La cultura del lavoro a Cuba di fronte al perfezionamento d’impresa

José Luis Martín Romero

1. Introduzione

Credetemi, solamente un senso di impellente necessità mi fa tentare, in una volta sola, di dare una caratterizzazione al contesto lavorativo cubano, o per meglio dire, un primo approccio dei tratti e delle contraddizioni che denotano il contenuto dei processi sociali nella sfera lavorativa cubana in questo momento di cambiamenti cruciali per le imprese e per i lavoratori del nostro paese.

Noi sociologi ci siamo convertiti, in questo secolo che se ne va, (il nostro primo e forse unico secolo come corpo docente), in una sorta di cronisti del presente dinamico, narratori improvvisati dei cento anni più veloci e pieni di avvenimenti dell’avvenire umano. Svolgiamo una mansione terribile anche se appassionante, e sebbene talvolta raggiungiamo, come avrebbe detto Bloch “... una fibra profonda ...”, altre volte -e seguito con Bloch “... per un uomo niente è più difficile che esprimere un giudizio su se stesso.” (__, 1971).

Quando noi cubani diamo un giudizio su noi stessi lo facciamo con un bagaglio di quattro decenni di impetuose e attive trasformazioni, che sicuramente non passeranno inavvertite in qualunque Storia dell’America Latina nella seconda metà del secolo XX. Corriamo i rischi inevitabili del soggettivismo o la passione del protagonista che recita (e viceversa), soffriamo la mancanza dei dati -o l’inesperienza nel trovarli- e inoltre, la dinamica di fine secolo ci ha premiato con un ritmo in cui gli avvenimenti di domani possono stravolgere le interpretazioni di oggi. Forse sta qui la nuda causa, sebbene non giustificata, della scarsità di sistematizzazione e della teoria nella sì abbondante produzione sociologica cubana.

Cosa voglio di più se non correre il rischio di tentarlo qui nell’ambito che concerne il mondo del lavoro! Purtroppo ci mancano alcuni elementi fondamentali e discussioni e interscambi inevitabili. Comunque sia, è giusto che lo facciamo in quel piano dove possiamo avanzare, mi propongo questo: dare la mia opinione sull’ottica di riferimento che circonda la messa in pratica del Perfezionamento d’Impresa nella realtà cubana, dare elementi utili per un dibattito più che necessario, nel contesto in cui si produce questa formidabile trasformazione e le provocazioni che impone quello stesso contesto al Perfezionamento. È qui che si radica la necessità impellente di cui parlavo prima.

Succede inoltre che il Perfezionamento d’Impresa (PE), espressione del desiderio attuale del socialismo cubano per il suo modello di sviluppo economico, è anche ed inevitabilmente il terreno di nuove configurazioni sociologiche e psicologiche che vengono a scontrarsi e a volte ne sono il risultato di quello che è e sarà il lavoro a Cuba, ma è anche l’arena del confronto politico sul tema del modello della società che viene sostenuto e del modello di uomo e donna lavoratori che viene rinforzato. È questo inoltre, il dibattito culturale che interessa l’identità come una daga e porta alla luce ciò che siamo e pretendiamo essere: la nostra cultura del lavoro. In fin dei conti l’essere umano è, su tutte le cose, ciò che fa, ciò che lascia di sé per gli altri... è un animale culturale.

Come si vede, sto partendo da una definizione ampia di cultura [1] e, non solo incorporando il lavoro in essa, ma assumendo quella stessa visione nel contesto specifico dell’attività lavorativa per concepire ciò che possiamo comprendere come nostra cultura del lavoro.

Il mio testo cercherà di rispondere, anche se solo parzialmente, alla domanda: come si influenzeranno reciprocamente la cultura del lavoro che scaturisce dall’attuale contesto lavorativo del nostro paese e il processo di Perfezionamento d’Impresa in cui si vanno inserendo le imprese cubane?

Tale risposta verrà movimentata dalle idee che siamo andati formando nel nostro gruppo di lavoro sul PE al tepore dell’esperienza di quasi 15 anni di stretto vincolo con il mezzo lavorativo. Non voglio con questo dare la responsabilità anche al resto dei miei compagni [2] con le mie opinioni, ma riconoscere loro il ruolo di co-autori nella visione che trasmetto sul lavoro a Cuba e partendo dalla quale ho formato le mie deduzioni.

Per ultimo una premessa: ho concepito il testo come una presentazione delle tesi di base per una seguente discussione; cercherò perciò di essere parsimonioso nelle argomentazioni.

2. Chi siamo nel lavoro? Il contesto lavorativo cubano di fine secolo e gli impatti sulla cultura del lavoro

Per comprendere ciò che succede a Cuba nella sfera del lavoro bisogna considerare per lo meno l’evoluzione o l’emergenza, a seconda dei casi, di tre processi basici:

a) Il riorientamento degli spazi di inserimento dell’economia cubana e la dinamica negli anni ’90.

b) Il riaggiustamento della strategia di sviluppo e la multispazialità economica risultante.

c) La configurazione in movimento di una nuova soggettività lavorativa.

Medio evo della globalizzazione

Malgrado Internet continuo a credere che l’avvenimento globalizzatore di più forte impatto di quest’epoca è ancora la conquista dell’America. Curiosamente il primo “paese” -se ci è permessa questa licenza geostorica- che ha conosciuto Colombo è stata Cuba, luogo che ha mantenuto come un’ammonizione il suo nome aborigeno malgrado diversi battesimi e confusioni. Così il mondo ha conosciuto Cuba: proprio quando hanno iniziato a “globalizzarci”

La continuità di quel processo ha avuto, comunque, il suo periodo più trascendentale dopo un po’ di tempo, tra il XVIII e il XIX secolo, con il modello di sviluppo dipendente che aveva attuato la “burocrazia” creola come un progetto autonomo -sebbene non nazionale- della borghesia schiavista, che, parallelamente al suo processo di autoconformazione classista aveva saputo comprare la burocrazia spagnola e riuscì ad inserire l’economia del paese sul mercato mondiale capitalista che andava già guadagnando quel carattere, secondo Manuel Moreno Fraginals “... la crescita dello zuccherificio coloniale cubano non ha avuto la sua origine nella metropoli, ma venne effettuata a causa di questa [...] nasce nelle viscere cubane...” (Moreno 1978).

Lo zucchero è stato, a partire da lì e fino a poco fa, il veicolo di inserimento fondamentale, solamente nell’epoca attuale il suo primato sarebbe venuto ad indebolirsi a causa del turismo, che si è convertito nell’elemento che può ridare vigore all’economia cubana e nella fonte di finanziamento per nuovi e vari investimenti, con la fortunata compagnia di un importante accumulo di capitale umano [3].

L’inserimento neocoloniale, sebbene imposto dagli USA, è stato anche co-auspicato dalla borghesia nativa ex schiavista, la quale dalla sua formazione esisteva a causa e per la dipendenza. La rottura rivoluzionaria con quel modello di inserimento polarizzatore della ricchezza e inginocchiato in materia di sovranità ha implicato un importante riaggiustamento: l’iscrizione in un processo globalizzatore alternativo a quello del capitalismo, quello del sistema socialista che era scaturito dalla seconda guerra mondiale, dopo la sconfitta del fascismo. L’alternativa eletta sorgeva dalla necessità di orientare lo sviluppo verso gli interessi popolari e nazionali, sebbene ancora non si disponesse di un veicolo diverso dallo zucchero.

Lo zucchero venne considerato allora “l’unico settore economico capace di garantire il finanziamento esterno al paese”, mirando a “eliminare le sproporzioni [...] e promuovere lo sviluppo industriale e infrastrutturale”... (Rodriguez, 1984).

Ovviamente quel modello di inserimento si basava, primo sull’esistenza e dopo sull’appartenenza a quel “Il mondo” con le sue strategie, alla lunga frustrate, di globalizzazione solitaria. Allo sparire, Cuba ha visto sfumare lo spazio dove concentrava l’85% dell’attività economica import ed export e anche come venivano alla luce tutti i rischi della rotta eletta, inevitabili oltre tutto, di fronte alla sempreterna guerra economica degli USA. In pochi anni la nostra capacità di acquisto si è ridotta del 70% e il PIL quasi del 35%.

Iniziamo a vivere, una volta ancora, la crisi del modello di inserimento. Il coloniale aveva fallito per l’incompatibilità con il progetto nazionale; non è una casualità che fosse anche questa la causa del fallimento del modello di inserimento neocoloniale, posto che si differenziava appena dal precedente nel suo orientamento classista e nel suo funzionamento (mono esportatore, mono produttore). Ora scompariva il destino dell’inserimento senza che nessuno avesse superato del tutto né la dipendenza né il sottosviluppo. La differenza in quest’ultimo caso è che se prima il risultato essenziale era stato uno “sviluppo del sottosviluppo” ora i progressi materiali e spirituali raggiunti erano disposti nella forma di distribuzione coscientemente orientata a beneficio della maggioranza e avevano rafforzato sensibilmente il progetto di nazione cubana con un programma sociale che avrebbe avuto un buon risultato e un processo di investimento in ambito materiale e in ambito umano che definiva basi importanti per l’indipendenza economica. Ma restava chiara l’insostenibilità dei modelli di inserimento dipendente e la necessità di trovare strategie di più alta capacità di autoregolazione mettendo in gioco le nostre nuove fortezze e ponendole di fronte alle nostre vecchie debolezze.

Due argomenti cruciali, angustianti e difficili, hanno dovuto intraprendere una feroce battaglia contro il tempo lungo questi anni ’90: una trasformazione virtuosa della nostra cultura del lavoro e una resistenza efficace all’ostilità imperialista degli USA.

Mi riferirò brevemente alla seconda; non si può ovviare ma non è neanche il centro di attenzione di questo articolo, ciò che invece accade con la prima, come si vedrà.

È risaputo che il riaggiustamento degli anni’90 è stato attuato in speciali condizioni di guerra economica con la potenza trionfatrice della “guerra fredda”, così il blocco, sempre dannoso, è stato rapidamente rafforzato da nuove leggi imperialiste e si è sentito con tutto il suo rigore di fronte all’assenza di passaggi alternativi. Ma c’è da dire che, stando ai suoi impatti, il blocco è un nemico viscerale che ci ha sempre accompagnato dall’esistenza stessa di progetti nazionali a Cuba e negli USA. Sono stati blocchi anche le intenzioni nordamericane di comprare a Cuba dal secolo XVIII, l’atteggiamento negativo yankies all’invasione liberatrice del Bolivar all’inizio del XIX secolo, il suo intervento opportunista nella guerra d’indipendenza alla fine proprio di questo secolo, il suo dominio neocoloniale col Trattato di Reciprocità e intervento militare incluso in tutta la prima metà di questo secolo, come anche lo sono e seguitano ad essere le sue azioni di genocidio degli ultimi 40 anni. Hanno sempre bloccato il nostro inserimento indipendente nel mondo.

Adesso, il blocco economico propriamente detto, con tutta la sua attuale obsolescenza, ha posto la sua impronta indiscutibile con perdite di migliaia di milioni di dollari in queste quattro decadi ed ha lasciato il segno nella cultura del lavoro a Cuba, ha cioè mediato e ostruito il nostro accesso alle nuove tecnologie, l’inserimento dell’esperienza di gestione occidentale e l’internazionalizzazione di modelli di qualità, disegno e varietà dei prodotti prevalentemente a livello internazionale. I vincoli con il campo socialista non possono mai sostituire gli affari lavorativi con questi punti di riferimento generali e questo impatto non è stato innocuo. Malgrado la sua crudezza, il blocco ha iniziato a dare sintomi di sgretolamento, di fatto le bugie sulla sua flessibilità sono indicatori di una scomposizione inevitabile che non si è prodotta perché non c’è garanzia di sostituzione con un altro meccanismo di pari letalità.

Il blocco verrà vinto, il tempo scorre in suo favore, ma non si deciderà realmente tra di noi e avverrà, in ultima analisi, nell’area lavorativa, ciò che ci riporta alla prima argomentazione di questi anni ’90. Trasformare la nostra cultura del lavoro.

Devo riconoscere che identificarlo come preoccupazione suprema di questi anni è un’interpretazione molto particolare dei processi che abbiamo vissuto e seguitiamo a vivere. Il concetto di cultura del lavoro viene appena menzionato nei discorsi ufficiali e in quelli accademici, tuttavia anche così è il nostro pane quotidiano comprendente le trasformazioni delle relazioni economiche nelle nostre imprese -con incluso il perfezionamento d’impresa- fino alla volontà del Partito Comunista Cubano di abbandonare procedimenti amministrativi tradizionali ed erronei. Per questo insisto sul fatto che bisogna indirizzare la nostra analisi.

Per questa mansione che è già cominciata e sta continuando si impone una diagnosi dello stato attuale della nostra cultura del lavoro dopo le successive globalizzazioni, nella quale non solo abbiamo accumulato esperienze e sviluppato capacità di azione, ma anche profonde ferite che dobbiamo bonificare. Cosa è Cuba quindi nella visione più generale della sua cultura del lavoro alla fine di questo millennio?

Ci giungono vari segnali:

Il marchio dell’esportazione. Per secoli Cuba è stata un paese di importatori che si realizza per se stessa fuori di essi; prima esportavamo zucchero, tabacco ed altri prodotti primari e/o semiprodotti. Oggi senza abbandonare il resto importiamo anche bellezza naturale e servizi per oziare, minerali, mercanzie con forte inclusione di conoscenze come vaccini etc; e sicuramente in un prossimo futuro, servizi professionali. Senza dubbio abbiamo sviluppato capacità per farci riconoscere nel mondo, ma il costo è stato un notevole indebolimento del riconoscimento e le misure interne di prodotti e del disimpegno, un mercato interno sempre irrilevante per la nostra stessa economia, una infrastruttura insufficiente e trascurata e, come una sintesi risultante da tutto ciò che è stato detto, una debole istituzionalità nelle nostre entità produttive e dei servizi che simula la costruzione particolare di una cultura del lavoro di ogni entità o emblematica di una attività. Ci sono delle eccezioni, certo, ma questa è la regola.

Il marchio dell’importazione. Come ogni paese che si orienta verso l’esportazione siamo anche sottoposti all’importazione e così consumiamo ciò che non produciamo. Il lato positivo di questa area è la capacità di assimilazione del nuovo; per ricrearlo anche, per selezionare alternative senza molti pregiudizi, ma il costo è stato ed è sempre stato il nostro punto vulnerabile in relazione al mercato estero; una tendenza al mimetismo mai ben contenuta e una insufficiente disposizione, al posto di un lento apprendistato, alla necessità di mantenere, conservare, distinguere tra il nuovo ed il buono. Un’altra conseguenza culturale importante è la tendenza ad inglobare criteri di qualità soggetti a protettorati esterni.

Il marchio della resistenza nella precarietà. La crisi o/e il doverci trovare ad affrontare costantemente le difficoltà che sembrano superarci è quasi il nostro stato naturale, è un marchio secolare sebbene si evidenzi di più negli ultimi 40 anni. Questo ci ha dato la forza di resistere, serenità di fronte ai pericoli, creatività di fronte alle difficoltà, ha alimentato l’orgoglio e la fiducia nelle nostre possibilità, così come il rispetto degli amici e soci reali o potenziali. Si è anche diversificato il nostro repertorio delle strategie di resistenza e, allo stesso tempo, una certa capacità autocritica e una vocazione all’autoperfezionamento. Ma anche i costi sono stati importanti perché abbiamo vissuto in permanente precarietà rispetto al necessario per vivere, produrre e commerciare; ciò ci ha resi tolleranti di fronte ai cattivi disimpegni e poco esigenti in materia di qualità. I nostri orientamenti d’asse risultano molto precisi per ciò che può concernere direttamente alla questione nazionale e a tutto ciò che in qualche modo la mette in risalto, ma molto diffuso in quanto al comportamento quotidiano, allo sforzo sostenuto, all’onore con cui si trattano le risorse, all’onestà nella condotta politica in diverse situazioni di lavoro. Ci siamo costituiti con fretta, con un senso della previsione molto subordinato all’incertezza o alla pressione congiunturale della sussistenza.

Il marchio dell’oggetto incompiuto. Esistiamo nella resistenza, l’ho già detto, ma anche nella lotta per arrivare ad essere ciò che pretendiamo: non è che ci disgusta come siamo, ma non siamo ancora ciò che vorremmo essere come popolo e come nazione. Esiste di fatto un “cuban dream”, un ideale di nazione vigente dai tempi di Martí: sviluppo economico insieme alla giustizia sociale (oggi aggiungeremmo e crescita umana); quel sogno ha delle traduzioni individuali e di gruppo più o meno coscienti e definisce tra le altre cose la permanenza insieme al progetto nazionale o l’uscita da esso. In quel sogno abbiamo costruito i cubani e solamente esso ci unisce, sebbene la sua capacità di riunione è formidabile. Da questo ideale in sviluppo sorgono conseguenze che denotano tutta la cultura e quella del lavoro in particolare: dal lato positivo, unità d’azione, disposizione all’esperimento e alla solidarietà, consistenza nella ricerca di alternative e coerenza nel discorso ideologico che sostiene tutte le azioni con qualsiasi grado di difficoltà. Dal lato negativo la natura dell’"opera in costruzione" ci carica di una noiosa incertezza, ci molesta costantemente la volontà e ci riporta la vista sulla vita reale con la crudeltà e la testardaggine che abituano i fatti.-----

Da questi marchi prodotti per e nell’evoluzione della storia del lavoro a Cuba sono scaturiti dei modelli di lavoratori cubani: il lavoratore della dipendenza (incolto, orientato verso la sussistenza, disciplina variabile, qualifica empirica e partecipazione reattiva), il lavoratore per lo sviluppo economico e sociale (istruito, orientato alla resistenza del paese, con disciplina cosciente, qualifica accademica e pratica e partecipazione attiva) e, oggi come oggi, il lavoratore della transizione (istruito, orientato in alternanza verso la sussistenza e verso la resistenza, educato dipendentemente dalla capacità di controllo del suo spazio economico, ben qualificato sebbene non necessariamente con buone capacità e con partecipazione dipendente dallo spazio economico e dal livello di recupero o ritiro del suo collettivo e dell’istituzione lavorativi). Il lavoratore della dipendenza che si è formato lungo i secoli non solo ha avuto il predominio in assoluto anteriormente alla rivoluzione, ma è sopravvissuto e sporadicamente sopravvive ancora, è un morto che rinasce a momenti in relativo stato di salute. Il lavoratore per lo sviluppo è stato sempre un archetipo della presenza reale intermittente in quasi tutti, lo costruiamo, distruggiamo e ricostruiamo successivamente dentro di noi e tra gli altri come conseguenza, sia per una vocazione alla resistenza e all’autoperfezionamento, sia per un debilitato sostentamento istituzionale e un sistema di relazioni lavorative non funzionale. È vivo, comunque si aggiusta e passa. Quello della transizione è un modello contraddittorio per se stesso, doppio, prodotto di una congiuntura sebbene non necessariamente provocata in se stesso,i suoi movimenti futuri dipendono proprio dalla qualità dello scenario in cui è inserito. È la sintesi temporale -qui sì- dei due modelli contrapposti precedenti e forse qualcosa in più, insieme dei tratti embrionali di un nuovo modello ancora da caratterizzare.

Dietro a queste caratteristiche e contrapposizioni e a questi modelli che ci distinguono come marchi ci sono la nostra storia e la nostra geografia, le nostre radici etniche e le nostre famiglie; sono il risultato di un lungo processo globalizzatore che ci avvolge da secoli e che ora continua non solo ad una velocità cibernetica, ma in mezzo ad una “diseguale contesa”, come avrebbe detto don Chisciotte.

Assistiamo ad un momento storico in cui sfumano delle identità, proprio quando il nostro conclude il suo processo depurativo. È per questo che il lavoro, come segmento chiave di un’attività acquisisce una rilevanza particolare e strategica nella costruzione della nostra identità. Veniva già segnalato da Marx fin dalla sua gioventù: “Il carattere totale della specie -il suo carattere specifico- è contenuto nel carattere della sua attività vitale” (Marx 1995); la cubanità si troverà prevalentemente nei nostri prodotti e servizi, in ciò che sapremmo creare, nella qualità di identificazione del nostro inserimento come nazione nel processo globalizzatore dei nostri giorni. In esso ci entriamo con le capacità e i limiti appena commentati, con la completa convergenza dei modelli descritti in mezzo al riaggiustamento socio economico degli anni ’90.

La “decade prodigiosa”: multispazialità economica e lavoro negli anni ’90

La strategia del riaggiustamento economico sviluppato lungo questa decade dall’organo direttivo del paese ha prodotto una serie di cambiamenti dei quali vado a riferire solo quelli che giudico più trascendentali per il loro effetto sul lavoro [4].

- Diversificazione delle forme di proprietà, mediante l’apertura al capitale straniero, la creazione di unità basiche di produzione cooperativa
 UBPC- e l’ampliamento del lavoro per proprio conto.

- Liberalizzazione del possesso e della circolazione della divisa monetaria, ciò ha generato una circolazione contemporanea del peso cubano e del dollaro nordamericano, che è la moneta reale di riferimento o che si utilizza di più, nelle transizioni impresariali e personali.

- Concentrazione dello sforzo degli investimenti nel settore emergente dell’economia, ossia il turismo, il commercio in valuta, immobiliare, attività di rapido recupero del capitale o di sicurezza essenziale come l’energia elettrica.

- Inizio della lenta trasformazione dell’impresa socialista, aumentando l’autonomia, sostituendo i bilanciamenti materiali con quelli finanziari e promuovendo un nuovo modello di gestione che scorre parallelamente alla riduzione sistematica del sussidio statale.

Tutti questi cambiamenti hanno portato il paese verso un processo che i suoi dirigenti già qualificano come di recupero economico [5] senza nascondere ostacoli per niente semplici o impressionanti.

Ciò che è più importante secondo il mio giudizio è che il paese ha dimostrato la sua capacità di resistenza e ha mantenuto il consenso politico anche in mezzo a ingenti difficoltà, come ha dato dimostrazione di conservare sufficiente capacità autocritica per intraprendere il processo di riaggiustamento e perfezionamento con serenità, gradatamente e con sensatezza politica. Tutto ciò aumenta il suo credito internazionale, ma soprattutto legittima il cammino scelto di fronte all’immensa maggioranza del popolo.

Tuttavia il processo è stato ed è infinitamente complesso. Che sia forse la multispazialità economica l’elemento che sintetizza questa complessità, che si è adattato ed ha portato il suo impatto nella struttura sociale (Espina, Moreno, Martín, 1997), nell’impiego (Martín, Nicolau,1999) e nelle relazioni lavorative (Martín, 1997).

Quando parlo della multispazialità economica mi riferisco alla coesistenza nell’economia cubana di spazi di attività che si distinguono tra loro per la forma di proprietà predominante in ognuno, dal maggiore o minore livello di compromesso con la pianificazione o con il mercato come meccanismo di regolazione e per le sue condizioni e relazioni di lavoro che lo contraddistinguono. Così esistono, se li denominiamo con i loro tratti essenziali -la forma di proprietà predominante- i seguenti spazi economici:

- Lo statale, dove bisogna distinguere le imprese che operano con fondi propri in valuta per i loro interscambi e quelle che dipendono da somministrazioni statali.

- Il cooperativo, dove ci sono la UBPC e le cooperative di produzione agricola e pastorizia (CPA). Questo è uno spazio ristretto dell’agricoltura, ma suscettibile di abbracciare altri settori come il commercio.

- Il misto, dove coesistono in associazione e con diverse modalità, la proprietà statale e la privata straniera.

- Il privato, dove bisogna includere marchi e rappresentative straniere, associazioni e fondazioni, ma alla base è occupato da attività lavorative private e dai contadini individuali, sebbene questi ultimi sono molto vicini allo spazio cooperativo.

- Il sommerso, una specie di proto-spazio che si muove tra tutti gli altri e concentra le attività economiche illegali o non dichiarate, basate generalmente in salassi all’economia statale o alla proprietà privata e cooperativa.

- Quello della disoccupazione, che apparentemente è un non-spazio, ma vi sono concentrati i disoccupati propriamente detti e altri disoccupati che preferiscono aspettare un’opportunità nello spazio che preferiscono.

Nello spazio statale nel 1998 era concentrato il 67% dei lavoratori e insieme al cooperativo (9%) rappresentano la continuità nel mondo lavorativo cubano. Il misto (8%), il privato (10%) e quello della disoccupazione (6%) rappresentano la rottura e l’emergenza.

Dei 3,5 milioni di lavoratori cubani, circa 1/3 svolgono lavori che contano su un determinato schema di incentivi che li associa o equivale ad una certa entrata in moneta. La maggioranza, comunque, guadagna il suo stipendio in moneta nazionale, a parte una buona quantità di prodotti base (olio, detersivi, vestiario, scarpe) può solo acquistare in moneta nella rete esistente o a prezzi molto elevati sul mercato statale non regolato o sul mercato nero. Come si vive allora? È molto difficile fare un conto in termini di somma base (anche se il nostro intento è serio), ci sono differenze importanti tra le varie regioni del paese: campagna o città, vicinanza o lontananza dai poli turistici o a zone che concentrano le attività economiche reattive o emergenti. Si corre il rischio di supporre che l’imprescindibile oscilla tra un minimo di $250 peso ad un massimo di $350 peso procapite mensile, perciò, sebbene il salario medio sia aumentato fino a $217 peso, la percezione della quasi totalità dei lavoratori che abbiamo intervistato in qualunque delle nostre ricerche ritiene che il salario in moneta non basta per vivere.

Tuttavia, a Cuba non c’è fame, anche se ci sono delle difficoltà con l’alimentazione desiderata o consigliabile, sebbene nelle città popolose sono scarsi i mendicanti e molto rari o inesistenti gli “homeless”. Perché? Penso per vari fattori:

1°- 1/3 e dei prodotti di base della dieta del cubano si acquistano a prezzi bassi o accessibili, la sicurezza sociale raggiunge tutti i cubani direttamente o indirettamente e, insomma, il progetto sociale ed i fondi sociali di consumo che lo accompagnano hanno mantenuto un livello di equità e di “solidarietà organica” essenzialmente efficace anche nel bel mezzo della crisi.

2°- Oltre all’importante numero di lavoratori che svolgono il loro lavoro con sistemi di incentivazione, il lavoro informale (registrato o no e in associazione all’economia sommersa o no), oltre a fonte di impiego per più di 100.000 lavoratori è, soprattutto, complemento salariale di una incalcolabile quantità di persone, che sia in modo permanente o occasionale e funziona come un canale alternativo di ridistribuzione interna delle entrate che in qualsiasi modo ottengono i cubani [6].

Tutto ciò forma un quadro contraddittorio, che se ha contribuito a distribuire la crisi tra tutti i gruppi sociali, approfittando e talvolta riproducendo il consenso politico, dall’altro lato ha fatto fronte alla “precarietà solidale” promossa dalla lidership politica come forma di gestione della crisi, con una lotta individualista per l’esistenza corrosiva dei valori e per il frazionamento delle identità di classe la cui origine è la multispazialità economica.

Per il mondo del lavoro il vettore di questa frammentazione è stato l’impiego perché le limitazioni economiche hanno provocato una diminuzione reale dell’occupazione, poiché le maggiori proposte di impiego sorgono negli spazi economici meno attraenti e quelli che prendono nuovo vigore, vengono recuperati o semplicemente emergono, generano poca occupazione o riducono la loro offerta a favore di una maggior efficienza. Bisogna chiarire che non si può fondare una volontà anti impiego in questi soggetti economici già che sono certamente gli antecedenti degli eccessi della pianificazione e povera utilizzazione delle risorse umane nell’immensa maggioranza di essi. Importante è che non si osservano vincoli tra la ripresa economica e la riattivazione della domanda di forza lavoro (Martín e Nicolau, 1999). Di modo che il fatto di avere o no impiego precede il fatto di averlo in questo o quello spazio e tutto finisce con l’avere o no una fonte di entrate aggiuntiva socialmente pianificata o no. Quel conflitto continuo pone interrogativi e definisce componenti culturali del lavoro a Cuba.

Così ciò che abbiamo chiamato “precarietà solidale” corre parallelamente ed in opposizione alla multispazialità differenziante che insuffla livelli di eterogeneità sociale inediti per il corso storico de socialismo cubano. Sebbene il discorso ufficiale riconosca questa disuguaglianza come un male inevitabile e programmaticamente riducibile (Lage, op, cit), il corso attuale del riaggiustamento non autorizza a fare pronostici rigorosi per la contraddizione tra solidarietà e disuguaglianza.

Sia quale sia il futuro gli impatti già visibili nella soggettività lavorativa non possono essere lasciati senza considerazione né sembra consigliabile sottoporgli un periodo circostanziale. Vediamoli:

“Suddenly I’m not a half man I use to be...”

È nel terreno soggettivo che la complessità raggiunge gradi di un materialismo molto alto, le nostre ricerche (Martín e collaboratori, 1997 e 1998) sebbene permettano di distinguere alcuni tratti, riescono solamente a sostenere alcune ipotesi. Tra esse mi azzardo a condividere le seguenti:

1. Il mercato, con i suoi capricciosi meccanismi di regolazione è entrato come riferimento distintivo per il disimpegno lavorativo cubano. Ossia, decidere dove, come e fino a che punto collocare il disimpegno per realizzarlo nella maniera più redditizia sono diventate le domane di orientamento della condotta lavorativa del grosso dei lavoratori cubani di oggi.

2. La lotta dei contrari tra un padrone solidale e altruista della condotta lavorativa e uno competitivo ed individualista, si esprime in termini di preponderanza alternativa per la maggior parte degli spazi economici, ciò che apre la strada ad un’etica ambivalente e contraddittoria nello spiegamento della capacità di lavoro.

3. Di conseguenza, la soggettività lavorativa cubana, mentre si aggrappa alla sicurezza del socialismo, dall’altro lato non disdegna di provare la sorte in un mondo di alta competitività; non pochi si qualificano e si preparano parallelamente per ridurre i costi dell’incertezza che una tale scelta implica. Tale scelta si pone, come regola, nei pronostici individuali del futuro lavorativo a breve o medio termine.

4. Le esperienze di vita demarcano la soggettività e l’ottimismo di fronte alle sfide della soggettività e così l’ottimismo di fronte alle sfide della competitività lavorativa è maggiore di quelli che occupano un luogo nello spazio più favorevole, mentre quelli della traiettoria accidentata li reclamano alla rivoluzione -idea sostanziale dell’ideologia e l’azione del progetto politico e i suoi conduttori- La soluzione ai loro problemi nel contesto di una tradizionale uscita plurale.

Insomma, stiamo vivendo attraverso e per mezzo di una soggettività che riflette la transizione tra due tecnologie di messa in pratica del socialismo: la già agonizzante e improponibile degli anni ’70 ed ’80 (che nonostante tutto continua ad essere viva nella nozione generale delle relazioni società- individuo) e quella che emerge negli anni ’90, dove questa stessa relazione società- individuo appare avere come intermediari dei fattori che escludono ogni possibile omogeneità per le vie di realizzazione individuale. Il lavoro e la famiglia sono, inoltre, le sfere protagoniste di questa complessa coesistenza di contraddizioni che stampano il loro bollo nella vita quotidiana. Già non siamo neanche la metà di ciò che siamo stati come se cantassimo in un brutto inglese negli anni ’60 con gli accordi dei Beatles, ma non abbiamo neanche smesso di esserlo. Si alternano captazioni e abbandoni, provvigioni e salvaguardia; ci sono guadagni e perdite, ma il bilancio non sarà necessariamente negativo. Sicuro che la mistica del socialismo irreversibile, padrone del futuro dell’umanità, è scomparso; ma al tempo stesso si è rafforzata l’autostima nazionale per il buon esito della resistenza.

Il vincolo socialismo- nazione è sottoposto ad un esame e all’inquadramento della soggettività dei cubani è ciò bisogna risolverlo essenzialmente nella sfera lavorativa. Ripeto questa idea per la mia radicata convinzione o per l’aderenza alle nostre ricerche , della svolta politica che traspare da ogni giornata lavorativa, a partire dalla maniera che più conviene al lavoratore come padrone effettivo dei mezzi di produzione, come sovrano dello sviluppo individuale, come depositario di un crescente compromesso con il suo collettivo e tutta la società. La funzionalità del sistema delle relazioni di lavoro, con la restituzione del sistema di relazioni del lavoro, con la restituzione del valore del lavoro incluso, insieme al rafforzamento e l’auto coscienza istituzionale delle imprese decideranno questa partita, ossia, il corso definitivo di questa soggettività in transizione.

In sintesi...

Il mondo del lavoro per i cubani di oggi, con tutte le debolezze e i rafforzamenti culturali, con tutte le opportunità e le minacce del processo di reinserimento nel suo intorno globalizzato, continua ad essere ora più che mai, il terreno dove verrà definito il modello sociopolitico e lo spazio di risoluzione dell’identità e dell’indipendenza nazionali. Tuttavia per i soggetti sociali concreti (individui, collettivi lavorativi, gruppi sociali) il ruolo del lavoro viene mediato dallo spazio economico di inserimento lavorativo e dalla forma in cui questo spazio si relazioni al lavoro come mezzo di vita.-----

Questa contraddizione caratterizza l’emergenza di un modello di lavoratore e di una soggettività lavorativa in transizione verso un destino ancora incerto, ma che non impedisca la ricerca delle strategie per costruirlo.

Nella nostra cultura del lavoro, con i suoi ancora deboli ruoli istituzionali che non riescono a definire le implicazioni ed il compromesso, si alternano eroismi, professionalità e altruismo, con egoismo, irresponsabilità e indolenza e non necessariamente in diverse persone o collettivi lavorativi.

Siamo precisamente ad un punto in cui le decisioni che si prendono, le azioni che intraprendiamo, la coscienza che sviluppiamo potranno , senza decidere, per lo meno influire fortemente sul nostro intorno “incerto e turbolento” e transitare dal “socialismo reale” al vero socialismo.

Ecco qui il contesto in cui dobbiamo analizzare il Perfezionamento d’Impresa.

3. Il Perfezionamento d’Impresa Cubano. Alcune certezze ma anche alcuni dubbi

Vorrei, prima di tutto, dare una nota succinta del PE per quelli che già lo conoscono perché sappiano come lo intendo io e per quelli che non lo conoscono e sono arrivati sin qui nella lettura perché almeno possano contare sulla mia versione.

Il PE è un programma di trasformazione progressista dell’impresa cubana che è spalleggiato dal Decreto Legge n.187 del 1998 dal Consiglio di Stato della Repubblica di Cuba ed anche politicamente spinto dalla Risoluzione Economica del V Congresso del Partito Comunista Cubano. Ha come obbiettivo quello di formare dei meccanismi economici, amministrativi e organizzativi che incentivino e strutturino forme di attuazione tendenti all’efficienza e l’efficacia della gestione impresariale in onore della competitività. Queste sono rispettivamente...

a) ... le mie certezze.

La pietra angolare di tutto il sistema del PE è la ricerca ed il consolidamento di un criterio di identità tangibile nell’impresa cubana che superi l’astrazione tradizionale dell’impresa socialista risultante da un lungo periodo di accentramento statale e di omogeneità amministrativa. Come viene dichiarato nelle sue fondamenta (G.E.P.E. 1998) si tratta di “... concedere [all’impresa statale] le facoltà e stabilire le politiche, i principi e le procedure che tendano allo sviluppo dell’iniziativa, della creatività e la responsabilità di tutti i capi e dei lavoratori” (paragrafo I, Introduzione).

È stato concepito come una serie di principi che si contano fino a 17 e che cercherò di riassumere i cinque parti:

- L’impresa si sostiene nella proprietà sociale con i mezzi di produzione, con l’assunzione da parte dello stato del ruolo di rappresentante della società. L’Alta Dirigenza rappresenta lo Stato ed è il vincolo naturale tra la Società come un tutto ed il collettivo dei lavoratori; le decisioni e la politica impresariale, allora, si prendono nell’impresa, in combinazione “adeguata ed opportuna” con le decisioni statali. Ogni impresa viene strutturata, tuttavia, secondo conviene e disegna il proprio PE come un “vestito su misura”. Ugualmente stabilisce che l’impresa socialista è la molla fondamentale dell’economia cubana.

- Il PE si fonda sull’autofinanziamento di ogni impresa e per questo ognuna di esse può amministrare le sue risorse materiali, finanziarie ed umane, incluso le spese in moneta liberamente convertibile dentro i confini dello Stato che elegga. Tutto ciò viene registrato in un piano elaborato dall’impresa ed è approvato per le proprie affinità statali, sia industriali che territoriali.

- Ai Quadri Direttivi viene consegnato il protagonismo del processo e gli si affida la mobilitazione e l’unione della volontà collettiva. Questa volontà collettiva si esprime attraverso il sindacato, il nucleo di partito dell’impresa ed i giovani comunisti (UJC). In ogni modo viene dichiarato l’orientamento della partecipazione del PE e si cerca di propiziare e sviluppare la partecipazione dei lavoratori alla presa di decisioni come elemento direttivo. In tal senso l’attenzione alle condizioni di vita e del lavoro ed il raggiungimento della miglior motivazione dei lavoratori è un principio basilare.

- L’incentivo si basa sull’efficienza dell’impresa, si progetta di combinare gli stimoli materiali e morali a partire dai risultati e viene sostenuto dal principio marxista “che ognuno secondo le proprie capacità e secondo il proprio lavoro”. Ciò è valido sia per i lavoratori che per i dirigenti.

- Il PE dichiara la sua volontà di fare dell’innovazione tecnologica un elemento essenziale e, sebbene non sia nei suoi principi dichiarati promuove la gestione per la qualità, la mercatotecnica e inoltre una serie di procedure di controllo economico e finanziario che recupera le migliori tradizioni contabili della gestione impresariale cubana ed internazionale.

In pratica questo programma può essere assunto da un’impresa quando dimostra di avere o poter conseguire investimenti statali, ha un mercato dove poter vendere e comprare e, inoltre, una contabilità “che rifletta i fatti economici” (idem Bases...). Deve iniziare con una “Diagnosi” approvata dal Gruppo Esecutivo del Perfezionamento d’Impresache ha creato il Governo e a partire da questo elabora un “Processo” che gli permetta di sollecitare l’autorizzazione per iniziare ad applicare le misure di perfezionamento, usando l’autonomia, con benefici potenziali significativi per i lavoratori, soprattutto secondo l’ordine di entrate e delle condizioni di vita e di lavoro.

Nell’anno 1998 quasi un centinaio di imprese cubane ha niziato il processo, oggi sono una cifra varie volte superiore [7] e l’aspirazione è che tutte queste imprese statali percorrano questo stesso cammino. L’impossibilità di un parallelismo generalizzato, per le domande finanziarie e materiali che presuppone spingono verso l’alternativa che lo sviluppo di una possa appoggiare l’altra con più difficoltà nei suoi investimenti sul mercato, nella tecnologia, etc. Quindi, determinate fusioni o ristrutturazioni di imprese sono perfettamente prevedibili e questo è un altro argomento per la gradualità di un processo che pretende di evitare tutta la “politica dello scontro” con tutta la sequela degli scioperi, sofferenze e frustrazioni per interi segmenti dell’universo lavorativo. Sembra chiaro che stiamo cercando un riaggiustamento o una ristrutturazione socialista, orientata a preservare gli spazi per lo sviluppo economico della maggioranza popolare. Non credo che debba soffermarmi a spiegare che qualunque altra strategia basata sul cambiamento più spettacolare, in mezzo alla realtà del blocco economico nordamenricano dovrà passare per una retroazione politica che, nella nostra esperienza storica, significano sacrifici della sovranità di qualunque progetto di sviluppo nazionale.

Concludo questa veloce rassegna, dove sono andato intercalando le mie certezze su tutto questo processo del PE, con l’inventario dei meriti che posso attribuirgli: il PE, più di tutto, è una promozione culturale in materia di gestione d’impresa sospinta dalla direzione del paese che introduce nozioni e pratiche sulla qualità, l’innovazione tecnologica e altre che oggi formano il corpo intellettuale e tecnologico che per se stessi portano al cambiamento organizzativo come uno stato permanente di esistenza dell’impresa. Anche quando questo sarà giunto ad un discreto livello vorrà dire mettere l’impresa cubana nella situazione di vantaggio comparativo rispetto alla maggioranza delle imprese della sua zona geografica, suscettibile di convertirsi in vantaggi competitivi nello scenario a medio termine. Abbiamo già detto che non c’è solo l’introduzione, ma recupero di pratiche tradizionali relative al controllo economico, che erano state sistematicamente dimenticate nella sfera contabile dell’impresa cubana.

Ugualmente ed implicitamente il PE darà luogo ad un mercato (forse questo è il suo merito maggiore); ma vediamo che non sarà solo un mercato che giunga per la mano delle transnazionali -sebbene non sono incluse nella partecipazione ad esso- né che sarà il prodotto di transizioni involutive verso il capitalismo che stiamo vedendo in questo mondo. Sebbene i documenti del PE danno un’idea più chiara di ciò che non diventerà il mercato a Cuba invece di quello che sarà, sembra ovvia la natura del mercato
 strumento con un’alta regolazione politica per preservare la società da esclusioni ingiuste ed estranee al nostro progetto di nazione, di impatto ambientale e forse -sebbene sia il più insicuro- dell’emergenza e l’eventuale preponderanza della soggettività posta nell’egoismo.

Non può passare inosservato, è un presupposto sociale ed ideologico, che il PE scommette sull’uomo, su ciò che può rappresentare i suoi interessi e la volontà di perfezionarsi. Riconosce e si pone dentro tali fortezze come l’istruzione e la qualifica dei lavoratori e dei quadri direttivi e presuppone di affrontare i vizi e le cattive abitudini a partire da meccanismi economici efficaci. Con qualsiasi mezzo possa materializzarsi, la sola scommessa è lodevole.

b) ...ed i miei dubbi.

Prima di puntualizzarli è bene che metta in chiaro alcune proposte e convinzioni che stanno alla base dei miei dubbi.

In primo luogo, l’orientamento della mia analisi è il processo di lavoro che pretende mettere in pratica il PE e lo farò da una prospettiva sociologica, ossia, dalla comprensione, spiegazione e previsione dei fatti, processi e fenomeni di carattere sociale. In questo senso, la funzione sociale del lavoro non è generare beni e servizi materiali o spirituali -è una funzione naturale che, certamente, ha anche una natura sociale per quanto il lavoro è da sempre un processo sociale- ma le società non si definiscono essenzialmente per il tipo di beni e servizi che creano. La funzione di tutto il processo sociale del lavoro è definire la collocazione dei diversi gruppi sociali rispetto al potere, sia economico come politico, è confermare o no una classe/i o tutta la società, se fosse il caso, nel controllo della proprietà dei mezzi di produzione fondamentali e definire il suo ruolo come dirigente o diretta in tutto il processo di lavoro e in tutta la società. Chiaro che questa conferma ha molto a che vedere con la qualità e la sufficienza dei beni e servizi che possano creare, ma soprattutto dipende dalle relazioni che riproduce.

Con ciò cerco di esprimere che me riferirò al tipo di relazioni di lavoro che promuovono le basi del PE considerando in che maniera questo programma riafferma o no i lavoratori cubani come padroni collettivi dei mezzi di produzione.

È chiaro che l’efficienza, l’efficacia e la competitività sono tratti, più che utili, imprescindibili, di tutto l’affare economico d’impresa di qualunque segno politico. Per parlare dell’economia basata sulla proprietà sociale deve esistere l’economia. Di più, l’efficienza è la conditio sine qua non del socialismo. Ora, a differenza del capitalismo, l’impresa socialista è tale solo se oltre ad essere efficiente è sociale e politicamente efficace, ossia, deve promuovere un processo di lavoro inalienabile che permetta l’incontro dell’uomo con se stesso a partire dai valori materiali e spirituali che si è creato. Si richiede non solo di far sparire qualsiasi sfruttamento dell’uomo per l’uomo, ma di fare del lavoro un mezzo per arricchire la formalità dell’uomo e della donna che interviene in esso, riuscire a far sì che tutte le relazioni di lavoro siano eticamente edificanti e inoltre (oggi deve essere avvertito con forza) ecologicamente responsabile.

Se alla luce di questi presupposti, esaminiamo le “BASI” del Perfezionamento d’Impresa possiamo vedere che l’impresa statale socialista mantiene il paradigma tradizionale della direzione unipersonale, come nell’esperienza est-europea. Il collettivo dei lavoratori non viene dichiarato come la massima autorità d’impresa e non si progetta questo come aspirazione, come si fa con la qualità, la competitività, la disciplina e altri elementi dei desideri del PE In conseguenza nel paradigma unipersonale, la partecipazione dei lavoratori alla direzione non rende conformi i sottosistemi ma sì “i metodi e gli stili di direzione”.

Si potrebbe capire che un altro sottosistema, quello dell’"Attenzione all’uomo" (o attenzione al proprietario?) nel quale viene definito con molto ardore che uno dei suoi componenti è “la possibilità di sviluppare l’iniziativa e di partecipare alle decisioni del collettivo...”, riferendosi al lavoratore, è colui che considera la partecipazione... come un sotto sistema. In realtà non è così, il centro di questo sottosistema è “l’attenzione alle necessità” e la creazione di nuovi valori nel lavoratore”, l’idea è di utilizzare la partecipazione come saldatura, come un “elemento direttivo”.

Il mio dubbio è: perché il PE ripropone una comprensione della partecipazione dei lavoratori nella direzione che non si separa essenzialmente da quella che fa l’impresa capitalista moderna e non promuove una visione autenticamente socialista del ruolo del lavoratore nell’impresa?

Il socialismo non si accontenta di una forma di direzione, un modo di vivere, una proposta civilizzatrice, la partecipazione non è un elemento “né una saldatura”, è la natura sociale e politica dell’impresa nel socialismo. Certo è che le imprese nel socialismo est europeo non riescono mai a mettere in pratica questo principio, ma: sarà stato innocuo questo procedere lungo la disfatta storica come tecnologia politica?

La vocazione alla partecipazione del PE, varie volte dichiarata, non viene utilizzata né nell’elezione o rettifica dell’alta direzione dell’impresa (è designata dallo Stato) né nella determinazione degli incentivi (le scale salariali sono previste per le imprese di qualunque ramo e regione) né in altre direzioni che definiscono le relazioni di lavoro nelle organizzazioni lavorative.

A ciò dovrei aggiungere la visione che si ha del sindacato all’interno del PE. Si definisce come “impulso alla gestione impresariale” la cui azione deve “...particolare importanza al raggiungimento dell’appoggio necessario al processo della presa di decisioni e nell’ulteriore realizzazione delle stesse”.

Il sindacato nel socialismo non può conformarsi ad un ruolo simile. Il suo ruolo è qualificare l’opinione collettiva (con informazioni, confronto, fondare la specializzazione) e mobilitare i lavoratori verso l’esercizio responsabile e compromesso della loro condizione di padroni collettivi dei mezzi di produzione; non è un appoggio dell’alta direzione, ma lo strumento della direzione collettiva, un soggetto di direzione assolutamente legittimo, dei lavoratori! Per far valere il consenso generale di tutte le voci come una sola. La sua logica del funzionamento non può più essere quella di “carrucola trasmettitrice” (cinghia di trasmissione), ma, in tutti i casi -per continuare con questa metafora fisica- quella dei “vasi comunicanti”.

Un altro dubbio lo pongo in quello che chiamo “la scommessa funzionale del PE” (prima ho parlato di una che mi soddisfa). Per me tutta la promozione di una nuova cultura di gestione per l’impresa cubana ha due pilastri basilari: il controllo economico nelle sue diverse sfaccettature e l’incentivo al lavoro. Sembrerebbe che la scommessa sia: razionalità economica + incentivo = riuscita. Confesso che non è una scommessa irrazionale e a breve termine potrebbe dare dei frutti.

Non c’è niente di più socialista che incorporare la razionalità economica alla cultura del lavoro a Cuba. L’incentivo non ha niente di male se è basato sulla giusta misura del disimpegno individuale e collettivo e nei risultati dell’impresa, come si prefigge il PE. Da “Le BASI...” si deduce inoltre che la combinazione armonica tra stimoli materiali e morali è qualcosa che ogni impresa deve raggiungere a partire dal talento collettivo, l’iniziativa, etc.

Nonostante tutto e malgrado la sincera vocazione decentralizzatrice del PE, si stabiliscono scale salariali che uniscono premi e incentivi che sono omogenei per tutte le imprese. L’impresa ottiene il diritto alla retribuzione, il salario viene decentralizzato, ma la somma di ciò che può retribuire per mezzo del salario è definito centralmente. Non è straordinario? Perché non è determinato dal collettivo? Il collettivo è visto come una identità irresponsabile che si auto incentiva più di quello che spetta all’impresa? Forse un buon controllo economico non può qualificare questa decisione ed una buona dirigenza orientarla? Che altri incentivi non salariali stiano fuori dalla definizione non termina questa decisione, il salario è il motore centrale di tutta l’ingegneria incentiva.

Le scale previste (si può guadagnare fino a $700, che triplica il salario medio attuale e potrebbe ridare al lavoro, in buona misura, il suo carattere di mezzo per vivere) garantiscono aumenti salariali per tutte le categorie di lavoratori. Vedendole posso supporre che quasi tutte queste categorie duplicheranno almeno le entrate salariali. Tuttavia, la relazione tra le maggiori e le minori è curiosamente somigliante a quella prevalente per molti anni (4:1). Bisogna ricordare che nelle nostre ricerche sulla Sfera Lavorativa dello Stile di Vita a Cuba (1986- 1990) abbiamo dimostrato che per la stragrande maggiorana dei lavoratori intellettuali (tecnici, dirigenti e amministratori) il sistema di incentivazione allora vigente aveva smesso di essere un motivo per lavorare (Martín e collaboratori,1989).-----

L’incentivo, come sotto sistema del Sistema delle Relazioni Lavorative, si basa sulla corrispondenza tra le forme e i meccanismi di stimolo e la motivazione dei lavoratori per realizzare i loro doveri lavorativi. Quella motivazione e ancora di più questa corrispondenza è impossibile stabilirla centralmente, solo può concretizzarsi nell’ambito di ogni collettivo.

Si starà forse scommettendo su un determinato grado di omogeneità sociale come sinonimo di equità sociale e uguaglianza? Se è così la discussione raggiungerebbe un altro livello e non c’è possibilità di svilupparla in questo testo; anticipo solo che considero l’assunzione di tale sinonimia semplicistica e disgraziatamente burocratica. Magari si risolvesse con una scala salariale! In realtà, l’ha già detto il Maestro: “Non c’è uguaglianza sociale possibile senza uguaglianza culturale!”.

Dal lato pratico penso che in questi tempi di globalizzazione
 di tutto ed anche del lavoro- non si può pensare che la nostra condizione di isola medi troppo la competenza tra l’impresa capitalista e la socialista. Finora abbiamo solo imprese miste; ma senza dubbio ci saranno il 100% di quelle straniere, la legge lo permette. La nostra forza competitiva non è né nell’incentivo né nel salario in particolare. Non può esserci lì la scommessa fondamentale; la forza sta nella partecipazione dei lavoratori alla dirigenza, la possiamo portare fino ad un punto impossibile, grado che le imprese capitaliste più democratiche non possono raggiungere neanche in sogno.

L’incentivo di un’impresa capitalista può, comunque, raggiungere un punto impensabile per noi; le sproporzioni non la mutano ed è circostanziale la polarizzazione della ricchezza e le possibilità e così, sebbene la disoccupazione sia divenuta “la questione sociale del XX secolo” (Prieto, 1994) sul rovescio della medaglia abbiamo gli “yuppies” e la cosiddetta “overclass” del capitalismo contemporaneo. Mai una società socialista potrà pensare in termini non solidali e cercherà sempre il modo di evitarlo (senza dover accorrere a scale salariali centralizzate). L’impresa capitalista non ha nessun limite per ritornare al passato, potrebbe tornare alla schiavitù, la nostra al contrario, non ha limiti sul suo cammino verso il futuro e questo è quello che qualunque perfezionamento deve prefissarsi. Lo spazio naturale di questo avanzamento è la Partecipazione.

E se parliamo di futuro, ce n’è uno così prossimo che è quasi presente e con il quale costruisco il punto di riferimento dei miei ultimi dubbi, o in questo caso, aspettative insoddisfatte rispetto al PE, riferite alla sua proiezione ambientalista e comunitaria.

La globalizzazione ha potenziato i suoi antipodi: la regione, il micromondo geografico ed economico dell’impresa. Le catene di produzione, i distretti industriali, hanno elevato esponenzialmente i vincoli inter-aziendali, la competenza globale ha spinto molti verso la cooperazione locale. È sorto anche il concetto di “globalizzazione” per riferire dalla sua complessità questi fenomeni apparentemente contraddittori.

L’economia cubana, che è caduta in blocco nel cosiddetto Periodo Speciale non uscirà né sta uscendo da questa tappa critica. Ciò è assolutamente naturale, non tutti i rami o regioni del paese hanno le stesse possibilità di riorientare la loro produzione e i servizi verso il mercato internazionale o interno in valuta. Lo stiamo vedendo, il turismo si è decuplicato in questi anni fino a convertirsi nella nostra primaria industria; l’industria sider-meccanica supererà quest’anno il record storico di produzione e guadagni, così anche alcune regioni come la provincia della città de La Habana hanno un ritmo di recupero evidentemente superiore ad altre regioni del paese per la concentrazione di attività di più rapido riorientamento sul mercato.

Una simile realtà implica una ridefinizione dei vincoli tra l’impresa socialista cubana ed il suo spazio geografico. Le regioni cubane (provincie, comuni, comunità concrete) hanno nelle imprese statali lì installate delle fortezze, delle risorse materiali e umane per riprendersi e uscire dal Periodo Speciale; tuttavia il PE non enfatizza sufficientemente né abbonda con la responsabilità delle imprese nella loro regione. Di fatto i vincoli interaziendali non costituiscono un sottosistema né si allude alla regione come categoria di sviluppo d’impresa.

Si tratta forse di un’omissione? Possiamo lasciare questo aspetto del problema fuori dalla discussione? Considero in maniera enfatica che, dentro alla promozione culturale che il PE propugna, va potenziato lo spazio regionale e, nel riferirlo, stiamo facendo risaltare uno scenario di assoluta immediatezza. Non credo che tutto si risolva con l’approvazione del piano d’impresa, bisogna che si risolva anche a livello regionale, come abbiamo già visto.

Per terminare questo inventario, mi assalgono dubbi sull’assenza della gestione ambientale in tutto il programma del PE. I nostri quadri direttivi, i sindacalisti, i lavoratori devono incorporare i preconcetti e le metodologie che chiariscono gli impatti ambientali di tutta l’attività economica. Se si decide per esempio di bruciare un campo di canna da zucchero, l’evacuazione non può soffermarsi sulle conseguenze economiche di quella decisione; il danno che si provoca al suolo e la possibile lesione dell’ecosistema va considerata nell’analisi. C’è un altro spazio importantissimo per l’attività sindacale delle organizzazioni politiche rappresentate nel collettivo e per le organizzazioni professionali.

Il nostro mare, i nostri fiumi ed il suolo, l’aria che respiriamo devono essere preservati e risanati, ma mai aggrediti. Il concetto di impresa socialista deve essere sinonimo di Impresa Ambientalista e questa valutazione deve far parte degli indicatori dell’efficienza. Qualunque omissione qui è una lesione all’habitat umano. Con questo voglio dire che non è sufficiente che Le Basi... consegnino, nelle funzioni delle Organizzazioni Superiori di Direzione Impresariale, “...il controllo delle misure di protezione nell’ambiente” (op. cit. pg.15).

Ho altri dubbi ed opinioni, ma credo di aver esposto la parte fondamentale degli apprezzamenti sul PE. Forse sarebbe utile che provi a fare una sintesi di un solo paragrafo sulle imposte.

Il PE rappresenta una sorta di prima forza motrice per dare l’impulso ai cambiamenti nelle organizzazioni lavorative cubane, introduce sensatamente meccanismi di mercato che sicuramente si andranno ad incorporare ai valori annessi alla responsabilità economica nella nostra cultura dirigenziale, promuovendo tecnologie di direzione avanzate e creando minime condizioni indispensabili per restituire al lavoro la sua condizione di mezzo per vivere. È, comunque, almeno sul terreno delle Risorse Umane e delle relazioni lavorative una proposta che richiede scambi teorici, esperimenti e nuovi e successivi sviluppi che apriranno le possibilità di superare i limiti attuali sul terreno della partecipazione dei lavoratori nella direzione e sulla proiezione comunitaria e ambientalista.

4. Conclusioni provvisorie

In un lavoro come questo non si può altro che giungere a delle conclusioni solamente provvisorie, posto che non credo di avere la verità, ma una visione di essa basata sulla nostra esperienza lavorativa. Se conoscessi migliori o altri punti di vista con delle buone basi, potrei modificare alcuni punti della mia visione anche se sono convinto che sono al di sopra di esse. La superbia è castrante.

Quindi cercherò, brevemente, considerando i miei già stanchi lettori di rispondere alla domanda iniziale: come si inter- influenzano la cultura del lavoro attuale e l’iniziativa del Perfezionamento d’Impresa?

Dati i punti forti sopra elencati sul PE, questa iniziativa può contare, dalla sua parte, sugli elementi più solidi della nostra cultura del lavoro: istruzione e preparazione del personale e dei quadri dirigenziali; disposizione alla sperimentazione, al cambiamento; creatività ed entusiasmo; ma anche, data la comprensione dello sfondo politico dell’affare lavorativo, il PE può contare su importanti dosi della motivazione politica ed ideologica. Da parte sua la cultura del lavoro può risultare beneficiata dal PE, perché le sue principali debolezze sono: la responsabilità ambivalente e il diseguaglianza di fronte al lavoro e la debole istituzionalizzazione prevalente nelle nostre imprese potrebbero cominciare una trasformazione positiva.

La responsabilità economica e giuridica possono far aumentare l’autonomia e maggiori controlli economici, la responsabilità professionale può irrobustirsi con un buon controllo del disimpegno e una retribuzione differenziata. La responsabilità politica ed ideologica potrà solo migliorare se si rafforza il radicamento della partecipazione del PE.

L’istituzionalizzazione delle nostre imprese avrebbe potuto iniziare ad abbandonare la sua ancestrale debolezza se in favore del più puro e chiaro sviluppo economico avesse stabilito norme di funzionamento e manuali di procedimento, se avesse rafforzato credenze e valori organizzativi, ed infine una cultura del lavoro che non dipenda dal carisma di chi sta dirigendo. Sicuramente il paradigma della direzione unipersonale opera in senso inverso, questo è un handicap da considerare. Si rafforzerebbe anche la ragione sociale, il compromesso politico, questo è l’istituzionalizzazione. Un altro aspetto , molto importante, è la creazione di meccanismi trasparenti e acconsentiti da tutti di misurazione del disimpegno e della costituzione di canali di promozione a partire da questi meccanismi e non da altri. Ciò è un aspetto particolarmente insicuro senza un adeguato e crescente potenziamento della partecipazione nella presa di decisioni.

I rischi sono nell’ottenere una istituzionalità non autenticamente socialista per svalutazione o manipolazione degli affari partecipativi (emulazione, spiegamento dell’iniziativa e della creatività, democrazia lavorativa socialista ed esercizio della dirigenza come partecipazione specializzata); nel raggiungere una responsabilità nel lavoro non compromessa nell’ordine politico ed ideologico. Con l’essere così l’istituzione, la volontà di perfezionamento, la disposizione alla sperimentazione e tutti i rafforzamenti nell’insieme della nostra cultura del lavoro seguirebbero il cammino del progresso individualista e si perderebbe la nozione di patria che alberga ed esalta il lavoro. Si correrebbe l’enorme rischio inoltre di tingere il perfezionamento di burocratismo e doppia moralità.

La soluzione allora non sta solo nel pretendere, neanche nel ridefinire il paradigma della direzione (che sarà senza dubbio un progresso), bisogna formare, costruire la partecipazione, educare ed auto-educarsi, bisogna sconfiggere il padrone carismatico e rafforzare quello istituzionale del funzionamento e della direzione organizzativa. Ciò porta al dibattito, alla sperimentazione, teorizzazione e tutto ciò bisogna farlo partendo dalla pratica, dall’implementazione del perfezionamento, dal terreno e con i lavoratori.

Il mio pronostico è chiaro: il futuro a medio e lungo termine del PE dipenderà da quanto siamo capaci di far corrispondere la condizione dei lavoratori cubani di essere proprietari collettivi dei mezzi di produzione e l’esercizio di tale condizione.

È come dire che dipende da quanto siamo capaci di essere socialisti.


[1] “Insieme dei tratti distintivi, spirituali e materiali, intellettuali ed affettivi di una società o gruppo sociale. Include non solo arti e lettere, anche modi di vita, diritti dell’essere umano, valori, tradizioni e credenze...” UNESCO “Cultura e sviluppo”. Parigi, novembre, 1994, pp. 6 e 7.

[2] Mi riferisco ai laureati: Josè Luis Nicolau Cruz, Juan Carlos Campos Carrera e Armando Capote Gonzalez.

[3] Tutto il capitale è umano, uso l’espressione per il suo valore comunicativo malgrado non mi piaccia.

[4] In particolare ricordiamo l’articolo di Alfredo González Gutiérrez “Economia e Società: le sfide del modello economico” Revista n. II del 1997.

[5] Il dottor Carlos Lage, vice presidente del Governo, nell’Incontro Nazionale dei Sindaci Municipali del Potere Popolare ha fatto questa affermazione perché a suo giudizio: “si è ottenuto un buon risultato nell’ordinamento delle finanze interne, sono state raggiunte soluzioni finanziarie in valuta convertibile per sostenere il recupero economico e si sta crescendo in quasi tutti i settori.”. Ha anche messo in risalto la tendenza generale all’efficienza dell’economia del paese. (P. Granma 3 settembre 1999).

[6] Oltre ai menzionati, frutto della previdenza statale, ci sono altre entrate sociali o spedizioni dei familiari all’estero che si uniscono ai servizi prestati all’estero e, inoltre, quelli che sono frutti di scambi non regolari di risorse statali, cooperative o private.

[7] Nell’attività di 895 imprese -circa il 30% di quelle esistenti nel paese- 26 organismi rami transitano per i diversi passi del processo di perfezionamento, di esse 170 avevano la certificazione della contabilità alla chiusura di settembre, 150 avevano presentato la diagnosi, 12 avevano concluso il processo e 5 avevano l’autorizzazione per iniziare l’impianto del P.E. “Giornale Granma” 13.10.99 pg. 8.