Il sindacato e il lavoro in Europa

Guglielmo Carchedi

1. Globalizzazione o Internazionalizzazione?

Le mutate condizioni internazionali entro cui si muove il sindacato oggigiorno sono spesso riassunte in una parola: globalizzazione. [1] In genere si pone l’accento su alcuni aspetti che caratterizzerebbero la globalizzazione: il ruolo dominante delle multinazionali, la grande mobilità di immense quantità di capitale sui mercati finanziari, il crollo dell’Unione Sovietica, la costante introduzione delle nuove tecnologie, specialmente l’informatica. Tutti questi sono elementi di una nuova realtà. Tuttavia la nozione che li colloca in un unico quadro teorico, la globalizzazione, è altamente ideologica. Infatti essa percepisce tutti questi elementi come aspetti di un sistema che, avendo sconfitto il nemico mortale, il comunismo, mette fine alla storia e apre le porte ad una generalizzata abbondanza e alla democrazia globale. In breve il termine globalizzazione celebra la vittoria del bene contro il male, del capitalismo e della libertà contro il comunismo e la schiavitù. È vero, si ammette con un po’ di imbarazzo che, a più di un decennio dalla scomparsa dell’impero del male, la disoccupazione, la povertà, le guerre, i disastri ecologici, ecc. non sono scomparsi, ma tutto ciò è visto come un residuo del passato che sarà eliminato dalla marcia trionfale del capitalismo globale. In breve se il capitale fosse una persona, questo sarebbe il suo sogno più roseo. Però esso sarebbe solo un sogno, ben distante dalla realtà.

Prima di tutto si pone l’accento sulla grande mobilità del capitale finanziario. Ogni giorno non meno di 1.500 miliardi di dollari si muovono per i mercati finanziari alla ricerca continua di profitti, generalmente da speculazione. Ciò è visto come un’espressione dell’efficienza del sistema capitalistico, anche se ormai da tempo si levano voci che vorrebbero limitare queste onde di trasferimenti di capitale. Infatti questa quantità gigantesca causa la volatilità dei tassi di cambio, è un catalizzatore (anche se non ne è la causa) di crisi finanziarie, e influenza, e talvolta detta, le politiche nazionali specialmente del terzo mondo. Di fronte a questi effetti dirompenti, il movimento per la Tobin Tax sembra diventare sempre più vasto.

Ora, l’origine di queste immense quantità di capitale e il loro scorrazzare per i mercati finanziari internazionali alla ricerca di profitti non hanno nulla a che vedere con la caduta del blocco sovietico e con maggiori possibilità di investimenti finanziari e speculativi in quell’area (una delle tesi della globalizzazione). L’origine di queste enormi masse di capitale finanziario risiede nel fatto che quel capitale non riesce a trovare uno sbocco vantaggioso nella sfera della produzione e che quindi tenta la sua fortuna in operazioni finanziarie e speculative. Da questo punto di vista, la grandezza dei capitali finanziari in cerca di profitti, lungi dall’essere un’espressione della maggiore libertà del capitale di esprimere la sua razionalità in territori precedentemente “condannati alla irrazionalità economica”, è un indicatore della gravità della crisi economica attuale.

Il secondo pilastro su cui si basa l’ideologia della globalizzazione è che, con la fine dell’Unione Sovietica, il capitale può penetrare in tutti e quattro gli angoli del mondo portando con sé la democrazia. Naturalmente ci si riferisce ad una forma specifica di democrazia, quella rappresentativa e più in generale quella funzionale alla riproduzione del capitalismo. Ora, è ormai chiaro a tutti che l’asserzione secondo cui la democrazia si è estesa anche alle cosiddette economie emergenti è ovviamente falsa. Questi paesi sono sprofondati in una crisi economica senza precedenti allo stesso tempo sostituendo il loro precedente apparato burocratico con una nuova classe politica fortemente capitalista e basata apertamente sulla corruzione.

Il terzo fattore che caratterizza il contenuto ideologico del concetto di globalizzazione è che essa si basa su, e rafforza ulteriormente, la dottrina neoliberista. Anche su questo punto ci sarebbe molto da dire. Le politiche neoliberiste non esprimono una razionalità economica astratta, esprimono e teorizzano gli interessi del grande capitale come se essi fossero l’espressione di una non meglio identificata razionalità insita negli essere umani. La dottrina neoliberista si basa su grossolani errori teorici ma, né gli accademici né i politici, sembrano volersene accorgere data la funzionalità di tale dottrina per le politiche neoliberiste, cioè per il perseguimento degli interessi del grande capitale. È in questa luce che le privatizzazioni, i tagli di bilancio, gli attacchi padronali al salario e al lavoro, eccetera, dovrebbero essere visti.

Infine vi è un quarto punto, le nuove tecnologie, specialmente l’informatica. Nel lungo periodo, queste tecnologie dovrebbero mettere fine al lavoro umano (e quindi alla classe lavoratrice) dando finalmente l’opportunità agli uomini e alle donne di diventare arbitri del loro destino. Nel corto periodo queste tecnologie dovrebbero aumentare i livelli di occupazione, diminuire il tempo di lavoro, alleggerirne il carico, renderlo più soddisfacente e meglio remunerato. Il resto di quest’articolo effettuerà una critica dettagliata di queste asserzioni e più in generale una valutazione degli effetti sul lavoro non solo dell’introduzione di tali tecnologie ma degli aspetti discussi brevemente qui sopra. La dimensione sarà quella europea, cioè dell’Unione Europea dei quindici, a meno che non si indichi diversamente.

2. I mutamenti nell’organizzazione lavoro

Le conseguenze dei cambiamenti sopracitati per il lavoro possono essere raggruppate sotto diverse voci. Esaminiamone alcune. [2]

(A) Intensità del lavoro. Questo è un elemento di grande interesse perché è, forse, l’indice più importante dei rapporti di forza tra i lavoratori e i capitalisti all’interno del posto di lavoro. La ragione è semplice, è qui che si gioca principalmente la partita sull’estrazione di plusvalore. Per quanto riguarda l’intensità del lavoro, si possono usare vari indicatori. I primi due sono riportati nella tabella 1 e sono le percentuali (a) di coloro che lavorano a ritmo elevato [3] e (b) di coloro che devono rispettare scadenze strette.

Già nel 1990 circa la metà degli intervistati dovevano lavorare a queste condizioni ma le percentuali sono aumentate costantemente tra il 1990 e il 2000 e sono ora attorno al 60%. Dati ulteriori indicano che, se si confrontano le varie professioni, per quanto riguarda il ritmo di lavoro, sono i tecnici che subiscono l’aumento più rilevante (8% in più per coloro che lavorano a ritmo elevato per almeno un quarto del loro tempo e 3% in più per coloro che lavorano a ritmo elevato per tutto il tempo); per quanto riguarda il dover lavorare rispettando scadenze strette, sono di nuovo i tecnici a subire un aumento con approssimativamente le stesse percentuali. Vi è invece una diminuzione di coloro che lavorano a ritmo elevato e a scadenze strette per la categoria dei managers e altre figure simili.

La tabella 2 si basa su altri quattro indicatori: le percentuali di coloro che devono lavorare a ritmo elevato continuamente, coloro che devono fare movimenti ripetitivi continuamente, e coloro che non hanno controllo sul loro ritmo di lavoro e coloro che non hanno avuto una formazione professionale. Così si può vedere in che misura una maggiore proporzione dei lavoratori con contratto interinale debbono lavorare continuamente ad alta velocità, devono fare continuamente movimenti ripetitivi e non hanno nessun controllo sul ritmo del lavoro più dei lavoratori con contratto a termine fisso e ancor più dei lavoratori con contratto a termine indefinito. Allo stesso tempo, la proporzione dei lavoratori interinali che riceve una formazione professionale è minore di quella delle altre due categorie di lavoratori.

Anche queste percentuali sono alte. Per di più, per quanto riguarda i primi tre indici, esse crescono nella misura in cui si passa da lavoratori con contratto indefinito, a lavoratori con contratto a tempo determinato, e a lavoratori con contratto interinale. Esse diminuiscono per il quarto (le percentuali di coloro che non hanno una formazione professionale). Qui si può aggiungere un’ulteriore informazione per nazione su coloro che devono lavorare costantemente ad alte velocità. La percentuale maggiore si trova nella Danimarca (58%) quella minore nella Spagna, (30%), la media è del 45%, mentre l’Italia è attorno alla media col 43%.

Un altro indice riguarda la possibilità di fare pause durante il tempo di lavoro. Questa possibilità diminuisce tra il 1995 (63%) e il 2000 (61%). Si noti che questo significa che quasi il 40% degli intervistati non ha assolutamente nessuna possibilità di decidere quando fare una pausa. Siccome gli intervistati appartengono sia ai lavoratori che agli imprenditori che ad altre classi, la percentuale dei lavoratori che non hanno questa possibilità è in effetti ben più alta. Vi sono anche grandi differenze tra lavoratori autonomi (86%) e alle dipendenze (56%). Per quanto riguarda le occupazioni, la situazione si deteriora nel campo dei servizi.

Un ulteriore indice è la possibilità di scegliere le ore di lavoro. Nella media, il 56% degli intervistati non ha questa libertà. Anche qui vi sono grandi differenze tra i lavoratori autonomi (16%) e i lavoratori dipendenti (64%); tra uomini (53%) e donne (59%); e tra lavoratori con contratti permanenti (62%), con contratto a termine (71%), e interinale (77%).

L’ultimo indicatore riguarda il tempo per fare il proprio lavoro. Dei lavoratori dipendenti, il 24% dichiarano che il tempo loro destinato non è sufficiente. Anche qui vi sono differenze tra i lavoratori con tipi diversi di contratto. Per coloro che hanno un contratto permanente la percentuale è del 30%, mentre è del 23% per i contratti a termine fisso e del 29% per i contratti interinali.

Quali sono i fattori che influenzano il ritmo e l’intensità del lavoro? La European Foundation (2001b) menziona i seguenti fattori. Prima di tutto vi è stato un notevole aumento del ritmo e intensità indotti dai colleghi di lavoro. Questo è un dato comune a tutti i paesi e a tutte le occupazioni (con l’eccezione dell’agricoltura e delle occupazioni elementari). Questo dato, ovviamente, deve essere interpretato. Il fatto che un lavoratore si senta spronato a lavorare più intensamente dal collega, e che lo stesso valga per il collega, si può spiegare solo in un modo e cioè che è l’organizzazione stessa del lavoro (e quindi coloro che l’hanno disegnata in quel modo) che fa in modo che i lavoratori si spronino a vicenda. È ovvio che ci debba essere qualcuno, gli imprenditori, che trae vantaggio da tale situazione. Una seconda ragione sembra essere il ritmo indotto dalle domande dei clienti, passeggeri, allievi, pazienti, ecc. Anche qui vi è un aumento dal 67% nel 1995 al 69% nel 2000. Anche qui, a questa domanda esterna può essere permesso di (o é facilitato) porre maggiormente sotto pressione i lavoratori solo per il modo in cui il lavoro è organizzato. Le stesse considerazioni valgono anche per gli aumenti indotti dal ritmo delle macchine (una diminuzione dal 22% nel 1995 al 20% nel 2000) e ancor più chiaramente dal ritmo indotto dal controllo gerarchico diretto (con una caduta dal 34% al 32%).

(B) Flessibilità. Contrariamente alla visione apologetica sulla flessibilità, secondo cui la flessibilità renderebbe il mercato del lavoro più fluido aumentando quindi la disponibilità degli imprenditori a assumere lavoratori, uno studio recente raggiunge risultati opposti (European Foundation, 2001a). Questi risultati si basano su uno studio di 5.800 imprese in dieci paesi membri della UE. [4] Essi supportano scientificamente per una buona fetta dell’UE ciò che molti lavoratori già sanno anche se solo intuitivamente: e cioè che la flessibilità fa bene ai profitti ma non all’occupazione. Vediamo perché.

Si possono distinguere diversi tipi di flessibilità. Vi è la cosidetta flessibilità funzionale, che è la forzata mobilità del lavoratore da una mansione all’altra. Essa in genere comporta un abbassamento delle qualifiche e quindi un peggioramento salariale. Vi è anche la cosidetta flessibilità numerica, che null’altro è che la riduzione del personale, o licenziamenti. Un primo punto di grande importanza è che, a livello europeo, questi due tipi di flessibilità non si escludono a vicenda. Anzi, la maggior parte delle imprese ricorre ad entrambe le opzioni. La flessibilità funzionale serve al massimo a ridurre il numero di coloro che perdono il loro lavoro, non a creare nuovi posti di lavoro. A livello di impresa, l’aumento dell’occupazione è legato alle innovazioni tecnologiche e non alla flessibilità funzionale. [5] Secondo, dei nuovi posti di lavoro creati, la maggior parte sono lavori part-time e a contratti temporanei. Questa è chiamata flessibilità di contratto. In terzo luogo, sempre a livello di impresa, vi sono più probabilità di crescita per quelle imprese che praticano la flessibilità di contratto e allo stesso tempo riducono moderatamente la loro forza lavoro (flessibilità numerica).

Consideriamo ora alcuni aspetti più specifici delle tre forme di flessibilità. Incominciamo dalla flessibilità funzionale. Circa il 6% delle imprese pratica molto questo tipo di flessibilità e il 36% in misura più moderata. Nelle altre non si ricorre ad essa. Ciò vuol dire che in quattro imprese su dieci nei paesi studiati si pratica in qualche forma la dequalificazione delle mansioni. Per quanto riguarda la flessibilità numerica, il 30% delle imprese la pratica, cioè riduce il proprio personale. Infine la flessibilità di contratto. Il 7% delle imprese usa alti livelli di flessibilità di contratto (ma non dimentichiamoci che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro sono soggetti a questo tipo di flessibilità) mentre essa è applicata in qualche misura dal 18%.

Se l’impatto della ‘globalizzazione’ sul lavoro è negativo, non sarebbe questo il prezzo che si deve pagare per stimolare le imprese ad impiegare il capitale risparmiato sui salari per investirlo in innovazioni, come vorrebbe farci credere la ‘scienza’ economica ufficiale? La risposta è che solo una percentuale minima, il 3% delle imprese, introduce in maniera intensiva innovazioni e che in ben il 66% non vi sono innovazioni o, se vi sono, sono minime.

Da questo studio emerge un’importante tipologia in termini dei tipi d’imprese in cui l’occupazione diminuisce, è stabile, o cresce. -----

L’impresa europea in cui l’occupazione diminuisce

- È di proprietà di una multinazionale dell’UE

- Ha una grande forza lavoro

- È portoghese o tedesca

- Ha una forza lavoro molto sindacalizzata

L’impresa europea in cui l’occupazione è stabile

- È danese

- Opera nel settore non-profit

- Appartiene al settore del commercio

- Pratica la flessibilità funzionale

L’impresa europea in cui l’occupazione cresce

- È molto innovativa

- È una sussidiaria di una impresa non dell’UE

- È irlandese o olandese

- Pratica la flessibilità di contratto moderatamente

- Non è sindacalizzata

Si noti che l’occupazione diminuisce nelle imprese con forza lavoro sindacalizzata e che le imprese innovative agiscono negativamente sulla sindacalizzazione della classe operaia. Indubbiamnte ció é dovuto al tipo di lavoro creato dalle imprese innovative che assumono sempre di piú con contratti a termine o interinali. Secondo stime dell’Eurostat, tra il 1994 e il 2000, la proporzione dei lavoratori con contratto a termine o con contratti interinali sale dell’8.9% e del 15.1%.

In breve, le imprese europee sottopongono in varie misure i loro lavoratori alla dequalificazione delle mansioni, non introducono innovazioni (si preferisce tagliare i salari), riducono l’occupazione (un terzo di esse), e la maggioranza dei nuovi posti lavoro creati è o part-time o a contratto temporaneo. Questi lavori implicano una maggiore esposizione a condizioni di lavoro gravose e malsane. Per di più in quelle imprese in cui l’occupazione cresce di più, la forza lavoro è meno sindacalizzata. Questi sono dati su cui il movimento sindacale dovrebbe riflettere.

(C) Discriminazione sessuale. Vi sono grandi differenze tra gli uomini e le donne che sono impiegati nei vari settori dell’economia a livello europeo. Ciò è importante anche a causa delle diverse remunerazioni delle diverse occupazioni.

Degli impiegati e degli addetti alle vendite e ai servizi (occupazioni a bassi salari) le donne sono quasi il doppio degli uomini. Tra i professionisti, sono gli uomini che rappresentano una più alta percentuale. Tuttavia, tra i lavoratori non qualificati vi sono più uomini che donne, anche se la differenza non è vistosa.

I dati sulla distribuzione del reddito per sessi (Tabella 4 qui sotto) sono eloquenti. Essi rivelano che il 26% delle donne lavorano a basso livello di reddito mentre per gli uomini la percentuale è molto minore, il 9%. Se consideriamo il livello basso-medio, le percentuali sono del 24% e del 19%. Per il livello medio-alto, esse sono del 17% e 22%. Infine, gli uomini con un livello di reddito alto sono più del doppio delle donne.

È anche significativo che i lavoratori il cui diretto superiore sia una donna siano il 28% nei paesi scandinavi e nella Gran Bretagna ma solo il 17% in Italia, al di sotto della media europea del 19%. Sono interessanti anche i risultati delle interviste riassunte nela tabella 5.

Cioè circa il 20% dichiara di aver personale sotto la sua supervisione, ma di questi circa 24% sono uomini e circa il 14% sono donne. Infine, gli ultimi dati statistici disponibili sono eloquenti sia per quanto riguarda i salari sia per ciò che concerne la disoccupazione.

(D) Salute e benessere. Quest’aspetto include sia la salute fisica che mentale. I problemi più associati col lavoro sono di carattere muscolare e delle ossa (muscoloskeletol). Secondo la Fondazione Europea, questi disturbi hanno raggiunto una dimensione epidemica. “Nel 2000, il 33% dei lavoratori dichiararono dolori di schiena, in confronto al 30% nel 1995, e il 23% dichiararono dolori nel collo e nella schiena. È vero che queste sono dichiarazioni rilasciate dai lavoratori stessi, però un controllo incrociato condotto nel Regno Unito nel 1995 con dottori che esercitavano la professione al fine di verificare uno studio analogo confermò le dichiarazioni dei lavoratori.” (Fondazione Europea, 2002, pp.14-15). Inoltre il 28% dei lavoratori dichiarano di soffrire di stress dovuto al lavoro. La seguente tabella evidenzia una visione più dettagliata.

Le tabelle 1 e 2 più sopra hanno messo in evidenza l’aumento dell’intensità di lavoro e, all’interno di questo contesto generale, il maggior aumento per coloro con contratti interinali che per coloro con contratti a scadenza fissa e ancor più di coloro con contratti a tempo indefinito. Questo dato è importante perché numeroso studi evidenziano una correlazione tra il lavoro interinale da una parte e condizioni di lavoro gravose e dannose condizioni di salute dall’altra (si veda più sotto).

Questa tabella evidenzia come i lavoratori interinali siano esposti più dei lavoratori a contratto a termine fisso e più dei lavoratori a contratto indefinito a posizioni dolorose, a vibrazioni, e a rumore. Le differenze tra i lavoratori con contratto a tempo indefinito e con contratto a termine fisso sono meno grandi. Ma il dato che emerge più di tutti è la grande esposizione a queste tra fonti di lavoro gravoso e dannoso per tutte e tre le categorie di lavoratori.

Inoltre, vi sono problemi che anche se non sono problemi di salute nel senso stretto, sono in ogni caso problemi di benessere che sono strettamente correlati al lavoro, come le molestie sessuali e altre forme di violenza. Nella Finlandia ben il 15% dei lavoratori dichiara di essere soggetto ad intimidazione, seguita dall’Olanda e dal Regno Unito con il 14% mentre in Italia la percentuale è solo del 4%, la più bassa assieme a quella del Portogallo (mentre la media europea è del 9%). Ciò non vuol dire che le intimidazioni sul lavoro siano meno in Italia e in Portogallo che nelle altre nazioni europee. Ciò significa solo che le medie più alte si trovano in quei paesi in cui il dibattito su queste questioni è più attivo e aperto.

Le ragioni per l’aggravarsi della salute e del benessere dei lavoratori sono multiple. Prima di tutto, le nuove tecnologie, basate sull’uso del computer, aumentano la pressione e il ritmo di lavoro, così come la capacità di controllo sui lavoratori. In secondo luogo, non si sono ridotte sufficientemente (se si sono ridotte) le cause di tali disturbi, nonostante un’ampia documentazione sulla materia. Terzo, tali disturbi sono strettamente correlati con l’organizzazione del lavoro, specialmente in quelle aziende in cui la norma è il lavoro ripetitivo e stressante. Le privatizzazioni e le fusioni giocano un ruolo importante attraverso la riduzione del personale (il che aumenta la pressione su coloro che rimangono al loro posto di lavoro). A questo riguardo è importante sottolineare che un terzo dei lavoratori dichiara di non aver nessun controllo su come il loro lavoro e i loro compiti sono organizzati. Il 40% dichiara altresì di dover fare lavori e movimenti ripetitivi. L’analisi mette in luce la stretta correlazione tra lavoro ripetitivo e disturbi muscolari e delle ossa, una correlazione che diventa sempre più stretta se l’intensità del lavoro e il carico di lavoro aumentano. Infine, anche le nuove forme di organizzazione del lavoro - basate su una maggiore responsabilità, sulla multicapacità, e su un tipo di lavoro che domanda e richiede maggiori qualificazioni - necessitano allo stesso tempo un maggior impegno e dispendio di energie. Ciò, a sua volta, conduce ad un maggiore stress, a disordini muscolari e delle ossa, e ad incidenti sul lavoro. Questa intensità del lavoro, definita dalla European Foundation come ‘una delle tendenze più significative degli ultimi anni’, è aumentata costantemente nell’ultimo decennio, come si può vedere dalla tabella piú sopra.

Questa intensificazione colpisce tutti i paesi della Unione Europea, tutti i settori dell’industria e tutte le categorie occupazionali, anche se in varia misura. L’intensificazione del lavoro è direttamente collegata allo stress, ai disordini muscolari e delle ossa. Vi è anche una correlazione con fenomeni di violenza e molestie sessuali (European Foundation, 2002, p.17). Gli effetti sulla salute del dover lavorare ad alta velocità emergono chiaramente dalla tabella seguente, dove il confronto è fatto con coloro che non devono fare mai lavori sotto pressione.

È stata documentata ampiamente anche la correlazione tra problemi di salute e l’aumento delle ore di lavoro. Anche il lavoro a turni e il lavoro notturno possono avere effetti deleteri per la salute. Vi è anche, come già detto più sopra, una correlazione tra forme di lavoro precario e salute. Questo è stato documentato da un vasto corpo di ricerca. Le donne sono meno esposte ai rischi ‘tradizionali’ sul lavoro ma più esposte alla discriminazione, intimidazione e molestie sessuali. Infine, a differenze della situazione precedente, maggiori probabilità di danni alla salute esistono non solo nei settori ‘tradizionali’ come l’edilizia e la manifattura, ma anche in ‘nuovi’ settori come i trasporti e il catering.

Un’analisi per settore rivela le quattro le categorie che sonno soggette a rumore, a vibrazioni, a fumi e vapori, che devono lavorare in posizioni che causano dolore o stanchezza, o che devono portare pesi pesanti: esse sono i lavoratori agricoli, gli artigiani, gli operatori di macchine (machine operators) e coloro che hanno occupazioni elementari (European Foundation, 2001b, pp. 10-11).

(E) Qualità del lavoro. La qualità del lavoro dipende dalla possibilità che il lavoro offre di sviluppare le potenzialità dei lavoratori favorendo così la creazione di lavoratori qualificati (ma non necessariamente specializzati). Vi sono ovviamente varie misure della qualità del lavoro. La tabella 11 si basa su quattro indicatori.

Alcuni dati balzano subito all’occhio. La percentuale di coloro che lavorano durante il fine settimana aumenta se si passa dai lavoratori dipendenti con contratto permanente, ai lavoratori dipendenti con contratto temporaneo, e ai lavoratori indipendenti. Ben più della metà dei lavoratori indipendenti che lavorano a tempo pieno lavorano durante il fine settimana (56.8%) in confronto al 21% dei dipendenti permanenti a tempo pieno. La percentuale è minore per i lavoratori indipendenti part-time (35.6%) ma è maggiore di quella delle altre categorie di lavoratori. Ciò richiama alla memoria la caratterizzazione data da Marx dei lavoratori indipendenti come coloro che si ‘auto-sfruttano’ più di quanto siano sfruttati i lavoratori dipendenti. Il fatto che tra l’85% e il 90% di tali lavoratori possano controllare il loro tempo di lavoro indica non una maggiore libertà e una migliore qualità del lavoro ma semplicemente la condizione di doversi auto-sfruttare al massimo. Tale tendenza al massimo auto-sfruttamento è dovuta alla minaccia insita nel fatto che per molti di tali lavoratori l’unica alternativa è la disoccupazione. In questa categoria, si trova anche la maggior proporzione di lavoratori che non hanno ricevuto una formazione professionale sul lavoro nell’ultimo anno. La tabella che segue dà informazioni più dettagliate sulla mancanza di tale formazione per categoria di contratto. Si evince che i lavoratori più svantaggiati sono gli interinali, seguiti dai lavoratori con contratto temporaneo e infine da quelli con contratto permanente.

Infine, per quanto riguarda le specializzazioni, la maggior proporzione dei lavoratori non specializzati si trovano prima nei lavoratori dipendenti con contratto temporaneo part-time, poi nei lavoratori indipendenti con contratto part-time, e infine nei lavoratori dipendenti con contratto permanente ma part-time. In altre parole, in ciascuna di queste categorie il lavoro part-time ha maggiori probabilità di essere un lavoro non qualificato. Ovviamente, come aumenta il part-time, aumenta anche la precarietà del lavoro.

Un’altra misura della qualità del lavoro è data dalla tabella che segue. Essa permette un confronto tra il 1995 e il 2000. Purtroppo, però, su si basa su sei categorie diverse da quelle della tabella precedente.

La prima categoria, “far fronte agli standars di qualità” è vaga e probabilmente riflette più la percezione degli intervistati della propria posizione sociale che la qualitá del loro lavoro. Si nota in ogni caso un leggero peggioramento dal 1995 al 2000. Lo stesso si può dire della seconda categoria “valutazione della qualità” che riguarda la valutazione da parte dei lavoratori stessi della qualità del loro lavoro. A questo riguardo bisogna dire che l’autovalutazione può essere un metodo estremamente efficace di controllo da parte dell’azienda. Da una parte costringe il lavoratore ad immedesimarsi nei fini e negli obiettivi dell’azienda, dall’altra, se tale autovalutazione non è soddisfacente, scatta un meccanismo di auto-supervisione e auto-controllo. Infine, tale autovalutazione è immancabilmente collegata alla richiesta da parte dell’azienda di suggerimenti, che devono essere proposti dai lavoratori stessi, su come migliorare la qualità del proprio lavoro anche se la (auto)valutazione è stata positiva. Quindi questo secondo criterio è più un criterio per il controllo sul lavoro che sulla qualità del lavoro (nel senso indicato più sopra).

La capacità, o possibilità durante il lavoro, di risolvere problemi non previsti rimane immutata. Essa, come l’altro criterio, lo svolgere lavoro che implica compiti complessi, potrebbe essere una misura di un lavoro vario e gratificante. In effetti, questo non è il caso. Lo svolgere lavori complessi e il risolvere problemi possono essere una manifestazione sia di una dequalificazione delle mansioni sia di una loro riqualificazione. L’aggiungere compiti dequalificati ad altri e l’affrontare i problemi che ne possono derivare, lungi dall’essere un segno di un miglioramento delle condizioni di lavoro, indica una maggiore flessibilità funzionale ai fini, e vantaggiosa per l’azienda. [6] È in questa luce che i dati sulla monotonia del lavoro devono essere visti. Maggiori compiti possono diminuire la monotonia del lavoro ma possono altresì aumentare la flessibilità (disponibilità) e l’intensità del lavoro. Non a caso, a questa minore monotonia si accompagna una diminuita opportunità di apprendimento. Mentre il 92% dei professionisti gode di tali opportunità, la percentuale è del 38% per le occupazioni elementari e del 63% per i lavoratori nei servizi. In queste due categorie vi è anche una diminuzione di tali opportunità del 10% dal 1995 al 2000. Questo handicap si riflette anche sul piano della disoccupazione.

Questi dati, assieme a quanto detto più sopra sulla grande incidenza del lavoro part-time, e quindi della precarietà del lavoro, conduce ad un’unica conclusione: che il processo di globalizzazione è stato accompagnato da un deterioramento della qualità del lavoro, soprattutto per gli strati più deboli. Un’altra conclusione è altrettanto ovvia: che il sindacato dovrebbe enfatizzare la qualità del lavoro nell’elaborare la propria strategia.

3. I mutamenti nel tempo di lavoro e il pluslavoro. [7]

Negli anni ‘80 e ‘90 vi sono stati mutamenti importanti nelle relazioni tra lavoratori e datori di lavoro. Mentre i lavoratori a tempo pieno sono ancora la maggioranza della popolazione lavoratrice, si è visto negli ultimi anni il sorgere e l’espandersi di altre forme di contratto di lavoro, quali il lavoro non fisso e il lavoro part-time. I dati sono come segue:

Come si vede, oggigiorno coloro che hanno un contratto a tempo pieno e a tempo indeterminato (cioè con la maggior garanzia di un reddito regolare) sono stati ridotti a poco più della metà della popolazione lavoratrice: 55% per la UE and 57% per l’Italia. I contratti sono diventati flessibili (vedi sopra) e le condizioni di lavoro precarie. L’Italia si contraddistingue per la maggior proporzione dei piccoli imprenditori e dei lavoratori autonomi, due categorie che spesso sono un serbatoio di disoccupazione nascosta.

Per quanto riguarda la durata del lavoro settimanale in Europa essa è di 38,2 ore per tutti i lavoratori. Vi è però una grande differenze tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti, come si vede dalla seguente tabella.

Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, la seguente tabella analizza le grandi differenze per tipo di contratto.

La tabella che segue dimostra che vi è un aumento del lavoro part-time dal 1995 al 2000 è che tale lavoro è ancora e sempre di più un fenomeno che riguarda i lavoratori di sesso femminile.

Coloro che lavorano meno di 30 ore settimanali (part-time) aumentano dal 15% al 16% dei lavoratori, però dato che essi sono per il 30% donne (contro il 6% degli uomini) e dato che le donne si trovano nei livelli salariali più bassi (vedi tabella 4, più sopra), un aumento del lavoro part-time si riflette in una diminuzione del monte salari per tali lavoratori. -----

Altre caratteristiche del lavoro part-time possono essere sottolineate.

- Abbiamo visto che la settimana lavorativa media in Europa è di 38.2 ore (si veda tabella 16 più sopra). Vi sono però grandi differenze tra nazioni a causa del lavoro part-time. La media settimanale per tutti i lavoratori (dipendenti e autonomi) è più bassa in Olanda: 32.9 ore, a causa del suo tasso di lavoratori part-time, il più alto in Europa. Quella più alta è in Grecia (42.4), mentre l’Italia è al di sopra della media (39 ore).

- Vi sono grandi differenze tra tipi di lavoro. I lavoratori con contratto a termine e quelli con contratto interinale lavorano di più part-time.

- Vi sono grandi differenze tra occupazioni. La proporzione maggiore di lavoratori part-time si trova nei settori della vendita e dei servizi (33%) e delle occupazioni elementari (31%) mentre quella minore si trova nelle forze armate (4%) e negli operatori di macchina (5%).

- Il 23% dei lavoratori part-time dichiara che vorrebbe lavorare più ore e il 9% che vorrebbero lavorare meno ore. Mentre l’8% delle donne vorrebbe, lavorare meno ore, la proporzione per gli uomini e 17%.

Abbiamo considerato un tipo di lavoro atipico, il lavoro part-time. Un altro tipo di lavoro atipico è il lavoro interinale. La dimensione di questo nuovo fenomeno è relativamente modesta: si stima che, nel 1999, si aggirasse tra 1,8 milioni e 2,1 milioni. Questo è circa tra il 1.1% e il 1.3% del totale della popolazione lavoratrice. È tuttavia un fenomeno in grande espansione (vedi sopra, sezione 2B). Dal 1992, i lavoratori interinali sono raddoppiati in Belgio, nel Lussemburgo, in Inghilterra, in Olanda e in Germania, mentre si sono quadruplicati in Austria; dal 1995, si sono quadruplicati in Portogallo e quintuplicati in Spagna. In termini assoluti, sono la Francia (623.000 e in rapida crescita) e l’Inghilterra (557.000, raddoppiati dal 1992) che hanno il numero maggiore di lavoratori interinali. In termini relativi lo è l’Olanda (4% dei lavoratori dipendenti). Le nazioni in cui tale fenomeno cresce più rapidamente sono l’Italia e la Svezia. I lavoratori interinali sono giovani (ma l’età media incomincia a crescere), sono in prevalenza uomini e lavorano principalmente nell’edilizia (con l’eccezione dei paesi nordici).

È chiaro che questo tipo di impiego può disturbare sia la vita lavorativa che quella familiare. In molti paesi dell’UE, questi lavoratori non sono difesi né dal sistema legale (con l’eccezione della Svezia) né dai contratti collettivi. Questa è una deficienza del sindacato. Inoltre, spesso non è chiaro chi abbia la responsabilità sulle condizioni di lavoro, della salute e dell’addestramento (training) di questi lavoratori. Essi sono quindi in una posizione svantaggiata in confronto ad altre categorie di contratto. Per esempio:

- Gli incidenti sul lavoro non vengono denunciati

- Le ore lavorative sono decise esclusivamente dal datore di lavoro e i lavoratori non hanno nessuna influenza sul ritmo di lavoro

- L’addestramento sul lavoro (training) è il più basso di tutte le categorie di tipo di contratto (23%) con l’eccezione di coloro che apprendono un lavoro (apprendistato).

La flessibilità ha un notevole effetto sulla durata del lavoro, un effetto certamente negativo per i lavoratori che sono costretti a organizzare il loro tempo di lavoro, sia settimanale che giornaliero, a seconda delle esigenze del capitale. La durata della settimana lavorativa è stabilita legalmente. Nell’UE, vi sono tre categorie di paesi con diverse lunghezze di settimane lavorative.

Nella prima categoria, con una durata massima di 48 ore, questo limite è di gran lunga maggiore della durata stabilita tramite contratti collettivi e della durata lavorata effettivamente. Questo limite quindi opera come una rete di sicurezza e denota un ruolo abbastanza passivo dello Stato. Invece il massimo di 40 ore nella seconda categoria è molto più vicino alla durata effettiva e contrattata e quindi denota un ruolo più attivo dello Stato. Ora, questi massimi possono essere facilmente ecceduti nel contesto della flessibilizzazione. Vediamo un paio di esempi.

- In Austria è permesso lavorare fino a 50 ore settimanali se si mantiene una media di 40 ore per un certo periodo.

- In Olanda la giornata lavorativa può essere estesa fino a 12 ore se in media la settimana lavorativa non eccede le 60 ore per un periodo di 4 settimane e le 48 ore per un periodo di 13 settimane.

- In Norvegia, in circostanze specifiche e previo accordo coi sindacati, la settimana può essere di 54 ore e la giornata di 10 ore per un massimo di 6 settimane consecutive.

- In Portogallo è permesso lavorare 50 ore alla settimana a patto che la media di 40 ore è mantenuta per un periodo di 4 mesi.

Vi è anche un limite legale per la giornata lavorativa, come riassunto nella seguente tabella:

Anche in questo caso, questi limiti possono essere violati come conseguenza della flessibilizzazione. Per esempio:

- In Germania il limite può essere esteso a 10 ore se la media di 8 ore è mantenuta per 24 settimane.

- In Olanda, come menzionato più sopra, la giornata lavorativa può essere estesa a 12 ore se in media la settimana lavorativa non eccede le 60 ore per un periodo di 4 settimane e le 48 ore per un periodo di 13 settimane.

- In Spagna la giornata può essere allungata se la media di 9 ore è mantenuta per un certo periodo di riferimento.

È in questo contesto che bisogna porre la diminuzione delle settimana lavorativa dal 1995 al 2000. Per i lavoratori autonomi, si passa da 47 ore a 46,1 ore mentre per i lavoratori dipendenti si passa da 38 ore a 36.7 ore. Anche la disoccupazione cala, come si vede dalla seguente tabella:

Quindi, mentre l’occupazione cresce, la settimana lavorativa decresce. Cioè si lavora in più ma si lavora meno. Questo, è un dato positivo per i lavoratori o no? Non lo è. Prima di tutto, a prescindere dal miglioramento suddetto, le condizioni per certi settori della classe lavoratrice rimangono terribili.

Come si vede, l’Italia ha il poco invidiabile primato di essere il paese dell’UE che ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile a lungo termine. Il tasso è ancor maggiore per i giovani del Sud Italia e per le giovani. La differenza tra i due gruppi di età è eclatante, come si vede nella prossima tabella. Anche qui l’Italia ha il triste primato di essere il paese col tasso più alto.

Si è visto più sopra che il tasso di disoccupazione è maggiore anche per quanto riguarda le donne rispetto agli uomini (tabella 7) e i lavoratori non qualificati relativamente a quelli qualificati (tabella 14). Quindi, chi paga di più per la disoccupazione sono i giovani, le donne e gli operai non specializzati. Vi è stato evidentemente uno scambio, il capitale ha diminuito la settimana lavorativa e la disoccupazione in cambio di un aumento della flessibilità, del ritmo di lavoro, ecc., cioè di tutti quei fenomeni che sono stati analizzati nella prima sezione, mentre la disoccupazione per gli strati più indifesi della popolazione lavorativa (giovani, le donne e gli operai non specializzati) rimane catastrofica.

Secondo, prescindendo da queste caratteristiche negative, consideriamo gli effetti della diminuzione della settimana lavorativa sui salari. Vediamo prima di tutto la posizione ufficiale. Non a caso, la ‘moderazione’ salariale è la raccomandazione costante sia della Commissione Europea che del Consiglio Europeo le cui direttive (guidelines) per la politica economica dei paesi membri raccomandano che “nessuna riduzione del tempo di lavoro globale conduca ad un aumento dei costi unitari di lavoro”. Ciò sembrerebbe significare che una diminuzione del tempo di lavoro non debba essere compensata da un aumento dei costi di lavoro reali, della proporzione del PIL che va al monte salari. In altre parole, ciò sembrerebbe significare che si parli di un aumento assoluto del monte salari. In effetti non si tratta di un aumento assoluto ma di un aumento relativo alle ore lavorate. Se le ore lavorate diventa il termine di paragone, affinchè “nessuna riduzione del tempo di lavoro globale conduca ad un aumento dei costi unitari di lavoro”, la diminuzione del tempo di lavoro deve essere accompagnata da una uguale riduzione del costo del lavoro. [8] Vediamo come stanno le cose a livello europeo.

Incominciamo dai salari nominali. Il loro tasso di crescita aumenta dal 1960 alla metà del 1970. Questo tasso era di circa il 9% alla fine degli anni ‘60 e aveva raggiunto il massimo, il 19%, nel 1975. Ciò è dovuto alla crescente forza del movimento operaio in quel periodo. Con la sconfitta del movimento, il tasso di crescita diminuisce costantemente fino a raggiungere il 3% alla fine degli anni ‘90.

Come si vede, in Europa i salari nominali cadono, i prezzi pure, ma siccome i salari cadono più dei prezzi, la crescita dei salari reali cade dal 4.7% annuale nel 1961-70 a circa l’1% del ventennio 1980-2000. i salari reali crescono ma ad un ritmo sempre minore. La crescita dei salari reali in Italia è al di sopra della media europea fino all’ultimo decennio per poi precipitare al di sotto di essa nel periodo 1991-2000.

L’aumento dei salari reali deve essere rapportato all’incremento della produttività del lavoro. Se i salari reali crescono ad una percentuale maggiore della produttività del lavoro, vi è una ridistribuzione del reddito a favore del lavoro e a sfavore del capitale. L’opposto vale per un incremento della produttività del lavoro maggiore di quello dei salari reali. A livello europeo, mentre nel decennio 1961-70 i due indici crescono più o meno allo stesso tempo, cioè l’incremento della produttività è diviso più o meno ugualmente tra capitale e lavoro, nel decennio successivo, la fetta al lavoro aumenta leggermente per poi cadere precipitosamente nel ventennio 1981-200, in cui la fetta maggiore va al capitale. [9]

La situazione in Italia si contraddistingue per la sua differenza con la media europea. Nel decennio passato, praticamente tutto l’aumento della produttività è andata al capitale, una distribuzione molto più sfavorevole di quella a livello europeo.

La relazione tra aumenti dei salari reali e aumenti della produttività si riflette sulla fetta di reddito nazionale che va al lavoro. Più aumentano i salari reali relativamente all’aumento della produttività, più aumenta la fetta di reddito che va al lavoro. Ciò può essere visto nella seguente tabella:

Mentre negli ultimi vent’anni la quota del lavoro è costantemente diminuita, di 3.9 punti percentuali, in Italia la diminuzione è stata ancor maggiore, di 5 punti percentuali.

In breve, negli ultimi 20 anni del secolo scorso si nota un declino del tasso di crescita dei salari nominali e di quelli reali. I salari reali aumentano meno dell’aumento della produttività. Vi è quindi una ridistribuzione a favore del capitale.

4. Il sindacato

Uno delle implicazioni della vittoria del pensiero neo-liberista per il sindacalismo è l’idea, comunemente accettata, che la concertazione a livello di impresa “può dare ai lavoratori dipendenti un maggior controllo sul loro lavoro attraverso il coinvolgimento degli attivisti sindacali nello sviluppo di nuove forme organizzative di lavoro e attraverso la creazione di posti di lavoro ad alta prestazione” (A.Danford, M.Richardson, M.Upchurch, 2002, p.2). I dati presentati in questo articolo sono una confutazione netta di tale posizione. Due conlusioni seguono. Prima di tutto, la concertazione non paga a livello europeo e paga ancor di meno a livello italiano. Quindi,ogni posizione che continui la linea compartecipativa non può che peggiorare tali condizioni, diminuire la combattività, e indebolire i sindacati e le organizzazioni della classe operaia. Siccome l’attacco viene sferrato prima di tutto contro le categorie più deboli, è necessario avanzare domande per un miglioramento delle condizioni di lavoro dei precari, per una riduzione del divario sia nelle mansioni che nel reddito tra uomini e donne, ecc.

Secondo, l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori non è un fenomeno isolato ma è un’attacco a livello internazionale. Quindi la risposta deve essere data a livello internazionale. Cosa significa ciò concretamente? Prima di tutto dobbiamo essere coscienti che l’attacco padronale è globale, anche se si manifesta in forme talvolta estremamente diverse in vari paesi, e che quindi il movimento sindacale deve dare una risposta globale a quest’attacco. Secondo, bisogna essere coscienti delle ragioni e conseguenze internazionali dei problemi locali. Terzo, è necessario divulgare le violazioni dei diritti sindacali non solo in Italia ma anche all’estero. Quarto, bisogna evidenziare che tali violazioni hanno una radice specifica nella internazionalizzazione del capitale. Quinto bisogna supportare lotte sindacali all’estero attraverso informazione, coordinazione di proteste, messaggi di solidarietà, partecipazione in campagne internazionali, pressioni sul governo, boicottaggi, se possibile supporti finanziari, pressioni per l’abolizione di leggi anti-sindacali, provvedere assistenza a sindacati e membri sindacali, ecc.

Creare contatti permanenti con sindacati e centrali sindacali estere al fine di scambiarsi esperienze, ecc. Sesto, bisogna indagare sugli investimenti esteri in Italia e le loro conseguenze per il movimento sindacale e fare lo stesso per investimenti italiani all’estero, specialmente in paesi a regime totalitario e fascista. Settimo, bisogna essere coscienti che ogniqualvolta gli interessi nazionali, compresi gli interessi della classe operaia nazionale, vengono contrapposti alla solidarietà internazionale, sono gli interessi del capitale che vengono favoriti, non quelli della classe operaia. Ottavo, essere coscienti che, anche se la solidarietà internazionale non è un sostituto della forza sindacale nelle fabbriche, negli uffici, ecc. essa può tuttavia rafforzare la forza sindacale locale.

In breve, bisogna fare in modo che la solidarietà internazionale diventi parte integrale della vita sindacale nazionale, bisogna essere coscienti della sua funzione positiva per il sindacato nazionale, ed essere coscienti che questa è l’unica risposta all’attacco padronale su piano internazionale. Questo è il nuovo compito del sindacato nell’era della ‘globalizzazione’.

BIBLIOGRAFIA

Bellofiore, R. (1998), Il Lavoro di Domani, Franco Serantini, Pisa

Carchedi, G. (1998), L’Euro e il movimento operaio europeo, in Bellofiore (1998)

A.Danford, M.Richardson, M.Upchurch, (2002), ‘New Unionism’, organising and partnership, Capital and Class, N.76, Spring

European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, (2001a), Employment through flexibility: squaring the circle

European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, (2001b), Third European Survey on Working Conditions

European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, (2001c), A trade union guide to globalization

European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, (2001d), Working Conditions in Atypical Work

European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, (2002), Quality of work and employment in Europe: issues and challenges, Foundation paper No.1, February

European Industrial Relations On Line (2001), Labour costs - Annual update, 2001.

European Industrial Relations Observatory on-line, (2001a), working times developments - annual update 2001.

European Industrial Relations Observatory on-line (2001b), Wage Policy and EMU

Eurostat, Economic portrait of the European Union 2001,


[1] Questa prima sezione è basata su Carchedi, 1998.

[2] Questa sezione si basa su alcune parti delle pubblicazioni della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions citate nel testo. I commenti e le conclusioni sono ovviamente di responsabilità dell’autore.
I dati che più interessano sono sulle classi e cioè su come le mutate condizioni del lavoro, compresa l’organizzazione del lavoro, influiscono sulle diverse classi. Questi, purtroppo, non sono i dati forniti dalle pubblicazioni consultate in quest’articolo. Le diverse occupazioni non corrispondono alle diverse classi ma, in mancanza di meglio, potrebbero servire come un’indicazione, anche se molto vaga e imprecisa. Tuttavia i dati non sono neanche per occupazione ma per tipo di contratto di lavoro. Quindi gli intervistati appartengono sia ai lavoratori che agli imprenditori che ad altre classi. Per esempio, “employees” equivale a lavoratori dipendenti, che quindi comprendono anche managers, supervisori, ecc. Ciononostante, questi dati evidenziano importanti elementi di analisi e di riflessione.
I dati nelle indagini della European Foundation sono basati su interviste condotte in tutti i paesi della UE. Quelli della Terza Survey (2001b) sono basati su 21.703 interviste che dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione attiva, cioè di coloro che, quando furono intervistati, erano sia lavoratori autonomi o dipendenti e che, nella settimana di riferimento, avevano lavorato per salari/stipendi o per profitti. Coloro che erano temporaneamente assenti dalla loro attività economica erano inclusi mentre i pensionati, i disoccupati, le casalinghe e gli studenti erano esclusi.

[3] I dati nella tabella seguente si riferiscono a coloro che devono lavorare a ritmo elevato per almeno un quarto dei loro tempo. La percentuale per coloro che devono lavorare a ritmo elevato sempre o quasi sempre è per il 2000 del 24%.

[4] Essi sono: Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Inghilterra.

[5] In genere le innovazioni tecnologiche rimpiazzano operai e impiegati con mezzi di produzione, come macchine ecc. Quindi l’impresa innovatrice riduce l’occupazione per unitá di capitale investito. Peró, se la domanda cresce sufficentemente, piú capitale é investito e l’occupazione totale cresce per quelle imprese innovatrici.

[6] A.Danford, M.Richardson, M.Upchurch, (2002), sostengono che l’intensificazione del processo lavorativo avviene “non solo aumentando il ritmo del lavoro ma anche catalizzando una ricomposizione del lavoro attraverso un processo di compiti multipli, o di mix di abilità” (p.15)

[7] Anche in questa sezione i dati provengono per la maggior parte dalle pubblicazioni della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions citate nel testo. I commenti e le conclusioni sono ovviamente di responsabilità dell’autore.

[8] Per di più, il capitale reagirebbe ad un aumento assoluto del monte salari tentando di aumentare la intensità del lavoro.

[9] I salari reali sono definiti come l’incremento percentuale annuo dei salari nominali corretti per l’inflazione. La produttività del lavoro è definita come l’incremento percentuale annuo del PIL ai prezzi di mercato del 1995.