un liberalismo che non ha mai fatto altro che assumere un tono arrogante e pose enfatiche nel fare degli evviva altisonanti per la “Libertà” in astratto, quel santo patrono del calendario liberale che regna in un mondo caratterizzato dall’assenza di libertà reali di coloro che producono tutto
 persino la libertà degli altri- per quelli che non si meritano niente.

Recita Fidalgo: ”È stata la libertà, la democrazia formale, e non altri, il seme del progresso nel nostro paese ed in qualsiasi altro”. A quale libertà si riferisce: a quella delle Corti di Cadice (1812) davanti all’assolutismo di Ferdinando VII, a quella di Cánovas e Sagasta, o forse al posto “vuoto” che ha lasciato Franco quando, morto nel suo letto, lo sotterrarono? Chi consiglia così saggiamente Fidalgo fino al punto di fargli contrapporre oggigiorno la società “aperta” alla “strutturata” società pre-borghese? Scrive: “i legislatori democratici creano generalmente cambiamenti funzionali alla stabilità, precisamente per la loro qualità di eletti ed eleggibili per una società aperta, non strutturata, con il voto universale”. Perché nessuno si azzarda a redigere una lista di paesi democratici, oltre alla santa alleanza dell’Unione Europea [8]? Davvero le CCOO credono che i paesi dell’Unione Europea sono democratici?

Ma lasciatemi fare una domanda: e della “libertà di utilizzazione”, quella pietra angolare di tutto l’edificio capitalista e democratico-borghese, cosa dicono le CCOO? C’è o non c’è? Io ho sempre detto che c’è, con o senza il franchismo, ed in più con un grado sempre crescente nel tempo. Così lo spiego alle mie lezioni, per esempio: mi obbligheranno i compagni delle CCOO a rettificare una “barbarità” del genere? Si sono dimenticati i loro dirigenti che prima si diceva “grado di utilizzo” e si parlava di “tasso di plusvalore” per riferirsi quasi alla stessa cosa che adesso chiamano ingiustamente “cooperazione tra capitale e lavoro all’interno dell’impresa”? Mi vogliono spiegare che differenza passa tra il concetto neoliberale di utilizzazione, che equivale a negare l’utilizzo dei salariati come fenomeno generale -riducendo l’ambito di questa alla sfera del “sovra-utilizzo” degli immigrati, dei bambini,delle prostitute e altri collettivi marginali-, e il concetto cripto-liberale dell’utilizzo che difendono le CCOO? Io non la vedo.

Con la divertente dichiarazione che, per quello che abbiamo visto, nelle “società democratiche ed aperte” i lavoratori “si sono convertiti in cittadini”, Fidalgo ci riporta all’epoca della Rivoluzione Francese, con la sua fiorente retorica di diritti umani e cittadini. E con l’euforia della “costituzionalizzazione dei diritti sociali”, della conversione delle “rivendicazioni e conquiste lavorative in rivendicazioni e conseguimenti di interesse generale”, ci riconduce alle encicliche papali del XIX secolo. E se qualcuno pensasse che Fidalgo alzi il tono quando parla della “appropriazione oligopolistica di una gran parte del prodotto sociale”, si sbaglierebbe, non è neanche questo quello che manifesta: si limita a consigliare i proprietari, e a chi parla in loro nome, perché facciano un discorso tanto “legittimo” come quello dei sindacati “sociopolitici”. Ma lasciando da parte nella sua critica gli oligopoli non va oltre quello che è capace di scrivere un maestro dei liberali come Milton Friedman (si veda Friedman, 2001), quello che reclama la direzione delle CCOO agli impresari e ai loro portavoce è che dimostrino che quello che difendono “proietta verso un futuro migliore, con più stabilità, e con più sicurezza”, invece di limitarsi a “sentire la mancanza dei privilegi strutturali” [sic].

E per finire: “I sindacati hanno prodotto non ‘operai meglio pagati’ ma cittadini che non si sentono stigmatizzati per essere salariati”. Mais justement! Direbbe un francese. Qui sta il problema: i salariati, oggettivamente stigmatizzati nella società capitalista -non potrebbero smettere di esserlo anche se lo volessero- si sentono personalmente cittadini, e anche concittadini, dei loro protettori. Insiste Fidalgo: “La storia del CCOO è una storia limpida e chiara in difesa della democrazia e dei lavoratori [...] Non ha mai tradito, per far valere legittimi interessi di classe, la democrazia né gli interessi generali”. L’attuale CCOO non capisce, secondo me, la relazione esistente tra gli interessi particolari e quelli generali. Sembra che non si renda conto di che tipo di evoluzione sociale sia predominante nel capitalismo. Parla di “salarizzazione dei lavoratori”, ma non ne capisce il significato.

La dinamica sociale, per ragioni insite nelle leggi interne al sistema, -e queste tendenze si producono sempre a quel ritmo storico, così lento, che gli analisti frettolosi, avidi di novità e cambiamenti per ogni dove, non possono sperare neanche di intravedere- tende a far sì che i salariati si identifichino con i cittadini. Ma quella tendenza non può attuarsi automaticamente: è impossibile che si materializzi nel contesto di un tipo di società basata nell’utilizzo del lavoro salariato a favore del capitale. Ma ci sono altri tipi di società, per quanto le CCOO (e l’UGT) si impegnino ad ignorarlo.

 

IV. Conclusione

Perché le CCOO e l’UGT si chiamano “sindacati di classe” se non credono neanche nelle classi e nella loro lotta, essendo retrocessi, dunque, molto più indietro di quello che sostenevano gli storici e gli economisti borghesi evoluti di più di due secoli fa? Immagino che i compagni italiani avranno domande molto simili da porsi rispetto agli altri sindacati del loro paese.... Ma dovremo cercare di rispondervi in un’altra occasione.

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Riferimenti Bibliografici

Camacho, M. (1976): Charlas en la prisión. El movimiento obrero sindical, Barcelona: Laia.

Camacho, M. (2002): “Sindicalismo de clase”, en Guerrero (2002, ed.), pp. 254-7.

Fernández Buey, F. (2002): “Anarquismo y marxismo”, en Guerrero (2002, ed.), pp. 206-9.

Fidalgo, J. M. (2001): “Sindicato y sociedad”, en Gaceta Sindical. Reflexión y Debate, número monográfico sobre “25 años de sindicalismo: Sindicato y sociedad”, octubre, pp. 19-27.

Friedman, Milton (2001): “La guerra no debe ser un pretexto para la intervención del Estado”, entrevista en El País-domingo, 11-XI-01, pp. 10-11, por Michaela Schies.

Gabaglio, E. (2001): “Los trabajadores y el futuro de la unión Europea”, en Gaceta Sindical. Reflexión y Debate, número monográfico sobre “25 años de sindicalismo: Sindicato y sociedad”, octubre, pp. 237-241.

Guerrero, D. (2002a): “La economía liberal y el sindicalismo español”, en el CD de las VIII Jornadas de Economía Crítica, Valladolid, 28-II y 1-2.III.2002.

Guerrero, D. (2002b): “CC.OO.: 25 años de ‘transición’ al liberalismo”, enviado a Gaceta Sindical, Revista de la Confederación Sindical de CC. OO., [¿en prensa o en el horno?: chi lo sà!]

Guerrero, D. (2002, ed.): Lecturas de Economía Política, Madrid: Síntesis.

Hayek, F. von (1944): The Road of Serfdom, Routledge, London.

Iñiguez, M. (2002): “Anarcosindicalismo”, en Guerrero (2002, ed.), pp. 203-6.

Méndez, C. (2002): “El Gobierno quiere colar en Europa sus políticas de ajuste”, entrevista en el diario El País, 10-III-2002, p. 58.

Pannekoek, A. (1941-47): Les conseils ouvriers, 2 vols. (vol. I: La tache; La lutte; La pensée; vol. II: L’ennemi; La Guerre; La Paix), Paris: Spartacus, 1982.

Popper, K. R. (1945): The Open Society and Its Enemies, 2 vols., G. Routledge & Sons, London.

Rivera, A. (2002): “Sindicalismo revolucionario”, en Guerrero (2002, ed.), pp. 257-9.

Ruiz, D. (dir., 1993): Historia de Comisiones Obreras 1958-1988. Madrid: Siglo XXI.


[1] Ns. traduzione dell’originale spagnolo

[2] Secondo la notizia de El País, del 11-3-2002, p.72, “attualmente, il CCOO è il primo sindacato, sia nel numero di associati (più di 900.000) sia nella rappresentatività nelle imprese. L’UGT è la seconda organizzazione sindacale, con 825.000 affiliati e appena l’1% in meno di rappresentanze del CCOO, con 102.625 delegati sindacali”.

[3] Una critica più estesa degli estremismi burocratici, riformisti e proliberali che dimostra questo sindacato a tutt’oggi si possono trovare in Guerrero (2002, 2002b), dove si prende come oggetto della critica lo speciale monografico della Gazzetta Sindacale, la rivista ufficiale degli studi delle CCOO, dedicato a commemorare il 25° della costituzione della “Confederazione Sindacale” delle CCOO, l’organo esecutivo che terminò con le note di libertà che si erano riunite per anni nella tendenza spontanea, semicomunista e semi-anarchica, che c’era dietro le CCOO (sui punti di contatto tra anarchismo e marxismo, sebbene senza riferimenti espliciti al movimento operaio e sindacale, si può consultare Fernández Buey, 2002).

[4] Secondo me, l’onnipresenza liberale attuale ha molto a che fare con la doppia tendenza verso la neosofia (la conoscenza del nuovo che, per ipotesi, sempre appare e, di conseguenza, va sempre superandosi, ma non senza prima compiere la sua funzione di morfina intellettuale) e la neofilia (il gusto per tutto ciò che è nuovo, che è una buona scusa per rompere con qualsiasi tradizione intellettuale scomoda senza che si veda troppo).

[5] Comunque, la parte della popolazione attiva femminile spagnola è inferiore alla loro partecipazione nella nuova commissione esecutiva dell’UGT, dove occupano 6 dei 13 seggi. Certamente, il risultato del Congresso, da questo punto di vista, fu lo stesso che aveva anticipato la stampa prima della sua celebrazione.

[6] Tenendo in conto che, “in 4 anni” le adesioni su quella giornata pattuita hanno interessato un numero aggiuntivo di 230.000 lavoratori, possiamo essere ottimisti con Méndez: avremo bisogno di soli 100 anni per arrivare ad impiantare la giornata di 35 ore per i 23 milioni di lavoratori che si presume raggiunga il nostro paese nell’anno 2102!!! Quindi, nel XXII secolo saremo in condizione di raggiungere “la co-educazione” che Méndez reclama e che è “fondamentale recuperare”; ossia, la “partecipazione della famiglia all’educazione dei figli”.

[7] Devo chiarire al lettore italiano che non so se nel vostro paese succede qualcosa di simile, ma in Spagna se uno attacca la Costituzione del 1978 davanti ad un sindacalista, o uno di sinistra in genere, subito viene etichettato come franchista: non è buffo?

[8] Un altro che segue lo stesso discorso è Emilio Gabaglio (Gabaglio, 2001), Segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati. Dopo aver ricordato ed essersi congratulato che già nel 1976 le CCOO esercitassero l’ “opzione per l’Europa”, prosegue incensandole per lasciar loro un buon odore alla fine del libro, e chiede il “rafforzamento del “modello social-europeo” e un “progresso dell’Europa in termini di Unione politica” perché solo per questa direzione l’UE “potrà avere più peso sulla scena internazionale”. Ma vuole che l’Europa abbia più peso? Cosa pretende: sostituire l’imperialismo degli USA con quello dell’UE? Può rimanere tranquillo, dormire con la coscienza a posto, un sindacalista che dica questo e dimentichi di esigere più peso per l’Africa, l’Asia, l’America Latina, etc? D’altra parte, Garbaglio, come tanti sindacalisti spagnoli, crede che “la disoccupazione di massa è ancora una drammatica realtà in molte parti d’Europa”: “Ancora”? Che ingenuità! Ma se il problema mondiale della disoccupazione è appena all’inizio!