Brevi cenni storici sul diritto del lavoro e delle rappresentanze sindacali nell’Italia repubblicana

Arturo Salerni

1. Lo Statuto dei Lavoratori ha rappresentato il punto di snodo fondamentale nella storia della conquista dei diritti sindacali e del lavoro nel nostro Paese.

Ciò non significa che nel maggio del 1970 si determina il punto più alto sul terreno complessivo del recepimento legislativo delle istanze provenienti dal mondo del lavoro e dalle sue rappresentanze sindacali; ma certamente si può affermare che con lo Statuto (la legge 300) si determina in modo organico e complessivo una regolazione dei diritti del lavoratore - anzi del cittadino/lavoratore - nel luogo in cui egli presta la propria attività, quantomeno sotto il profilo della tutela della propria dignità e della sua possibilità di svolgere la propria azione sindacale. Dopo il 1970 altre conquiste, per lo meno nel quinquennio successivo, continueranno a determinarsi, sulla spinta della grande crescita politico/sindacale degli anni sessanta e della grande stagione di lotta del biennio rosso 1968/69 e dei primi anni settanta.

Sul finire degli anni settanta, e qui la storia sfocia nella cronaca, una serie di istituti di tutela e garanzia del lavoro viene progressivamente smantellata, nell’ambito di una poderosa trasformazione del quadro economico/sociale, delle forme della produzione e sotto il peso incalzante di un attacco padronale senza soluzioni di continuità, di uno scenario politico segnato da forti elementi involutivi, di una sostanziale modifica dell’azione delle grandi centrali sindacali che accompagnano - piuttosto che contrastarle efficacemente - queste dinamiche perverse.

2. E’ evidente però che, se non si può non collocare sotto il profilo storico/politico la creazione dello Statuto dei Lavoratori nel fuoco della grande stagione che si sviluppa a cavallo degli anni sessanta e settanta, bisogna aver presente che lo Statuto è anche la traduzione sul piano della legislazione ordinaria dei principi contenuti nella nostra carta costituzionale.

Nel 1948 - ovvero nel momento in cui con il concorso delle forze politiche rappresentative del movimento operaio, di quelle di ispirazione cattolica e del pensiero di matrice repubblicana è varata la Costituzione repubblicana - viene data la massima dignità e rilevanza ad alcuni istituti essenziali di garanzia e di tutela del mondo del lavoro, a partire dalle indicazioni intese alla complessiva emancipazione della classe lavoratrice contenute nella parte dedicata ai principi fondamentali (la solenne affermazione di cui al primo comma dell’art. 1 - “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”, - il capoverso dell’art. 3 - per cui “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” - ed il primo comma dell’art. 4, secondo il quale “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”).

Gran parte del titolo III della prima parte della Costituzione, dedicato ai “rapporti economici”, prende in esame i diritti dei lavoratori e delle formazioni sindacali: il diritto alla formazione ed all’elevazione professionale, il diritto del lavoratore “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità” del lavoro prestato e “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”, la previsione di una durata massima della giornata lavorativa, il diritto alle ferie ed al riposo settimanale, la parità di diritti della donna lavoratrice, la tutela delle lavoratrici madri, la tutela del lavoro minorile, il diritto alla previdenza ed all’assistenza, il diritto all’inserimento lavorativo dei disabili, la libertà dell’organizzazione sindacale, il riconoscimento dell’efficacia della contrattazione collettiva, il diritto di sciopero, i limiti posti alla libertà dell’iniziativa economica privata.

 

3. La traduzione dei diritti e delle previsioni costituzionali si realizza attraverso un percorso di grandi mobilitazioni del movimento operaio e dei lavoratori e la loro fissazione nella legislazione ordinaria. L’elemento fondamentale che contraddistingue questo percorso è quello della determinazione di regole intorno al modello del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e di in particolare intorno al concetto di tutela della stabilità del rapporto di lavoro, nella piena consapevolezza che l’incisività delle conquiste normative e salariali (fissate dalla contrattazione collettiva) non possa essere disgiunta dalla difesa del posto di lavoro, ovvero dalla tutela rispetto alla possibilità per il datore di lavoro di interrompere il rapporto. La stessa minaccia della possibilità di risoluzione del rapporto costituiva (e costituisce) una riduzione delle possibilità di mobilitazione collettiva dei lavoratori. E’ su questo crinale - nella consapevolezza del nesso inscindibile della tutela dei diritti dei singoli lavoratori e della difesa delle condizioni per la loro mobilitazione e quindi per la conquista di migliori condizioni per l’insieme della classe lavoratrice - che ha trovato particolare e significativo sviluppo la legislazione in materia di lavoro; dal divieto di interposizione nel collocamento della manodopera introdotto nel 1960, alla disciplina del lavoro a tempo determinato (dei suoi limiti e del suo carattere di assoluta eccezione) previsto dalla legge 230 del 1962, alla disciplina dei licenziamenti varata nel 1966 sino alla previsione della reintegrazione dei lavoratori ingiustamente licenziati in presenza di un determinato requisito dimensionale dell’impresa contenuto nell’art.18 della legge n.300 del 1970 e della nullità di qualunque atto o patto (quindi anche del licenziamento) diretto a discriminare un lavatore in ragione della sua fede politica o della sua collocazione sindacale prevista dall’art.15 dello Statuto dei Lavoratori.

La cosiddetta rigidità in uscita - la quale comporta che il lavoratore non possa essere licenziato senza giusta causa e/o giustificato motivo e che nell’ipotesi in cui si verifichi un licenziamento ingiustificato il lavoratore abbia diritto alla reintegrazione - si accompagnava peraltro alla previsione, esistente sin dal dopoguerra, della chiamata numerica presso gli uffici di collocamento, ovvero alla cosiddetta rigidità in entrata e quindi alla limitazione della discrezionalità datoriale in ordine alla scelta delle persone da avviare al lavoro.

Si trattava di un meccanismo - conquistato attraverso dure lotte e faticosi passaggi legislativi - teso alla salvaguardia complessiva delle forme di organizzazione dei lavoratori e delle loro garanzie all’interno dei posti di lavoro: non pacchi postali da spedire chissà dove e chissà quando a totale discrezione dell’imprenditore, ma soggetti dotati di dignità e di diritti.

L’ingresso per successive stratificazioni dei diritti del lavoro e delle garanzie dei lavoratori nell’ambito del nostro ordinamento giuridico - ed anche questo fa parte della storia del conflitto sociale del nostro Paese negli ultimi cinquant’anni - ha significato l’entrata in campo della figura del magistrato del lavoro, specie a seguito della riforma del processo del lavoro avvenuta nel 1973. Il riconoscimento in via legislativa di nuovi e significativi diritti per i lavoratori si traduce nella richiesta di tutela giurisdizionale, e per questa via si determina una serie di pronunzie giudiziali innovative che a loro volta - insieme ai mutamenti per via legislativa ed alle previsioni contrattuali - incidono profondamente nella realtà dei luoghi di lavoro e nel rapporto tra datore di lavoro e prestatore d’opera.

 

4. Intrecciata alla vicenda della legislazione del lavoro e della sua evoluzione ed al tempo stesso collocata quale elemento di genesi e di spinta sulla strada dell’affermazione dei diritti sindacali è la storia - tormentata e complessa - degli istituti di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro.

Anche con riferimento alla specifica questione dello strutturarsi delle forme di rappresentanza sindacale e del loro riconoscimento da parte dell’ordinamento i due passaggi significativi di evoluzione in senso democratico ed avanzato del sistema possono essere collocati nel periodo costituente ed all’inizio degli anni settanta.

Le Commissioni Interne appaiono storicamente come i primi organismi diretti a garantire rappresentanza e tutela dei dipendenti sul posto di lavoro. [1] Esse nascono come organismi occasionali in seguito alla prime estese agitazioni sindacali nel nostro Paese e ricevono il primo riconoscimento nel contratto collettivo Fiom-Itala del 1906, ed intorno ad esse si sviluppa la battaglia tra coloro che sostengono che le stesse debbano essere espressione del sindacato oppure organismi eletti da tutti i dipendenti, compresi i non iscritti al sindacato. Tale polemica si ripropone tra gli avversari ed i sostenitori del movimento torinese dei Consigli di Fabbrica, movimento in cui un posto di rilievo è occupato da Antonio Gramsci. Il movimento tendeva al superamento delle Commissioni Interne ed alla sua sostituzione con il consiglio di fabbrica, che si caratterizzava per la natura rivoluzionaria dei suoi obiettivi e per il suo essere distinto dal sindacato. Commissioni Interne e Consigli di Fabbrica assumeranno rilievo e protagonismo del biennio rosso 1919-1920, che culminerà nell’occupazione delle fabbriche.

La vicenda delle Commissioni Interne si blocca evidentemente con il regime fascista e con la esplicita abrogazione delle stesse a seguito dell’entrata in vigore dell’ordinamento corporativo e riprende il suo corso con l’accordo Buozzi-Mazzini tra Cgil e Confindustria nel 1943. Negli anni a venire l’istituto delle commissioni interne viene disciplinato da tre accordi interconfederali nel 1947, nel 1953 e nel 1966. Mai si perviene nel corso della storia di questo organismo al suo riconoscimento per via legislativa, ed esso finirà per essere congelato negli anni settanta (e mai più riesumato in seguito). La Commissione Interna era costituita nelle unità produttive con più di quaranta dipendenti, come organismo unitario composto da operai ed impiegati eletti separatamente in rappresentanza delle rispettive categorie, con sistema elettorale proporzionale.

Sta di fatto che, rispetto ai poteri conferiti alle Commissioni iInterne dall’accordo Buozzi-Mazzini del 1943, con i successivi accordi interconfederali le prerogative dell’organismo vanno progressivamente a scemare, e già nel 1947 scompare - quantomeno sotto il profilo formale - il potere di sottoscrivere contratti integrativi aziendali, con la conseguente riserva alle organizzazioni sindacali della disciplina collettiva dei rapporti di lavoro e delle relative controversie, mantenendo l’organismo compiti di vigilanza (sul rispetto dei contratti e delle leggi), conciliativi e consultivi.

Negli accordi sindacali che accompagnano la vita delle Commissioni Interne, le quali sopravvivono alla scissione della CGdL del 1948 ed alla nascita di CGIL, CISL e UIL, sono previste norme a tutela dai trasferimenti e dai licenziamenti nei confronti dei membri delle Commissioni.

 

5. Nell’ambito dello Statuto dei Lavoratori, ovvero a seguito dell’autunno caldo del 1969, la previsione della strutturazione sindacale aziendale fa ingresso - a differenza di quanto si era verificato nella situazione precedente tutta incentrata sulla regolamentazione contenuta nella contrattazione collettiva - nella legislazione ordinaria, garanzie e tutele nei confronti della struttura sindacale e dei suoi dirigenti e componenti vengono previste direttamente dalla legge.

Ed infatti lo Statuto (significativamente titolato “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”) contiene un titolo secondo dedicato alla libertà sindacale ed un titolo terzo relativo all’attività sindacale.

Nel titolo secondo si prevede il diritto di associazione e di attività sindacale, la nullità degli atti discriminatori [2], il divieto di trattamenti economici di maggior favore motivati da finalità di discriminazione, il “divieto ai datori di lavoro ed alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”  [3], ed infine la norma sulla reintegrazione nel posto di lavoro, contenuta nell’art.18.

Le vicende intorno alla vexata questio dell’art.18 sono cronache di questi giorni, con da un lato la proposta referendaria mirante alla sua estensione a tutti i posti di lavoro (oltre i limiti dimensionali previsti dalla norma) e dall’altro la proposta governativa, collegata all’accordo siglato con Confindustria e C.I.S.L. e U.I.L., di sospensione dell’efficacia della norma per un periodo di tre anni con riguardo alle aziende che passano da un numero inferiore a sedici dipendenti ad una soglia superiore.

Il dibattito e le posizioni intorno alla portata ed al significato dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori sono senz’altro ampiamente conosciute dai lettori della rivista: va rammentato che nel maggio del 2000 il referendum mirante all’abrogazione di questa disposizione fu boicottato dal corpo elettorale, anche grazie alla mobilitazione del sindacalismo di base [4].

E’ evidente però che nel sistema complessivo disegnato dallo Statuto, e dalla legislazione lavoristica che lo precede, la disposizione di cui all’art.18 costituisce un momento centrale, essendo evidente che la tutela piena ed effettiva - e non meramente risarcitoria - del lavoratore ingiustificatamente licenziato costituisce la base stessa per poter azionare una significativa azione sindacale e per una complessiva possibilità del singolo dipendente di non veder sacrificati i propri diritti e di esigerne e rivendicarne l’attuazione ed il rispetto.

 

6. Anche sulle questioni relative al titolo terzo dello Statuto dei Lavoratori si è avuto ampiamente modo di discutere all’interno del dibattito sindacale e politico, ed in particolare con riferimento alla portata ed alle carenze della disposizione contenuta nell’art.19, che potremmo ben definire la norma centrale della parte della legge 300 dedicata all’attività sindacale. Nell’ambito dell’art.19 - modificato a seguito del referendum parzialmente abrogativo del giugno 1995 - si individuano i soggetti (le rappresentanze sindacali aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva [5]) titolari del diritto di indire le assemblee nell’ambito dell’unità produttiva, di promuovere referendum su materie inerenti all’attività sindacale, di fruire dei permessi sindacali, “di affiggere su appositi spazi, che il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva” [6] , di disporre di locali “per l’esercizio delle loro funzioni” [7]. Inoltre viene previsto dall’art.22 che il trasferimento dei dirigenti della rappresentanza sindacale aziendale può essere disposto solo “previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza”.

La previsione di uno speciale procedimento giudiziale per la repressione della condotta datoriale antisindacale costituisce la creazione di uno strumento efficace e penetrante - e tendenzialmente tempestivo - di tutela sul piano giudiziale dei diritti e delle garanzie dell’azione sindacale.

 

7. La parabola discendente della tutela normativa del diritto del lavoro (non tanto con riferimento ai diritti sindacali quanto riguardo alle molteplici forme in cui si manifesta il lavoro eterodiretto) ha inizio a partire dalla metà degli anni ’70, sotto la duplice spinta delle grandi ristrutturazioni industriali con le connesse e conseguenti massicce riduzioni del personale e del vasto processo di decentramento produttivo, che mirava a rendere più flessibile il processo lavorativo e soprattutto a spezzare le grandi concentrazioni operaie e la grande forza contrattuale raggiunta nelle grandi fabbriche dal movimento dei lavoratori.

Il mito della flessibilità ha invaso sempre di più il dibattito politico e sindacale, sino a diventare un vero e proprio luogo comune. La flessibilità (in entrata ed in uscita) ha significato ricattabilità del singolo e divisione tra le diverse categorie dei lavoratori. Dalla diversificazione salariale, alla diversificazione delle tipologie contrattuali nell’ambito del lavoro dipendente ed alla crescita di un’area sempre più vasta di lavoratori formalmente autonomi ma sostanzialmente più deboli e sfruttati degli altri.

Gli anni ottanta e gli anni novanta sono accompagnati da questa spinta all’erosione delle faticose conquiste ottenute nei decenni precedenti: dalla introduzione dei contratti di formazione e lavoro nel 1984, all’estensione delle tipologie del lavoro a tempo determinato accompagnata dall’introduzione generalizzata dell’avviamento al lavoro per chiamata nominativa nel 1987, sino al pacchetto Treu - che introduce il lavoro interinale, ovvero una nuova forma di caporalato - nel 1997 ed alle nuove disposizioni del settembre 2001 in tema di rapporti di lavoro a termine.

Ed oggi le proposte contenute nel Libro Bianco del Ministro del Welfare prospettano uno scenario di liberalizzazione senza confini e di regolamentazione dei rapporti di lavoro, a partire dal tentativo di sganciare, nella determinazione dei soggetti del rapporto di lavoro, il datore dal dipendente e di introdurre in maniera generalizzata tra le due parti del rapporto la presenza di un terzo soggetto che agisce da intermediario. Il tutto avviene in presenza di una moltitudine di lavoratori a vario titolo “atipici”, ovvero non certamente classificabili come piccoli imprenditori o lavoratori autonomi, ma soggetti per i quali non viene più utilizzato il classico schema della subordinazione e rispetto ai quali non sono ritenuti applicabili gli istituti normativi e contrattuali che sono tipici del lavoro subordinato.

Un mondo del lavoro sempre più disgregato, a cui si contrappone un padronato sempre più potente, in uno scenario che vede sempre più contrarsi la presenza della sfera pubblica che costituiva in ogni caso un fattore significativo di regolazione e di controllo.

La battaglia del movimento sindacale dei lavoratori oggi non può che collocarsi - senza reticenze ed ambiguità ed attraverso una lettura radicalmente critica dei comportamenti tenuti anche nel passato più recente - sul terreno della estensione a tutti i lavoratori della concreta possibilità di tutela della stabilità del posto di lavoro e con essa dell’effettiva affermazione dei diritti già introdotti nel nostro sistema legislativo, per evitare che il proseguire della frammentazione eroda con crescente rapidità gli ultimi baluardi.

Ripercorrere le vicende, gli obiettivi, le concrete vicende dell’organizzazione sindacale dei lavoratori - in relazione a tale obiettivo - non sarà quindi un esercizio di memoria (per quanto sempre utile) ma la ricerca delle strategie intese alla determinazione di un assetto tale da permettere la ripresa della pratica della progressiva conquista di posizioni e di condizioni materiali migliori. In modo così da spezzare la spirale perversa della progressiva dispersione delle forze, che rischia di portare la situazione complessiva della classe lavoratrice a livelli qualche anno fa neanche immaginabili.


[1] Per una analisi approfondita dell’evoluzione storica degli istituti di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro si veda il paragrafo 1) dell’articolo a cura di Arturo Salerni e Maria Rosaria Damizia “Intorno alla rappresentanza sindacale: diversi profili per un approfondimento”, pubblicato su Proteo n.2/98, pagg.55/60, che utilizza una scheda a cura di Laura de Rose.

[2] Recita l’art.15: “è nullo qualsiasi patto o atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso”.

[3] Trattasi dell’art.17, che reca in rubrica “Sindacati di comodo”

[4] Si veda sul punto in Proteo n.1 del 2000 “Il lavoro, le regole, i diritti, i referendum” di Arturo Salerni e Laura de Rose, pag.50.

[5] Prima del referendum la norma prevedeva che le rappresentanze sindacali aziendali potessero essere costituite anche nell’ambito “delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

[6] Art.25 della legge 20.5.1970, n.300.

[7] Art.27, primo comma, legge 20.5.1970, n.300.