Il privato... è politico! Le privatizzazioni contro il movimento dei lavoratori

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Una lettura statistico-economica delle privatizzazioni italiane

La nostra rivista si è interessata al fenomeno delle privatizzazioni già in passato con delle inchieste [1] che analizzavano le circostanze e le motivazioni addotte dai governi per procedere allo “smantellamento della cosa pubblica”.

L’indagine sulle privatizzazioni è partita già con i numeri 1/98 e 2/99 di PROTEO e come tutte le indagini che abbiamo fatto, dai dati ufficiali dell’ISTAT, della Banca d’Italia, dell’EUROSTAT, dai dati provenienti dalle fonti interne delle singole aziende e dai dati ABI (Associazione Bancaria Italiana); incrociando questi dati siamo andati a vedere le tanta facce delle privatizzazioni sia a livello macro, quindi un’indagine di carattere statistico-economica legata agli indicatori che devono dimostrare la validità o meno e il relativo peso nei conti economici nazionali dei vari paesi d’Europa, sia a livello micro, portando avanti l’indagine su delle particolari aziende, con un’analisi a caratteristiche più statistico-aziendali. È stato un lavoro molto faticoso e impegnativo che si è protratto per lungo tempo e con questo numero di PROTEO vogliamo riprendere.

L’analisi è partita dal fatto che in Europa e nel resto del mondo, è in atto un conflitto molto pesante fra aree di influenza capitalistiche; un conflitto che apparentemente non è armato ma che forse è più pesante di un conflitto di guerra, perché è una guerra economica-finaziaria quella che si è scatenata fra l’area di influenza dello yen, quella di influenza ex marco tedesco, oggi euro, e quella del dollaro. All’interno di questo conflitto si vanno ridefinendo sia i ruoli e i modelli di capitalismo sia i ruoli e i modelli d’impresa. Vediamo in particolare che in Europa si è realizzata soltanto una apparente unità di carattere finanziario ma non c’è assolutamente un’unità politica, né tantomeno una di tipo economico.

Questa premessa sui modelli di capitalismo per evidenziare il fatto che anche i modelli di privatizzazione che si sono attuati in Europa non sono assolutamente univoci; c’è in effetti una forte tendenza, un accorpamento, un appiattimento verso il capitalismo selvaggio anglosassone, nonostante le vie di privatizzazione inglese, francese, tedesca e italiana siano state completamente differenti. L’analisi inchiesta che abbiamo svolto si è occupata delle privatizzazioni in Europa e in Italia. In Europa siamo andati a vedere il collegamento tra modelli di capitalismo e modelli di impresa; abbiamo analizzato in particolare in Germania, paese in cui l’economia in un prossimo futuro verrà ancor più privatizzata con processi molto più accelerati di quelli stabiliti durante il precedente governo, nonostante l’attuale governo sia di sinistra, al fine di risolvere e addossare al resto d’Europa i costi dell’unificazione della Germania. Parallelamente al modello tedesco, abbiamo analizzato quello francese, che sembrava a prima lettura meno democratico, in quanto si rifaceva alla logica del ‘nocciolo duro’ e non a quella delle pubblic-companies, poi invece, ci siamo accorti che il modello della Golden Share, del nocciolo duro si è apparentemente rivelato più democratico economicamente del modello delle pubblic-companies, anche se poi ha portato gli investitori istituzionali, le banche e i grossi poteri finanziari a controllare le imprese di grandissime dimensioni con un capitale minimo relativamente a quello che era il capitale d’impresa venduto. Si è analizzato il processo di privatizzazione anche in Austria, Svezia, Norvegia e nei paesi dell’ex blocco socialista, dell’Europa dell’est, dove ci siamo accorti che il processo di privatizzazione ha una finalità legata alla corsa competitiva con le economie occidentali più forti. Infine abbiamo analizzato il processo di privatizzazione in Italia; il modello italiano risente della particolarità del capitalismo nel nostro Paese.

Sulla rivista PROTEO, sia sul n. 1 che sul 2 del 1998, si possono trovare tabelle e grafici che spiegano più dettagliatamente la dinamica delle privatizzazioni di cui ho parlato finora. Sono stati analizzati i vari casi studio sulle privatizzazioni avvenute successivamente al Governo Amato, per esempio La Nuova Pignone, le banche (CREDIT e COMIT), l’ENI 1, 2, 3 e 4, l’INI, l’INA, l’ALITALIA, TELECOM, Banca di Roma e l’ENEL; ci si è soffermati sulla privatizzazione e la battaglia sull’ENEL che non è soltanto di carattere economico ma è una battaglia di principi, per ridare un ruolo interventista allo Stato. Si sono inoltre analizzati dei casi locali di privatizzazione, come quello della Centrale del Latte di Roma e dell’ACEA.

Ci sembra opportuno ora riprendere il discorso per analizzare quali sono state le conseguenze sul sistema economico del nostro Paese, dovute alla trasformazione di grandi aziende pubbliche in imprese private, anche se con processi e modalità non sempre evidenti.

Le privatizzazioni delle imprese pubbliche sono state attuate per raggiungere, secondo i vari governi che si sono succeduti negli anni ’90, diversi obiettivi: in primo luogo per cercare di risanare le finanze pubbliche; poi per favorire una migliore efficienza delle imprese e quindi per facilitare la diffusione dell’azionariato popolare in un tentativo di creazione di processi di allargamento di forme di democrazia economica.

Va ricordato che la con l’operazione di privatizzazione si trasferisce in vario modo un’azienda di proprietà pubblica al settore privato; con la privatizzazione formale le imprese pubbliche vengono sottoposte agli istituti del diritto privato e così il controllo dei fattori di produzione passa dal pubblico al privato pur mantenendo lo Stato il controllo del profitto (in quanto mantiene la maggioranza del capitale sociale), mentre con la privatizzazione sostanziale vengono cedute le quote di controllo sul mercato e, quindi, anche il profitto passa in mano ai privati.

Le forme principali di privatizzazione sono essenzialmente tre: la prima consiste nel vendere a operatori privati la maggioranza delle azioni di imprese a controllo pubblico; la seconda è data dalle vendite a privati di componenti del portafoglio immobiliare pubblico (Stato, enti territoriali locali, altri enti pubblici); la terza infine consiste nel concedere a privati la gestione di servizi svolti in precedenza da operatori pubblici centralmente o localmente in una situazione come quella italiana che era fortemente caratterizzata dall’economia mista.

 

2. La via all’economia mista: ... pubbliche virtù

L’intervento dello Stato nell’economia è derivato, in un paese come il nostro che si era strutturato su assetti di economia mista, dalle esigenze contingenti di compensare, integrare, ed in alcuni casi sostituire la gestione privata in settori in difficoltà con lo scopo di tutelare l’interesse collettivo.

Ma occorre ricordare che l’intervento dello Stato nell’economia è avvenuto per compensare i fallimenti e le insufficienze dei privati; senza l’intervento pubblico infatti il capitalismo italiano non sarebbe stato in grado di sopravvivere e rafforzarsi a livello internazionale.

È possibile datare i primi interventi statali a sostegno dell’economia già dal 1929 a seguito della crisi economica che ha coinvolto l’economia mondiale.

Più precisamente l’origine del sistema delle partecipazioni statali risale al 1933, anno in cui è stata costituito provvisoriamente l’IRI (divenuto nel 1936 un ente permanente) con l’obiettivo di acquisire parte delle tre banche miste italiane in evidente difficoltà e garantire quindi i depositi e il risparmio dei cittadini.

Nel secondo dopoguerra poi il ruolo dello Stato come imprenditore si è consolidato: “È stato così che a partire dagli anni ’50, e fino in pratica all’inizio degli anni ’90, alle holding pubbliche sono stati demandati in modo improprio, implicitamente o esplicitamente, compiti strategici di politica industriale, come garantire la separazione fra proprietà e controllo delle imprese, non assicurata da un efficiente sistema finanziario, guidare l’allocazione delle risorse e fornire gli indirizzi strategici ultimi dello sviluppo economico” [2].

In quegli anni era ritenuta fondamentale la presenza dello Stato in settori strategici come quelli delle fonti di energia, della chimica, dell’industria siderurgica; la nascita delle cosiddette economie miste, ossia con la presenza di imprese pubbliche e private insieme (le prime per garantire uno sviluppo generale e le seconde con regole di profitto), aveva come scopo proprio quello di garantire delle economie di scala condizioni di parità e soprattutto di impedire la nascita di monopoli.

Fino all’inizio degli anni ’90 il nostro Paese aveva partecipazioni statali che interessavano una vasta gamma di servizi infrastrutturali (ferrovie, gas, elettricità, comunicazioni, trasporti, ecc.). Il controllo pubblico era esercitato attraverso le holding pubbliche, gli enti pubblici oppure attraverso le aziende autonome o le aziende speciali. Il Ministero delle Partecipazioni Statali controllava direttamente i tre grandi enti di diritto pubblico - l’IRI, l’ENI e l’Efim.

Negli anni ’80 e nella prima metà degli anni ’90, sulla base dei dati ISTAT relativi ai conti dei settori istituzionali, il settore pubblico aveva raggiunto un peso superiore al 20% in termini di valore aggiunto prodotto, contribuendo per il 38% alla formazione del capitale fisso e per oltre il 20% dell’occupazione complessiva (cfr. Tab. 1).

Ci troviamo davanti a quel capitalismo definito padronale, familiare, dove quattro o cinque famiglie controllano l’economia del Paese nonostante la piccola media impresa abbia forti capacità di esportazione, ma il controllo reale, quello politico ed economico, è in mano direttamente o indirettamente alle grandi, potenti famiglie. Questo modello padronale è stato temperato dalla via italiana all’economia mista, cioè dal ruolo delle partecipazioni statali. Il ruolo dell’impresa pubblica è stato nel nostro Paese, almeno fino ad un certo periodo, estremamente rilevante per il fatto che ha permesso di bloccare l’impostazione monopolistica, di temperare almeno gli eccessi del capitalismo monopolista e inoltre di permettere alcune fasi di sviluppo nel Mezzogiorno. Con questo non si vuole salvare per intero il ruolo e le dinamiche dell’impresa pubblica, in quanto ognuno di noi ha potuto notare l’intreccio perverso fra l’impresa pubblica e il mondo politico e partitocratico. Tangentopoli è stata soltanto una rappresentazione di un sistema di cui da anni tutti conoscevano l’esistenza. Il “fattore K” è stato un fattore determinante per lo sviluppo dell’economia, cioè il blocco democristiano ha portato avanti l’economia pubblica proprio in funzione del controllo dell’eventuale ascesa dei comunisti all’interno del Paese. Dall’altra parte, spesso, i sindacati confederali e lo stesso Partito Comunista hanno accettato tali ricadute del “fattore K” perché, attraverso la mediazione con la politica all’interno di un modello consociativo hanno ottenuto le briciole del sottogoverno contraccambiando con la compressione delle iniziative di lotta del movimento operaio italiano.

Se tali scelte politico-economiche hanno permesso, anche se in maniera altalenante e con seri problemi redistributivi, una significativa crescita senza i forti eccessi monopolistici, in un paese come il nostro caratterizzato da un tipico capitalismo familiare allora è giusto chiedersi: cosa è cambiato oggi e in questi ultimi dieci anni? La globalizzazione, l’internazionalizzazione dei mercati i nuovi meccanismi di comunicazione hanno realmente imposto la totale e sfrenata privatizzazione dei settori pubblici strategici? E con quali risultati?

È importante sottolineare infatti che:

“Le privatizzazioni presentano, tuttavia, alcuni gravi rischi:

a) produrre condizioni di minore concorrenza in alcuni settori, come conseguenza della riduzione del numero delle imprese concorrenti;

b) sostituire a monopoli pubblici monopoli privati;

c) favorire l’ingresso di gruppi a capitale straniero in settori strategici per lo sviluppo del paese, con l’impossibilità di impedire il degrado o il trasferimento delle strutture direzionali e di ricerca in altri paesi, quando le convenienze del gruppo di comando lo richiederanno, con il conseguente depauperamento culturale e professionale dell’area nazionale.

Fino ad oggi il sistema delle partecipazioni statali, pur con i suoi limiti e sprechi, ha consentito al nostro Paese di mantenere una presenza qualificata in settori produttivi di grande importanza per lo sviluppo... ha consentito di presidiare settori strategici per il Paese (difesa, telecomunicazioni, energia)...”  [3].

 

3. Liberalizzare è bello... privatizzare è meglio!

La fase di trasformazione rapporto tra Stato ed economia segue principalmente tre obiettivi: liberalizzazione dei capitali, deregolamentazione del mercato e privatizzazione [4].

In sostanza il processo di privatizzazione che ha caratterizzato l’Italia negli anni ’80 ha privilegiato gli interessi di parte, di alcune istituzioni e grandi famiglie del padronato italiano, invece di conseguire finalità pubbliche, o di allargamento della base azionaria in funzione di ventilati progetti di democrazia economica basati sull’azionariato dei lavoratori e l’azionariato popolare.

Molti politici e studiosi, anche all’interno della sinistra, quando cominciò il processo di privatizzazione in Italia, quando si parlava di pubblic-company, di democrazia economica, erano sicuri che questo processo avrebbe potuto dare un ruolo principale ai lavoratori attraverso l’azionariato diffuso, per cui si poteva allargare la base azionaria e quindi il potere decisionale. Su questo erano stati, però, molto attenti i sindacati extra confederali perché, vivendo la situazione all’interno delle imprese e mantenendo un approccio conflittuale e non consociativo, si rendevano conto che il cosiddetto azionariato da lavoro poteva portare sicuramente alla distruzione di quella unità di lotta che i lavoratori avevano espresso nel nostro Paese negli anni ’60-’70 [5].

L’intento è stato piuttosto quello di favorire grandi gruppi industriali privati con il risultato di condizionare l’economia del Paese, sottoponendola ancor più al dominio delle famiglie-guida del capitalismo nostrano, con scelte solo inizialmente di deregolamentazione e liberalizzazione, per approdare ad uno dei processi di vera e propria privatizzazione fra i più intensi del mondo.

Di fatto molti sono stati gli effetti negativi delle privatizzazioni che stanno portando ad un indebolimento e non ad un rafforzamento del sistema produttivo del nostro Paese, anche in considerazione del fatto che le nostre grandi imprese sono già di numero inferiore a quelle presenti negli altri paesi europei. A ciò vanno aggiunte le ricadute sui lavoratori dei processi di privatizzazione; è infatti chiaro che le garanzie derivanti dall’essere dipendente pubblico, accettando al contempo miseri stipendi vengono a mancare nel momento in cui lo Stato dismette le proprie aziende. Senza parlare dei processi di flessibilità e precarizzazione del lavoro, di esternalizzazione e delle funzioni di subfornitura, allo smantellamento dei diritti sindacali, all’abbassamento degli standards della qualità e di protezione dei rischi per i lavoratori e le conseguenti ricadute sulla qualità del servizio, il mantenimento di salari appena di sopravvivenza; tutto questo è stato “il bello del privato” nel nostro Paese.

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4. Alcuni dati settoriali... per piangere dello smantellamento dell’impresa pubblica

Va ricordato che le privatizzazioni sono state gestite sia direttamente dal Ministero del Tesoro sia da enti pubblici quali l’IRI, l’ENI, l’EFIM, ecc.

In particolare le più importanti operazioni di dismissione sono state attuate su quattro livelli:

1) dal Ministero del Tesoro che ha venduto azioni soprattutto di imprese bancarie e assicurative che deteneva direttamente, oppure ha venduto quote di minoranza degli ex enti industriali;

2) da diversi enti sempre di natura pubblica i quali hanno venduto quote sia di controllo sia minoritarie di imprese finanziarie e industriali;

3) imprese capo-settore controllate da ex enti che hanno ceduto rami aziendali, ecc.;

4) enti di gestione diventati società per azioni che hanno venduto imprese, rami aziendali, ecc.

In particolare l’IRI si interessava di aziende di servizi, bancarie e assicurative, l’ENI di aziende minerarie, petrolchimiche e ingegneristiche, mentre l’EFIM di aziende operanti nei settori dei trasporti e della difesa.

 

4.1 Il settore bancario

L’IRI ha avuto per più di sessanta anni un patrimonio bancario formato da tre banche denominate di interesse nazionale: Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banca di Roma; nel biennio 1993-94 è stato avviato il processo di privatizzazione di due di queste banche (il Credito Italiano e la Banca Commerciale).

A fine 1993 l’IRI aveva più dell’80% del pacchetto azionario del Credito Italiano e nel dicembre 1993 ha dismesso il 64% del capitale azionario trasformando il Credito Italiano in una public companies.

Con la vendita delle azioni del Credito Italiano l’IRI ha avuto entrate pari ad oltre 1.800 miliardi di lire (Cfr. Tab. 2).

Come si è scritto l’IRI possedeva una quota rilevante anche della Banca Commerciale Italiana; nel febbraio 1994 è stata dismessa l’intera quota (circa il 57,4%) e sono state realizzate entrate pari a 2.900 miliardi di lire (cfr. Tab. 3).

 

È interessante analizzare le principali cessioni di partecipazioni dello Stato nel sistema bancario negli anni che vanno dal 1993 al 1999 (Tab. 4).

Nel decennio tra il 1990 e il 2000 ci sono state oltre 500 fusioni tra banche; oggi i cinque gruppi principali di banche controllano quasi la metà del l’intermediazione di credito totale, (nel 1996 la percentuale era del 35%); in questo decennio sono state create 165 banche nuove mentre il numero delle banche estere presenti nel nostro Paese è salito da 40 a 65.

In definitiva nonostante le considerevoli dismissioni statali effettuate dal 1993 al 1999 il nostro sistema bancario è detenuto ancora in larga maggioranza dalle fondazioni. Alla fine del 1999, infatti, la maggioranza relativa delle azioni di ognuno dei cinque gruppi bancari italiani e il capitale dei primi nove gruppi era in mano alle fondazioni; a marzo 1999 oltre il 44% dei primi cinquanta gruppi bancari aveva come socio di maggioranza (per lo meno relativa) una o più fondazioni.

Anche se nel 1998 vi sono stati una serie di incentivi fiscali atti a cedere le proprie partecipazioni azionarie, ciò non è avvenuto. Si ricorda che le fondazioni create nel 1990 con lo status di enti pubblici sono state autorizzate a divenire titolari di un cospicuo numero di azioni di partecipazione bancaria.

Le tabelle seguenti (Tab. 5 [6] e 6 [7]) confermano quanto scritto in precedenza.

Va evidenziato poi che “le fondazioni hanno mantenuto una posizione cruciale nell’azionariato del sistema bancario italiano... tre fra le quattro più grandi fondazioni (ossia Fondazione Cariplo, Compagnia di San Paolo ed Ente Cassa di Risparmio di Roma) detengono ancora oggi (da sole o con altre fondazioni) la posizione di azionisti di maggioranza relativa nel nuovo gruppo bancario scaturito dai processi di concentrazione. Inoltre, l’altra grande fondazione (ossia Monte dei Paschi) mantiene un’ampia maggioranza assoluta nel relativo gruppo bancario; e una posizione analoga è detenuta dalle fondazioni che controllano l’ottavo gruppo bancario per dimensione dell’attivo (l’aggregazione fra CAER e Casse venete, denominata Banca Cardine). Insieme a tre fondazioni minori, le due grandi fondazioni Cassa di risparmio di Verona e CRT sono poi largamente al di sopra della soglia OPA (il 30% del capitale) nel gruppo bancario controllato...” [8].

Questo dimostra che si è trattato soprattutto di un passaggio dallo Stato alle fondazioni. Va considerato, inoltre, che le fondazioni non essendo istituzioni di mercato non sono sottoposte alla disciplina di mercato; inoltre le fondazioni non sono da considerarsi investitori istituzionali in quanto non devono rispondere ad alcun finanziatore o risparmiatore.

Comunque, che fino al 1995 l’Italia rispetto agli altri paesi europei si caratterizzava per un’alta percentuale della proprietà pubblica sulle banche; dal 1997 in poi, invece, si è avuto un adeguamento agli altri paesi europei. (Cfr. Tab. 7) [9].

È importante ricordare che, anche andando oltre il settore bancario, l’IRI negli anni che vanno dal 1992 al 1997 ha effettuato un programma di privatizzazioni di notevoli dimensioni realizzando entrate per oltre 25 mila miliardi di lire. I settori interessati sono stati oltre a quello bancario, anche il settore alimentare (SME), il settore siderurgico (Ilva Laminati Piani e Acciai Speciali Terni), il settore delle telecomunicazioni (STET, TELECOM Italia, SEAT), il settore delle Autostrade, il settore Aerospazio e Difesa (Finmeccanica) il settore degli Aeroporti (Aeroporti di Roma), oltre ad altre privatizzazioni come Fincantieri, Tirrenia, il caso Alitalia e le privatizzazioni finanziarie del gruppo IRI.

Il valore complessivo delle cessioni effettuate negli anni dal 1992 al 2000 è stato di oltre 43, 54 miliardi di euro (ossia 84.314 miliardi di lire).

La Tab. 8 seguente presenta la situazione dell’IRI a dicembre 2000.

4.2. Il settore delle telecomunicazioni

Rientrando nello specifico dell’analisi settoriale si può osservare un settore strategico sottoposto a privatizzazione che è stato quello delle telecomunicazioni. Si ricorda che questo settore in Italia è stato caratterizzato, fino al 1992, dalla presenza di una pluralità di gestori. La gestione delle infrastrutture e i vari servizi di telecomunicazione erano gestiti, infatti, direttamente dallo Stato in regime di monopolio o da altri soggetti economici ai quali era stata data una concessione. In specifico mentre lo Stato gestiva il servizio telefonico nazionale e internazionale con l’Europa e il bacino del Mediterraneo, i servizi svolti in regime di concessione erano affidati a vari enti tra i quali la SIP, l’Italcable, Telespazio e la SIRM.

Nel 1992 la fusione per incorporazione nella SIP della Iritel, Telespazio, SIRM e Italcable ha fatto nascere la società Telecom Italia; in seguito si sono separate le attività radiomobili (luglio 1995) e le attività satellitari (gennaio 1995) attraverso la costituzione di due società la Telecom Italia Mobile e la Nuova Telespazio.

La Telecom Italia ha come attività principali oltre quelle nel settore delle telecomunicazioni anche quelle nel settore dei servizi, della progettazione, installazione, progettazione e manutenzione degli impianti e delle reti di telecomunicazioni, nei settori dell’informatica, dei servizi e applicazioni multimediali e nei servizi innovativi di rete.

Il processo di privatizzazione della Telecom ha avuto la sua massima espressione nell’ottobre 1997 quando il Tesoro ha ceduto il 39, 5% della sua quota di capitale sociale incassando 22.880 mld di lire. Va rilevato però che, a fronte dell’andamento molto favorevole in termini di redditività ciò ha comportato in questi ultimi anni, connessione frequente, anzi necessaria ormai nell’economia del neoliberismo, una flessione nel numero dei dipendenti dovuta al cosiddetto processo di “razionalizzazione delle strutture” oltre a precarizzazione e ad esternalizzazioni.

Dal 1 gennaio 2001 è decaduto il monopolio detenuto dalla Telecom sulle comunicazioni urbane (il settore della telefonia mobile è stato sempre libero in quanto non è mai stato considerato un servizio di pubblica utilità). Infatti il processo di liberalizzazione già avviato, insieme ai livelli di domanda sempre più in crescita, hanno stimolato numerosi nuovi operatori ad affacciarsi ad questo mercato.

“Il gruppo Telecom Italia era l’unico operatore nel comparto della telefonia fissa e di gran lunga il principale nella telefonia mobile. Dopo la privatizzazione esso ha sensibilmente diminuito le sue quote di mercato soprattutto a seguito dell’ingresso di nuovi operatori italiani ed esteri. Nella telefonia mobile la quota di mercato della TIM è passata dal 79% nel 1997 al 60% circa nel 1999, ma in presenza di un numero doppio di abbonati. I concorrenti sono Omnitel Pronto Italia (Gruppo Vodafone) e Wind (Gruppo ENEL) che detenevano a fine 1999 quote pari rispettivamente al 35% e al 5% oltre alla Blu (operativa dal 2000). Per quanto riguarda la telefonia fissa la Telecom Italia è stata fino al 1999 l’unico gestore nel comparto urbano (liberalizzato nel 2000) mentre nell’interurbano e nell’internazionale le quote di mercato si sono ridotte rispettivamente all’85% e al 69%...” [10].

Per internet le tariffe del nostro Paese sono tra le più basse nell’area dei paesi OCSE; pur essendo l’Italia al di sotto della media OCSE per ciò che riguarda gli abbonati ad internet si è avuto negli ultimi anni un considerevole aumento (tra il 1998 e il 1999 si è realizzato un incremento di oltre il 60% degli abbonati).

L’intero settore delle telecomunicazioni, con particolare riferimento alla telefonia mobile, è stato caratterizzato negli ultimi tempi dalla creazione di poli di aggregazione tra i diversi operatori - anche attraverso la costituzione di idonei consorzi - per la partecipazione alla gara che si è svolta recentemente per il rilascio delle licenze per la telefonia mobile di ultima generazione (UMTS).

“Il metodo utilizzato in Italia per assegnare le licenze UMTS è una combinazione unica fra i paesi OCSE di elementi di beauty contest e di asta. Gli operatori interessati sono stati prima sottoposti ad una fase di pre-selezione... Questa fase di pre-selezione non ha dato luogo ad alcun punteggio ma semplicemente ad una attestazione di ammissione alla fase successiva di asta (o ad un attestazione di esclusione). Il 14 gennaio del 2000, era stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale una decisione dell’AGCOM in merito al rilascio di licenze nazionali individuali per il sistema di comunicazioni mobile di terza generazione (UMTS)... La fase di selezione della procedura è stata stabilita come un’asta con successiva decisione dell’AGCOM. Alla prima fase della procedura si sono iscritti otto candidati: i quattro operatori esistenti di telefonia mobile e quattro nuovi entranti. Per la fase successiva di asta si sono qualificati solo sei candidati su otto. L’asta è iniziata il 19 ottobre del 2000 con i sei candidati e si è conclusa dopo 11 tornate il 23 ottobre. Per le cinque licenze il Governo ha incassato 12 miliardi di euro... Il costo finale di ciascuna licenza in Italia è stato ben superiore a quello dei Paesi Bassi e della Spagna ma inferiore a quello della Germania e del Regno Unito” [11]/cap06.htm.

 

4.3. Il settore energetico

Il settore dell’energia elettrica è stato anch’esso soggetto alle operazioni di privatizzazione. Si ricorda che la distribuzione, l’importazione, l’esportazione e la produzione di elettricità erano stati nazionalizzati nel 1962 con la creazione di un organismo pubblico, l’ENEL, che ha detenuto il monopolio fino al 1991 anno in cui l’ENEL è diventata società per azioni.

L’obiettivo principale è stato per lungo tempo quello della copertura totale del territorio e il risparmio energetico; dall’anno 1995 invece, è stato posto come principale scopo del settore il raggiungimento della massima efficienza oltre che la ricerca di un equilibrio tra nord e sud, sia per quanto riguarda il servizio sia per le infrastrutture.

Con il decreto legislativo n. 79/ 99 è stato liberalizzato l’intero settore ed è stato introdotto lo scorporo funzionale del settore, una limitazione al 50% della produzione e importazione da parte di un’unica azienda a partire da gennaio 2003, ecc. Per quanto attiene alle tariffe si ricorda che il principio secondo cui dal 1961 esse erano uniformate in tutto il territorio è ora valido solo per gli utenti vincolati. Le concessioni e autorizzazioni sono rilasciate dal Ministero dell’Industria.

Si ricorda che l’ENEL è stata parzialmente privatizzata pur mantenendo lo Stato il possesso della Golden Share.

Considerando che il costo medio dell’elettricità per le famiglie e per le imprese è più elevato rispetto al costo medio dell’UE e dei paesi OCSE, l’ENEL ha accresciuto la propria efficienza diminuendo il numero degli addetti e, come al solito, facendo aumentare ai lavoratori la propria produttività con intensificazione dei ritmi e con meno attenzione al controllo dei rischi sulla salute e sull’ambiente!

Anche la politica dei prezzi e delle tariffe è stata orientata a non proteggere i ceti meno abbienti; infatti è prevista una graduale riduzione delle”tariffe sociali” che saranno applicate in senso generico solo a chi “ne ha realmente bisogno”!!

Fino a giugno 2000 l’ENEL controllava il 93% della distribuzione dell’energia e il 73% della possibilità di generazione e questo conferma che ancora conserva una posizione di rilevo nell’intero settore; la continuità del servizio però rimane diverso (con forte divario) tra nord e sud del Paese. Per quanto riguarda l’occupazione nel settore va rilevato che nel 1999 si è avuta una diminuzione di occupati pari al 5, 7%; in particolare gli occupati nell’ENEL sono diminuiti del 7, 5%.

Nel settore del Gas naturale nel 1995 con la legge 481 è stata istituita l’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas. L’ENI ha avuto il monopolio del settore fino al 1996, anno in cui, con il decreto legislativo 625/96 è stato eliminato; nel 2000 con il decreto legislativo 164 si è avuta la liberalizzazione del settore del gas.

Questo decreto ha liberalizzato più del 60% della domanda a partire dal 1 gennaio 2001 e dal 2003 anche i privati e le piccole aziende potranno scegliere il proprio fornitore. Infatti dal 2003 non sarà possibile per una singola impresa superare il 50% delle vendite ai consumatori finali né superare il 75% della produzione e delle importazioni totali (è prevista una ulteriore diminuzione del 2% annuo fino ad arrivare al 61% nel 2010).

Per quanto riguarda le tariffe per la distribuzione ai privati (non industrie) queste vengono fissate su una base di un generico concetto di “orientamento ai costi” mentre le tariffe per i settori industriali si stabiliscono in base ad accordi tra operatori e fornitori.

Come avviene per il settore dell’elettricità anche per il gas le tariffe applicate nel nostro Paese sono molto più alte se confrontate con quelle degli altri paesi europei; molto più alti sono anche i costi come si può vedere dalla tab. 9 [12] seguente.

Il settore del gas è capeggiato dall’ENI (attraverso la SNAM); si ricorda che più del 70% del gas naturale del nostro Paese è importato; per la quasi totalità le esportazioni vengono fatte dall’ENI, che, oltre a possedere il 99% delle infrastrutture per lo stoccaggio controlla anche la SNAM che è un’azienda di trasmissione (e possiede il 96% della rete). Per la distribuzione del gas sono presenti molte aziende locali che controllano più del 60 % del mercato; tra di esse vi è l’Italgas. Il prezzo del gas per le famiglie risulta essere più elevato se confrontato con gli standard nazionali.

 

4.4 Il settore assicurativo

Il settore delle Assicurazioni era regolato fino alla metà degli anni ’80 dal CIPE (Comitato Interministeriale per la Pianificazione Economica), dall’ISVAP e dal Ministero dell’Industria. Nel 1994 sono state liberalizzate le tariffe di assicurazione sulla vita e sulle autovetture e i poteri sono stati trasferiti quasi del tutto all’ISVAP (Autorità Autonoma per le Assicurazioni). Questo ente concede l’autorizzazione alle aziende che vogliono aprire consociate in altri paesi europei; non è prevista alcuna restrizione all’uscita o all’entrata.

Si evidenzia che a fronte di una non brillante efficienza del settore i premi sono aumentati, mentre l’occupazione è diminuita dal 1994 al 1998 da 48.523 a 42.609 unità, forte è il livello di precarizzazione del lavoro nel settore e il ricorso a forme di esternalizzazione.

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4.5 Settore Trasporti

Le Ferrovie dello Stato detenevano il monopolio fino al 1992 anno in cui il Ministero del Tesoro ha trasformato le Ferrovie dello Stato in società per azioni.

Nel 2000 si è avuta la separazione tra la società di servizi, la Trenitalia e l’operatore di rete, la FS-Infrastrutture, per i servizi locali lo Stato ha delegato le proprie competenze alle Regioni.

Sempre nel 2000 è stato liberalizzato il trasporto internazionale. Le tariffe applicate sono sottoposte a controllo dal CIPE. Si ricorda che le tariffe praticate sono tra le più basse in Europa e la differenza tra i costi e ricavi viene sovvenzionata attraverso contributi pubblici.

Il nostro Paese è uno dei pochi ad aver liberalizzato tutti le sezioni del servizio ferroviario; il settore è infatti aperto alla concorrenza ed è previsto che entro il 2003 per il trasporto locale dei passeggeri vi saranno gare competitive.

La riforma del settore ha comunque come al solito comportato una riduzione del personale delle FS e una forte compressione dei costi di manutenzione e per la salvaguardia dal rischio salute e ambiente.

Non è un caso che le ferrovie, dopo l’intenso processo di privatizzazione, abbiano espulso decine di migliaia di lavoratori creando nuove forme di disoccupazione, di precariato e di flessibilità e, inoltre, si è riscontrato un aumento degli incidenti a causa della diminuzione delle spese di manutenzione; inoltre sono stati compressi i costi relativi all’impatto ambientale, al rischio e alla sicurezza del lavoro, facendo aumentare notevolmente, anche nelle imprese dell’indotto, il numero di incidenti sul lavoro, portando alla diminuzione della presenza di tutte quelle misure antinquinamento non obbligatorie; il rischio derivante dalle attività produttive è notevolmente aumentato, sia come rischio per il lavoratore sia per l’intera cittadinanza.

Il Trasporto aereo è stato caratterizzato dalla presenza della nostra compagnia di bandiera, l’Alitalia, appartenente in origine quasi interamente all’IRI. Diverse normative europee e nazionali hanno previsto la liberalizzazione del settore a livello europeo. Nel 1995 i concessionari aeroportuali sono stati convertiti in società per azioni.

Per quanto riguarda l’occupazione nel settore si è avuta una diminuzione da 18.828 occupati nel 1992 a 17.871 nel 1997 e tale trend è continuato nel tempo, così come si vanno riducendo i costi di manutenzione.

 

4.6 Servizi pubblici locali

Anche per quanto riguarda i servizi pubblici locali (tra i quali rientrano i trasporti locali, lo smaltimento dei rifiuti, l’istruzione, la viabilità l’erogazione di energia, gas e acqua, gli asili, le mense scolastiche e le biblioteche pubbliche) è stato introdotto recentemente nel nostro Paese un programma di liberalizzazione con l’introduzione dei principi del libero mercato. In questo progetto è previsto che la proprietà delle infrastrutture resta in mano ai Comuni ma la gestione del settore viene attribuita a imprese private attraverso il procedimento della gara pubblica competitiva (in particolare delle modalità di privatizzazione in queste attività di servizio locali fondamentali per la qualità della vita dei cittadini, si dedicherà uno specifico articolo nel prossimo numero di PROTEO).

 

5. Alcuni confronti internazionali... per ridere ! Di chi? Dell’Italia di destra ma soprattutto del centro-sinistra

Negli anni 80 si è incominciato a mettere in discussione il ruolo dell’impresa pubblica, attraverso quei processi di privatizzazione più formali che sostanziali; si è incominciato a parlare in quegli anni della privatizzazione della SME, della Lanerossi, con una logica di vendere per riuscire ad arginare il crescente debito pubblico, per colmare in qualche modo quella che era una deficienza strutturale del modello capitalistico italiano, poiché il debito pubblico proveniva soltanto ed esclusivamente dallo sperpero del denaro pubblico, dalla logica clientelare dell’economia e da una logica assistenzialista che permetteva il voto di scambio e non lo sviluppo del Paese. L’accelerazione vera e propria del processo di privatizzazione non è avvenuto durante i governi democristiani, perché per essi quel modo di far politica economica rientrava quasi in un contesto generale di adesione al modello “vivi e lascia vivere”. L’accelerazione è avvenuta durante il Governo Amato (1990), quello Ciampi e quindi i primi governi tecnici appoggiati dalla sinistra, per poi avere un notevole sviluppo con il governo Dini, con i governi Prodi, D’Alema e di nuovo Amato.

Il 1992 risulta essere l’anno in cui il processo ha inizio nel nostro Paese con i primi processi di vendita di azioni del Credito Italiano e della Nuova Pignone, seguite a breve distanza dalla vendita delle SME.

Nel 1993 si è avuta poi una accelerazione del processo interessando tutto il mondo delle partecipazioni pubbliche; la legge 474 (conosciuta come legge sulle privatizzazioni) ha determinato il calendario di vendita dell’ENEL, della STET, dell’INA, dell’IMI, ecc. È proprio durante i governi di centro-sinistra che nell’arco di otto anni, cioè dal 1992 al 2000 si è avuta la vendita di gran parte delle banche pubbliche e delle industrie statali.

È interessante ora esaminare quali sono state le privatizzazioni delle quote di controllo per settore (cfr. Tab. 10).

Oltre il 33% del ricavo lordo tra il 1993 e il 1999 è stato ottenuto dal settore delle telecomunicazioni, in particolare dalla cessione della TELECOM e dalle privatizzazioni effettuate dalla finanziaria STET. Vi è poi il settore del credito e dell’assicurazione (31, 6%), quello dei trasporti (13, 0%); una parte più bassa di incassi proviene dalla cessione di società operanti nel settore manifatturiero, in particolare nella siderurgia, nell’alimentazione e nell’editoria. L’11, 5% dei ricavi totali deriva, poi, dalla vendita di aziende operanti in vari settori.

“Nel giro di soli otto anni (1992-2000) la gran parte dell’industria di Stato e delle banche pubbliche è stata posta sul mercato. Si tratta, per dimensioni e rapidità, del più ampio processo di privatizzazione mai realizzato in Occidente...” [13].

È interessante, allora fare un confronto con i dati internazionali relativi a privatizzazioni effettuate nei principali paesi industrializzati. Si nota che, secondo le disgregazioni settoriali delle privatizzazioni effettuate, il caso italiano presenta alcuni punti di contatto ma anche molte diversità rispetto a quanto accaduto negli altri paesi OCSE (Cfr. Tab. 11):

Secondo i dati disponibili, di fonte OCSE [14], nel periodo 1990/1998 complessivamente l’ammontare totale del processo di privatizzazione è stato pari circa a 485 miliardi di dollari [15].

Il settore che ha prodotto maggiori incassi è stato quello delle telecomunicazioni; molto importanti sono anche le operazioni effettuate nel settore trasporti, e quelle del settore manifatturiero, che in Italia si sono concentrati nel comparto alimentare, nell’editoria e nella siderurgia. Il peso delle privatizzazioni nel settore finanziario (banche e assicurazioni) a livello OCSE risulta inferiore rispetto a quanto registrato nel nostro Paese, mentre è particolarmente rilevante il dato sui proventi ottenuto nei paesi OCSE dalle privatizzazione delle public utilities diverse dai trasporti e telecomunicazioni. Si sono avuti incassi complessivi per circa 72 miliardi di dollari nel totale dei paesi industrializzati.

L’esame dei dati mostra chiaramente che si è trattato di un processo di dimensioni così vaste da essere annoverato tra i più grandi mai realizzati nell’Occidente. A questo proposito basta ricordare che negli anni che vanno dal 1979 al 1999 l’Italia ha realizzato proventi pari a 122 miliardi di dollari e si colloca nella graduatoria europea al secondo posto (dopo il Regno Unito che ha realizzato 165 miliardi di dollari) e prima della Francia (con 71 miliardi di dollari); seguono poi la Germania (con 63 miliardi di dollari) e la Spagna (con 62 miliardi di dollari).

Se delimitiamo invece l’arco temporale negli anni 1992 al 2000 si nota, allora, dalla tabella 12 [16] che l’Italia risulta essere al primo posto seguita dalla Spagna, dalla Germania, dalla Francia e dal Regno Unito.

Anche la tabella 13 che analizza le entrate realizzate dalle operazioni di privatizzazione negli anni 1990-2000 mostra chiaramente che l’Italia risulta essere il paese che ha realizzato i maggiori incassi; da rilevare che sia Regno Unito che Giappone e Spagna si collocano a una distanza ragguardevole dall’Italia.

Va inoltre sottolineato che:

L’ampia quota di offerte globali ha permesso l’entrata di un gran numero di investitori esteri, soprattutto americani, sulle principali piazze europee. La presenza del capitale estero è stata molto significativa, pari in media a quasi il 25 per cento del capitale delle aziende europee privatizzate, raggiungendo in alcuni casi (durante le opa Olivetti - Telecom, BNP-Paribas-SG e Vodafone -Mannesman) oltre il 50 per cento... L’entità della partecipazione del capitale estero in Italia è stata simile a quella che si è registrata in Francia e nel Regno Unito” [17].

 

6. Ancora sui dati storici...per credere senza illusioni!!

Nel gennaio 1994 il Ministero del Tesoro ha effettuato la prima operazione di vendita con la dismissione del 27, 9% dell’MI incassando oltre 920 milioni di euro; si è avuta poi la vendita della prima quota dell’INA pari al 49, 45% con un incasso di 2, 34 miliardi di euro.

Nel 1995 si è avuta la vendita della seconda quota dell’IMI e dell’INA, seguita a dicembre dalla dismissione della prima tranche dell’ENI con entrate pari a 3, 25 miliardi di euro.

Nel 1996 si è conclusa la cessione della parte rimanente dell’INA e dell’IMI e la seconda vendita di quota dell’ENI.

Nel 1997 il Tesoro ha realizzato attraverso le privatizzazioni un incasso pari a circa 19,6 miliardi di euro con la cessione di quote dell’Istituto San Paolo di Torino, del Banco di Napoli, con la terza tranche dell’ENI, della SEAT, ecc.

Nel 1998 si è avuto in incasso pari a 10, 3 miliardi di euro (20.000 miliardi di lire) con la vendita di azioni dell’ENI (la quarta tranche), della Banca Nazionale del Lavoro.

Nel 1999 l’incasso da dismissioni è stato pari a 18, 6 miliardi di euro (circa 36.000 miliardi di lire), mentre nel 2000 si sono avute entrate pari a 600 milioni di euro (1.100 miliardi di lire).

La Tab. 14 [18]seguente evidenzia gli effetti delle privatizzazioni sulla finanza pubblica fino all’anno 2000, che, come può notarsi, non ha realizzato in tal senso gli obiettivi annunciati e pubblicizzati con grande enfasi.

La Relazione sulle privatizzazioni del giugno 2000 [19] del Ministero del Tesoro informa che il volume complessivo delle cessioni realizzate dal Gruppo IRI dal luglio 1992 al 30 giugno 1999 risulta pari a circa 52.745 miliardi di lire, di cui 37.844 miliardi di lire circa relativo ad operazioni realizzate direttamente dall’IRI S.p.A.

Se si aggiungono i debiti finanziari trasferiti si arriva ad un valore complessivo di circa 71.759 miliardi di lire - di cui circa 53.944 miliardi di lire IRI S.p.A.

Invece il volume complessivo delle cessioni effettuate dal Gruppo ENI dal luglio 1992 al 31 dicembre 1998 è di circa 8.106 miliardi di lire e il valore dei debiti finanziari trasferiti pari a circa 2.527 miliardi di lire. Il valore economico complessivo è stato dicirca 10.633 miliardi di lire.

Nel secondo semestre del 1998 il gruppo IRI ed in particolare le holding settoriali hanno realizzato le seguenti operazioni:

- cessioni di quote di controllo per circa 1.500 miliardi di lire, soprattutto EBPA da parte di Finmeccanica e Italia di Navigazione e Lloyd Triestino da parte di Finmare;

- cessioni di quote di minoranza e di rami d’azienda per più di 110 miliardi di lire, che si riferiscono soprattutto ad operazioni realizzate dal Gruppo Finmeccanica;

- alienazioni di cespiti per circa 140 miliardi di lire riguardanti principalmente smobilizzi effettuati da Iritecnia e Sofinpar.

Le operazioni realizzate nel primo semestre 1999 dal Gruppo IRI hanno mosso risorse finanziarie per un circa 397 miliardi di lire. In particolare le holding settoriali hanno realizzato:

- cessioni di quote di controllo per 83 miliardi di lire, principalmente Grandi Motori Trieste da parte di Fincantieri, e Condotte e Italimpa da parte di Fintecna, oltre a 19 miliardi di lire di debiti trasferiti alle controparti acquirenti;

- cessioni di quote di minoranza e di rami d’azienda per 177 miliardi di lire, sostanzialmente riferibili ad operazioni realizzate dal Gruppo Alitalia;

- alienazioni di cespiti per 118 miliardi di lire riguardanti smobilizzi attuati da Finmeccanica, Iritecna, Finsider e Sofinpar.

Il gruppo Eni ha incassato nel secondo semestre 1998 un importo pari a 277 miliardi di lire (143.058.561 Euro).

La tabella 15 [20]analizza, invece, le partecipazioni ancora detenute dal Ministero dell’Economia al novembre 2001.

“...Tra il 1992 e il 2000 gli smobilizzi di imprese pubbliche, hanno comportato un introito di circa 198 mila miliardi. Queste risorse sono confluite in parte al Tesoro, in parte agli ex-enti di gestione, in parte all’EFIM posto in liquidazione nel 1992 e in parte ad altri enti: Lire 121.741 miliardi per operazioni realizzate direttamente dal Tesoro; Lire 56.051 miliardi (5) per operazioni realizzate dall’IRI dal 1992 al 30 giugno 2000; Lire 6.605 miliardi per operazioni realizzate dall’ENI dal 1992 al 1998; Lire 844 miliardi per operazioni realizzate dall’EFIM; Lire 9.639 miliardi per le principali operazioni realizzate da enti pubblici” [21].

Arrivando al 2001, nel primo trimestre si è avuta la quinta tranche di vendita dell’ENI, con entrate pari a 2,72 miliardi di euro (5.268 miliardi di lire).

La tabella 16 [22] seguente analizza ed evidenzia le entrate totali derivanti dalle privatizzazioni attuate dall’IRI e dal Tesoro negli anni 1992-2001.

Nonostante la grande mole di dismissioni attuate negli anni analizzati, a maggio 2001 sono ancora molte le partecipazioni statali; ad esempio sono ancora pubbliche le Poste Italiane, l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, le Ferrovie dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti; inoltre il Ministero dell’Economia e Finanze ha quote importanti nell’ENEL (oltre il 67%), nell’ENI (circa il 30%), nell’Alitalia (53%), nella Rai (100%), nella Finmeccanica (32,4%).

È interessante evidenziare che gli incassi da dismissioni negli anni 1996-2001 (febbraio) sono stati in totale di quasi 160.000 miliardi di lire (82,5 miliardi di Euro) (Cfr. Tab 17) [23].

Negli anni che vanno dal 1993 al 1997 le privatizzazioni hanno avuto un peso crescente rispetto al PIL per poi evidenziare una flessione nel 1998 e di nuovo un peso consistente nel 1999 come dimostra la tabella 18 [24]sopra.

Il processo che è avvenuto in relazione alla privatizzazione in Italia è stato un processo di finanziarizzazione dell’economia. Il fattore che predomina è l’unità dell’EURO, unità questa basata esclusivamente sulle strategie di finanziarizzazione, sul movimento di capitali speculativi senza dare alcun freno, e non sulle regole dell’economia reale vera e propria. Il raggiungimento dell’abbassamento del rapporto deficit pubblico/PIL che è avvenuto in questi anni, non si è avuto assolutamente grazie alle entrate delle privatizzazioni, ma, al contrario, si è avuto con un processo economico e culturale estremamente più importante e più delicato, vale a dire attaccando il Welfare State, le politiche attive e passive del lavoro, la sanità, la cultura, il finanziamento della ricerca.

Per giungere sinteticamente a delle conclusioni, abbiamo estrapolato quattro o cinque punti chiave che emergono dall’analisi delle privatizzazioni. I processi di privatizzazione nel nostro Paese e in Europa si accelerano nel momento in cui vengono posti come inderogabili i parametri di Maastritch, in quanto in questi parametri esiste un obbligo sostanziale legato al bilancio pubblico dei singoli paesi. L’imperativo di fare cassa implica un falso problema, in quanto non è vero, come afferma Ciampi, che attraverso le privatizzazioni bisogna assorbire liquidità del sistema, bisogna colmare le carenze momentanee deficitarie del bilancio pubblico. Non si può valorizzare queste imprese, cioè spendere del denaro pubblico, come nel caso dell’ENEL che negli ultimi anni è costato alla collettività 300 mila miliardi, e una volta che si è valorizzata l’impresa adesso la si svende.

Comunque è importante sottolineare che “Gli effetti sull’industria delle privatizzazioni hanno comportato in generale un aumento della concentrazione, e quindi - in via di principio - ad una riduzione della concorrenza. Ciò perché solo in un caso si è avuta una divisione tra più soggetti delle imprese cedute. Al contrario, di norma esse sono state integrate nell’organizzazione del gruppo acquirente il cui obiettivo è sempre stato l’aumento della propria dimensione; nel caso di acquirenti con obiettivi di diversificazione, le politiche messe successivamente in atto hanno esse stesse puntato a raggiungere un aumento dimensionale attraverso l’assorbimento di concorrenti. Le imprese privatizzate avevano infatti per lo più una dimensione ridotta rispetto ad un ambito internazionale sempre più globalizzato... In un numero significativo di casi, le privatizzazioni hanno portato alla costituzione di operatori nazionali di dimensione adeguata. Ciò è accaduto sia nelle imprese di scala maggiore (soprattutto, siderurgia - con i Gruppi Riva e Lucchini -, telecomunicazioni - con la Olivetti/Telecom Italia - e ristorazione - con Benetton/Autogrill), sia nei comparti di nicchia (ad esempio: Esaote negli apparecchi medicali, Lonati nelle macchine per calzifici, Orlandi e Radici nel meccanotessile)...” [25].

Un’ultima considerazione che emerge da questa nostra indagine sulle privatizzazioni riguarda il fatto che, laddove le aziende pubbliche vengono privatizzate, non solo avvengono fenomeni di flessibilità, di precarizzazione, di espulsione di manodopera, ma si sostiene che non abbia più senso parlare di difesa di settori strategici di una nazione in un mercato globale. Questa logica ha portato alla distruzione di capitale umano fortemente specializzato all’interno del nostro Paese, perché, laddove si provoca disoccupazione, vanno via quegli operai, quegli impiegati che hanno, attraverso il loro lavoro di anni, raggiunto il maggior livello in termini di ricerca e di specializzazione. Per cui il nostro Paese, non difendendo i settori strategici, vendendo Telecom, ENI, ENEL ha perso un patrimonio umano e di ricerca tecnologica incredibile; in quanto questi aspetti, che venivano fortemente curati nell’impresa pubblica a vantaggio generale oggi vengono perseguiti ad esclusivo vantaggio e interesse dell’impresa privata.

Un altro aspetto evidenziato dall’analisi riguarda, nel processo di privatizzazione in atto, l’introduzione dei capitali esteri. Voglio premettere che noi non siamo per la difesa dell’economia nazionale ad oltranza, non siamo antieuropeisti, ma siamo contro questo tipo di modello di globalizzazione, contro l’Europa dei banchieri e delle imprese e non contro quella dei lavoratori, dell’ambiente e della solidarietà. Avviene che con l’introduzione di questi capitali esteri si aggiunge al fatto che attraverso i piccoli possessi azionari si può detenere tutto il capitale di aziende che hanno fatto la storia economica del nostro Paese, portando complessivamente alla scomparsa di una sana imprenditorialità nazionale, ad un calo dell’occupazione nell’industria dovuto, non soltanto ai processi di ristrutturazione delle imprese private, ma anche a questi processi di privatizzazione dell’impresa pubblica, provocando così in molte aree un vero e proprio processo di deindustrializzazione.

È anche per tali motivi più direttamente economico-produttivi che dietro al processo di privatizzazione noi vediamo soltanto una ragione di ordine politico. È per questo il titolo di questo nostro articolo: Il PRIVATO È POLITICO! La ridefinizione dei modelli capitalistici porta con sé, in momenti in cui c’è debolezza anche da parte delle organizzazioni della sinistra, un attacco frontale verso quelle che erano state le conquiste del movimento operaio e dei lavoratori. Infatti, anche da un punto di vista prettamente economico, abbiamo applicato degli indicatori di efficienza e di efficacia patrimoniali, finanziari ed economici alle varie imprese che sono state privatizzate; ne è risultato che è innanzitutto un falso affermare che questi indicatori, costruiti rapportando le varie voci di costo a quelle dei ricavi, siano notevolmente migliorati in tutti i casi di privatizzazione; inoltre, nei casi in cui sono migliorati effettivamente, questo è dovuto all’innalzamento dei profitti e soprattutto all’abbassamento dei costi di produzione. I costi di produzione che hanno subito un notevole abbassamento riguardano quelli del lavoro; in tutte le imprese privatizzate si è espulsa manodopera, attraverso meccanismi di prepensionamento, attraverso gli incentivi e le forme più o meno occulte di flessibilità, che hanno portato al lavoro autonomo di seconda generazione, ai reparti confino, le esternalizzazioni produttive, che hanno costretto i lavoratori ad uscire dal ciclo produttivo. L’Italia è diventato il paese, in pochi anni, di milioni di partite IVA che sempre più spesso non segnalano nuova imprenditorialità ma corrispondono a gente espulsa dal ciclo produttivo che cerca una qualche forma di reddito o comunque una forma di sopravvivenza. Insieme ai costi del lavoro si sono compressi altri tipi di costo, quali: quelli di manutenzione ordinaria e straordinaria.

L’aumento di efficienza raggiunto dalle imprese privatizzate è dovuto, dunque, alla contrazione di quei costi di quelle spese che, invece, dovevano essere ritenute intoccabili; infatti, in un programma di industrializzazione avanzato, in un progetto di sviluppo serio di un paese, in cui non prevalgono gli investimenti finanziari ma quelli produttivi, dovrebbe aumentare l’occupazione e gli investimenti per la salvaguardia ambientale, sociale e della salute dei cittadini.

Per la bibliografia essenziale si faccia riferimento alle note nel testo.


[1] Vedi PROTEO 1 e 2/98

[2] Cfr. G. Foresti, M. Malgarini, “Privatizzazioni e liberalizzazioni dei mercati: un confronto tra l’esperienza italiana e quella dei principali paesi europei” in Quaderni Agens, Roma, Maggio 2001 pag. 11.

[3] Affinito M., De Cecco M., Dringoli A., “Le privatizzazioni nell’industria manifatturiera italiana”, Donzelli editore, Roma, 2000, pag.3.

[4] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia 1992-2000”, Edindustria, Roma novembre 2001.

[5] Le public companies sono molto presenti nell’economia statunitense sotto forma di SpA quotate in Borsa a proprietà diffusa, quindi ad azionariato diffuso senza uno specifico gruppo di controllo. Spesso il controllo è esercitato dai managers e gli investimenti sono tutelati da una presenza istituzionale che detenendo azioni di privilegio, pilota le strategie di sviluppo. In tal modo si può indirizzare il pubblico risparmio verso forme di azionariato popolare e favorire l’azionariato da lavoro attraverso l’assegnazione gratuita e l’acquisto di azioni da parte dei dipendenti. Si può così promuovere la realizzazione di una certa forma di democrazia economica nel nostro Paese, contribuendo alla realizzazione delle Public Companies che potrebbe essere legata al “processo di privatizzazione” in atto. Vedi PROTEO 1 e 2/98.

[6] U. Inzerillo, M. Messori, “Le privatizzazioni bancarie in Italia”, Centro Studi Confindustria, Novembre 2000, pag. 59.

[7] U. Inzerillo, M. Messori, “Le privatizzazioni bancarie...”. op. cit. pag. 60.

[8] U. Inzerillo, M. Messori, “Le privatizzazioni bancarie...”. op. cit. pag. 35, 36.

[9] Cfr. S. De Nardis (a cura di) “Le privatizzazioni italiane”, Il Mulino, 2000, pag. 129.

[10] R&S, “Le privatizzazioni in Italia dal 1992”, op. cit, pag. 99-100.

[11] Cfr. www.agcom.it/oecd

[12] Cfr. www.agcom.it/oecd/cap05.htm <http://www.agcom.it/oecd/cap05.htm>

[13] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni...”, op. cit. pag. 40.

[14] Cfr. “Financial Market Trends”, n. 72, febbraio ’99.

[15] Comprese le privatizzazioni italiane, che ammontano da sole a circa 65 miliardi di dollari.

[16] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia...”, op. cit., pag. 41.

[17] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia 1992...”, op. cit., pag. 41.

[18] Cfr. Il Sole 24ore, 28.09.2001.

[19] Cfr. “Relazione sulle privatizzazioni del Ministero del Tesoro”, giugno 2000.

[20] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia...”, op. cit., pag. 47.

[21] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia...”, op. cit. pag. 25.

[22] Cfr. IRI, “Le privatizzazioni in Italia...”, op. cit., pag. 51.

[23] Cfr. Libro Bianco sulle operazioni..., op. cit., pag. 20.

[24] Cfr. Libro Bianco sulle operazioni..., op. cit., pag. 23.

[25] Cfr. “Le privatizzazioni in Italia dal 1992”, R&S - Ricerche & Studi S.pA., Milano, pag. 14.