Sindacati, fondi pensione e mercati finanziari: bilancio e limiti delle strategie nord-americane. Quale valore d’esempio per i sindacati in Europa?

Catherine Sauviat

Introduzione: i sindacati nei mercati di capitale

I sindacati nord-americani da qualche anno si sono mobilitati per la questione dei “soldi dei lavoratori” e del loro utilizzo. Questo capitale, accumulato in fondi pensione (FP) in previsione del pensionamento dei lavoratori e investito nei mercati finanziari, è considerato come un salario differito: i sindacati ne richiedono per questo il controllo, se non esclusivo almeno in accordo con i lavoratori, affinché gli investimenti derivanti dal risparmio finanziario non compromettano gli interessi dei lavoratori che rappresentano (ristrutturazioni, licenziamenti, privatizzazioni di servizi pubblici, etc.).

Negli Stati Uniti, l’AFL-CIO ne ha fatto il fulcro della sua strategia dalla metà degli anni ‘90 (ap Roberts, 1999; Sauviat e Pernot, 2000). In Canada, il Congrès du Travail du Canada (CTC) ha sollevato la questione già dal 1986 e negli anni ‘90 ha riaffermato la sua volontà di esercitare un controllo sugli investimenti nei FP, con lo scopo di sostenere le priorità del movimento sindacale canadese, tra cui la creazione di nuovo impiego (Baldwin, 1998). Queste iniziative nordamericane non sono rimaste isolate. In Europa, il Trade Union Congress britannico (TUC) è presente in questa questione e la Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi (CISL) si è recentemente dedicata a questo tema, cercando di allargare sul piano internazionale il campo di azione sindacale (Sauviat, 2001). Anche l’Internazionale dei Servizi Pubblici (ISP), a gennaio di quest’anno, ha affidato ad una trentina dei suoi esponenti il compito di riflettere sulle modalità di una cooperazione sindacale a livello internazionale (Concialdi, 2001). La Confederazione Europea dei Sindacati (CES) è rimasta fin’ora relativamente in disparte su questo tema.

Queste differenti iniziative sono state intraprese principalmente tra gli anni ‘80 e ‘90, e sono state caratterizzate, nella maggior parte dei paesi, da una generale riduzione della capacità d’intervento del sindacalismo (declino dei sindacati e degli scioperi, della negoziazione collettiva, etc.). Inoltre sono state più radicali dove si è sviluppato un regime pensionistico capitalizzato, costituendo spesso un “pilastro” fondamentale per le pensioni dei lavoratori delle grandi imprese ma non per tutti i lavoratori. Questi regimi pensionistici contribuiscono anche ad alimentare, in maniera consistente, la liquidità dei mercati finanziari, mentre i loro gestori procedono regolarmente all’acquisto e alla vendita di titoli. Non è un caso se l’iniziativa di questa mobilitazione è partita dai sindacati americani: infatti gli introiti dei FP americani rappresentano il 71% dell’attivo dei FP a livello mondiale (OCDE, 2000) e una capitalizzazione di borsa che da sola è pari alla metà di quella mondiale.

Tuttavia i sindacati non sono riusciti, negli Stati Uniti ancor meno che in altri paesi, ad imporre un rapporto di forza durevole in loro favore, sia nella negoziazione tra imprese e lavoratori, sia a livello politico nei confronti dello Stato. Negli Stati Uniti ciò è imputabile all’incapacità dei sindacati di esercitare un efficace rapporto di forza sul terreno tradizionale dell’organizzazione e della negoziazione collettiva, oltre che all’insufficiente pressione (con la conseguente ricerca nuove strategie d’azione) esercitata nel far modificare il quadro legislativo antisindacale o nel fare votare al Congresso una serie di grandi riforme sociali.

La stessa questione comincia ad essere posta oggi in Europa all’interno di quei paesi in cui questo rapporto di forza è ben differente e dove il risparmio capitalizzato nell’impresa guadagna terreno: così l’IG Metall e la federazione padronale Gesamtmetall hanno annunciato, nel quadro della riforma delle pensioni votata in Germania nel maggio 2001 che introduce una parte di capitalizzazione nelle pensioni, l’intenzione di creare un FP di settore, amministrato pariteticamente. Il sindacato metallurgico ha condizionato la sua partecipazione all’accordo all’esigenza di una gestione non solamente paritaria ma anche “etica” degli investimenti del futuro FP. In Francia questa questione è stata posta da alcune parti sindacali, la CFDT, in occasione della riforma sul risparmio salariale e sul suo sviluppo.

Nel rinviare ad una successiva analisi le esperienze, vecchie ma limitate, del movimento sindacale nordamericano, si anticipano quelle che sono le principali tematiche che verranno affrontate: a) la creazione e l’utilizzo di strumenti finanziari in funzione dei bisogni dei lavoratori (i fondi d’investimento sindacali); b) l’interesse più recente dei sindacati per gli investimenti “etici” o “socialmente utili” nei confronti dei quali sono rimasti, e restano ancora, relativamente diffidenti; c) l’impegno ugualmente recente in materia di attivismo azionario che consiste per i sindacati nel diretto coinvolgimento nella gestione dei FP con una rivendicazione dei loro diritto di “proprietari”. L’idea alla base di queste iniziative è che i “soldi dei lavoratori” debbano essere impiegati per fini sociali e utili alla comunità stessa dei lavoratori. Questa strategia può servire da trampolino di lancio per la riconquista sindacale e l’affermazione di un potere allargato?

Si cercherà di mettere in evidenza la portata, i limiti e le contraddizioni di un tale impegno. Ci si domanderà quali vie sono state aperte da questa nuova forma di cooperazione sindacale internazionale, agendo sui mercati finanziari piuttosto che sull’azione o sulla negoziazione collettiva. Questa forma d’intervento si sviluppa come supporto privilegiato alle nuove pratiche sindacali internazionali che sembrano soppiantare o sostituire i tentativi più vecchi “d’internazionalismo sindacale”, elaborati con l’esperienza limitata dei consigli di gruppo mondiali degli anni ‘60 e ‘70 o con quelle più recenti legate alla costruzione di comitati di gruppo europei e dei diritti d’informazione e di consultazione dei lavoratori (Rehfeldt, 1993 e 2001).

Potrà questo processo rigenerare il sindacalismo e permettere il riequilibrio dei rapporti di forza a vantaggio del lavoro, accrescendo il suo potere decisionale e i suoi margini di manovra di fronte ad un capitale sempre più globalizzato e sempre più libero nei suoi movimenti?

1. I sindacati nordamericani e la gestione dei fondi pensione (FP)

Il risparmio proveniente dagli attivi accumulati nel quadro dei FP in vista del finanziamento delle pensioni dei lavoratori si è sottratto per molto tempo, e ancora si sottrae, al controllo dei beneficiari. Questo risparmio istituzionale che si è accresciuto molto nel corso degli anni ‘80 e ‘90, è concentrato nelle mani di gestori di risparmio collettivo molto potenti (gestori indipendenti, gestori di fondi mutualistici, filiali di banche o compagnie d’assicurazione, etc.), professionisti nella gestione di attivi, scelti per la maggior parte delle volte dal datore di lavoro (impresa o amministrazione). Così i sindacati non hanno che un ruolo marginale nella gestione di questi fondi, anche se i regimi pensionistici a capitalizzazione costituiscono un elemento centrale nella negoziazione collettiva. Da questo punto di vista, la situazione in Canada si è evoluta in maniera diversa da quella americana, dando maggior spazio ed influenza ai sindacati. È l’espressione di un rapporto di forza sindacati/lavoratori e di una capacità d’intervento più favorevole, che rappresenta traiettorie divergenti nei due sindacalismi, malgrado tradizioni comuni e una forte influenza del sistema delle relazioni professionali americane su quelle canadesi (Costa, 1999).

1.1 L’esclusione dei sindacati dalla gestione dei FP negli Stati Uniti

I FP, generalmente costituiti sotto forma di consorzi indipendenti dall’impresa o dall’amministrazione dalla quale provengono, amministrano le quote di parte delle pensioni versate dai datori di lavoro e/o dai lavoratori, investendole sui mercati finanziari. Ma l’influenza sindacale è strettamente legata allo statuto dei FP. Da questo punto di vista, si distinguono tradizionalmente tre tipi di FP negli Stati Uniti: i FP del settore pubblico (Stato e collettività locali: tra i primi datori di lavoro ad esser sorti), i FP di datori di lavoro del settore privato, la cui espansione risale soprattutto agli anni ‘50 e ‘60 e i FP misti, chiamati anche FP Taft-Hartley o anche, dal 1947, FP sindacali. Insieme, concentrano oggi circa 7.700 miliardi di dollari americani d’attivo e contribuiscono al 23% della capitalizzazione di borsa americana.

I FP del settore pubblico sono generalmente tra i più potenti dal punto di vista dell’impatto finanziario, anche se non rappresentano globalmente che il 40% del totale del valore dei FP (contro il 60% dei FP del settore privato). Regolamentati dagli Stati, vengono di solito gestiti da un consiglio d’amministrazione nel quale sono presenti rappresentanti nominati dallo Stato ed altri eletti dai lavoratori. Questi ultimi appartengono spesso ai sindacati, pur non agendo in loro rappresentanza; inoltre, quando partecipano direttamente al consiglio d’amministrazione dei fondi, sono praticamente sempre in minoranza.

Nei FP dei datori di lavoro del settore privato, regolamentati da una legge federale del 1974 (ERISA), i sindacati si sono fatti estromettere completamente dal controllo dei fondi, dagli stessi datori di lavoro (Roberts, 1999).

Questa situazione non era stata preventivata dai sindacati. Alla fine della seconda guerra mondiale, i grandi sindacati dell’industria in continuo incremento avevano negoziato l’istituzione dei loro regimi pensionistici con i datori di lavoro, cercando di controllarne la gestione. Del resto, il controllo dei fondi pensione, era una delle principali poste in gioco nello sciopero dei minatori del 1946, condotto da John Lewis. È proprio grazie a questa offensiva sindacale e al New Deal in genere, che il sindacalismo ha avuto il suo riconoscimento giuridico; ciò ha permesso il suo riconoscimento negli gli ambienti imprenditoriali, che ha portato a far votare al Congresso la legge Taft-Hartley nel 1947. Questa legge, chiamata dai sindacalisti Slave Labor Act, vieta il controllo sindacale esclusivo dei FP (Roe, 1994).

Questa legge impone da quel momento una gestione paritaria, allo scopo di bloccare il potere acquisito dai sindacati nella gestione dei loro regimi pensionistici e più in generale il rischio di un influsso sindacale crescente sulle imprese e sull’intera economia, formulato esplicitamente dalla destra senatoriale dell’epoca.

I FP “sindacali” saranno di fatto controllati dai sindacati, e non da piccoli datori di lavoro dispersi. Questi regimi si concentrano tipicamente nei settori nei quali le imprese, medie o piccole, offrono salari meno elevati rispetto alle grandi imprese (costruzioni, servizi e trasporti) e quindi producono meno attivo dei regimi d’impresa. In questo contesto, i sindacati non controllano direttamente che una piccola parte degli attivi totali dei FP (circa il 6%), anche se esercitano un’influenza maggiore, grazie alla loro presenza nei consigli di amministrazione dei FP pubblici nei quali possono esercitare pressione e far sentire la loro voce (Ghilarducci, 1999; Calabrese, 1999).

Questo peso relativo, già debole, rischia di diminuire ulteriormente, a causa del declino tendenziale dei regimi pensionistici a prestazioni definite, ossia quelli nei quali il datore di lavoro si impegna a versare un determinato livello di pensione ai suoi lavoratori.

Il loro declino si manifesta a beneficio dei piani d’accumulo definiti, nei quali i lavoratori sopportano non solo il finanziamento della loro pensione, ma anche il rischio finanziario legato all’alea dei mercati (Roberts, 2000). Questo movimento, che opera principalmente in seno ai FP d’impresa, sta guadagnando terreno nei confronti dei FP sindacali e di quelli del settore pubblico.

Dunque, anche se la copertura dei FP dei lavoratori del settore privato si è accresciuta fino a raggiungere il suo massimo negli anni ‘70, non è stata accompagnata da un rafforzamento del potere di controllo dei sindacati in materia di gestione dei fondi. Ad eccezione della negoziazione collettiva delle prestazioni pensionistiche, dove esiste una presenza sindacale, questo “controllo” è rimasto, nell’insieme o nel gioco di una catena di deleghe di responsabilità, di competenza dei datori di lavoro, fatta eccezione per il settore, d’importanza minore in termini d’attivo, dei FP detti “sindacali”. Ciò perché i fiduciari o i consorziati, che formano il consiglio d’amministrazione dei FP, delegano spesso la gestione degli stessi a gestori specializzati e si circondano di consulenti per determinare la politica di collocamento dei fondi. Oggi più dell’80% della ricchezza dei FP sono collocati all’esterno. È il caso della maggioranza di FP del settore privato: solo qualche FP del settore pubblico amministra i propri fondi dall’interno, facendo eccezione a questa regola.

1.2 I sindacati più inseriti nei FP nel Canada, soprattutto nel Quebec

I regimi pensionistici a capitalizzazione coinvolgono oggi circa il 40% dei lavoratori del Canada. Il tasso massimo di coinvolgimento è stato raggiunto verso la fine degli anni 70 senza mai superare il 50%. Regolamentati già dal 1919 dai governi federali, sono stati riconsiderati dalle provincie a partire dagli anni 60: in particolare nell’Ontario e in Quebec tra il 1965 e il 1966. Verso la metà degli anni ‘80 vengono effettuate nuove riforme a protezione dei sottoscrittori di fondi: l’Ontario vota una nuova legge nel 1987 e il Quebec nel 1990 (legge sui regimi complementari pensionistici). Quest’ultima è applicata ai regimi pensionistici dei lavoratori del settore privato e municipale e ad alcuni lavoratori del settore parastatale, con l’esclusione di quelli governati da leggi specifiche ed appartenenti ad un settore di competenza federale (funzione pubblica federale, società degli Stati federali, difesa nazionale, banche, comunicazione e trasporti interprovinciali e internazionali), ed inoltre a certe imprese di settori considerati strategici (ex. miniere).

Con questa legge, il Quebec si distingue dall’Ontario e dalle altre provincie: in seguito alla legge, l’amministrazione dei regimi complementari non è più sotto l’autorità esclusiva dei datori di lavoro, ma deve essere condivisa con i lavoratori. Tale legge esige in effetti la costituzione di un comitato sulle pensioni, contraddistinto dalla presenza del datore di lavoro, come amministratore del regime, oltre a quella minima di due rappresentanti dei lavoratori (esclusi quelli molto piccoli con meno di cinque partecipanti): uno che rappresenti i partecipanti attivi, l’altro quelli in pensione. Nella realtà dei fatti il datore di lavoro ottiene la maggioranza dei seggi, soprattutto nel settore privato. Nelle province anglofone l’assistenza di tali comitati non è obbligatoria, salvo in certe giurisdizioni per i regimi tra più imprese.

Questi regimi pensionistici sono lontani dal raggiungere il peso finanziario dei loro omologhi americani, sia in termini assoluti che relativi: alla fine del 1999 i FP canadesi valevano 665 miliardi di dollari canadesi di attivo, appena il 13% della capitalizzazione borsistica canadese. Si possono tuttavia suddividere, come negli Stati Uniti, a seconda che riguardino i lavoratori del settore pubblico (amministrazione federale, provinciale e locale), quelli delle imprese del settore privato o ancora di un settore composto di piccole e medie imprese, come le costruzioni o i trasporti. In compenso, sono i FP del settore pubblico che rappresentano, in Canada, la maggior parte delle somme detenute dall’insieme dei FP (60%) e figurano ai primi posti dei FP canadesi in termini di classificazione. Allo stesso modo la proporzione di somme gestite internamente è maggiore in Canada che negli Stati Uniti (un terzo del totale).

Il montante degli attivi accumulati nelle casse delle pensioni sindacali o sui quali i sindacati esercitano di più la loro influenza non è conosciuto esattamente. In Canada i sindacati controllano direttamente i FP come i loro omologhi americani, esclusi quelli di piccola taglia (con attivo inferiore ai 25 milioni di dollari canadesi) investiti in una cassa di gestione comune e, in questo caso, non amministrati dai sindacati. Ma sono pochi quelli che esercitano un ruolo attivo nella gestione dei loro FP (Quarter & al., 2001). I sindacati sono ugualmente rappresentati in alcuni FP del settore privato e, dagli anni ‘80, in un numero crescente di FP del settore pubblico (joint trusteed funds), dove sono in grado di esercitare un controllo se non esclusivo almeno congiunto, con la partecipazione ai comitati consultivi (come i FP legati al sindacato del settore pubblico nella provincia dell’Ontario, OPSEU). Sui 100 primi FP che concentrano l’84% del totale dei FP del Canada, solo quattro sono interamente controllati dai sindacati. Quanto all’influenza sindacale “elargita”, questa si estende su un terzo degli attivi dei regimi professionali pensionistici, ossia a circa 200 miliardi di dollari canadesi (Falconer, 1999). Questa situazione testimonia una condizione ben più vantaggiosa del sindacalismo nel settore pubblico in Canada: il tasso di sindacalizzazione qui è circa del 70%, contro il 38% degli Stati Uniti.

Ciò testimonia una cultura politica del compromesso e, allo stesso tempo, d’innovazione sociale, che si spiega nel quadro di un federalismo decentrato a vantaggio delle provincie del Canada e che si oppone all’esperienza americana (Thèret, 1997).

1.3. Una gestione delegata, prudente e consuetudinaria dei FP sindacali nord americani

I FP sindacali sono generalmente dei regimi a prestazioni definite, ossia elargiscono pensioni in rapporto al salario e all’anzianità lavorativa nel settore o nel mestiere. La maggior parte dei responsabili sindacali, amministratori di questi fondi, sono poco ferrati in materia finanziaria e poco disponibili a farsi coinvolgere nella gestione dei fondi. Inoltre sono estremamente spaventati dall’eventualità di correre dei rischi per il fatto che la legislazione punitiva li rende personalmente responsabili in caso di cattiva gestione. Non possono atteggiarsi a rappresentanti dei lavoratori, ma devono comportarsi come rappresentanti dei beneficiari dei fondi. Qui il quadro giuridico non è affatto diverso nella sua filosofia, sia nel caso si tratti degli Stati Uniti o del Canada: la legge ERISA allo stesso modo che il common law canadese, ispirato dal corpo giuridico britannico, impone di massimizzare il ritorno sugli investimenti per un dato livello di rischio, nell’interesse esclusivo dei partecipanti e beneficiari al regime. E la giurisdizione sviluppatasi in questi due paesi non lascia apparire grandi divergenze su questo punto. In Canada una decisione giuridica del 1984, presa all’unanimità fa da caposaldo: i consorzi devono dare la priorità ai rendimenti, su tutte le altre questioni.

Così si spiega la tendenza dei consorzi sindacali a gestire in modo abbastanza conservativo e spesso con gestioni vincolate, gli investimenti. Ciò perché da un lato la legislazione spinge ad ottenere i migliori rendimenti del mercato per i beneficiari dei regimi pensionistici e dall’altro le pressioni dei gestori spingono per sviluppare una “politica d’investimenti adeguata”. Questi fiduciari sono incitati a circondarsi d’esperti e di consulenti di ogni genere, per assolvere alle loro obbligazioni fiduciarie (consulenti che determinino il bisogno di finanziamento dei FP, stabiliscano la strategia di collocamento dei fondi, scelgano i professionisti destinati a gestire tali fondi e i revisori incaricati di verificare i conti, etc.).

I professionisti della pension industry si adoperano per curare le relazioni con i consorzi sindacali e per mantenerli in uno stato di “dipendenza permanente”. Questi professionisti esercitano spesso il diritto di voto dei loro clienti nelle assemblee generali degli azionari, secondo un loro arbitrario orientamento.

L’euforia borsistica degli anni ‘90 ha condotto i consorzi sindacali a modificare la composizione dei portafogli dei FP in favore di investimenti più rischiosi, come quelli in azioni, condizione sine qua non dello sviluppo di un attivismo militante. Così sia il Western Conference of Teamsters Pension trust, che è il più importante FP dei Teamsters, sia i FP multi-datoriali degli Stati Uniti, fino al 1985 non avevano alcuna azione in portafoglio. Oggi i due terzi del suo portafoglio (23 miliardi di dollari americani di attivo) sono investiti in azioni. -----

2. L’implicazione sindacale nordamericana negli “investimenti economicamente mirati “

Il movimento sindacale nordamericano non è rimasto indifferente alla questione del controllo dei fondi provenienti dalle pensioni risparmio. Le sue iniziative, relativamente vecchie ma limitate alla materia, hanno trovato tre sbocchi: la creazione di strumenti finanziari adatti ai movimenti sindacali che mirano prima di tutto a favorire i suoi membri e a rispondere prioritariamente alle loro esigenze; un orientamento negli investimenti dei FP con lo scopo “addolcire” certi effetti dei mercati finanziari, considerati “immorali” o contrari agli interessi stessi dei lavoratori; l’esercizio dei diritti degli azionisti (la riscossione dei dividendi e il voto nelle assemblee generali), con altre priorità rispetto a quelle puramente finanziarie.

Negli Stati Uniti il tentativo sindacale di coinvolgimento nella gestione di strumenti finanziari specifici, è più vecchio che in Canada. In Canada invece la loro evoluzione è stata minore a causa del rapporto di forza meno favorevole tra imprese e Stato. Qui l’esperienza con maggiore successo si è avuta nello stato del Quebec, attraverso la creazione nel 1983 del Fondo di solidarietà dei lavoratori e delle lavoratrici del Quebec. Ciò è stato dovuto ad un contesto economico e politico specifico (supportato dall’idea della sovranità e del nazionalismo del Quebec) e, nello stesso tempo, ad un rapporto di forza più favorevole ai sindacati rispetto al resto del Canada. In effetti qui il tasso di sindacalizzazione risulta essere il più elevato di tutta l’America del Nord, con il 40% di lavoratori iscritti ai sindacati.

2.1. Negli Stati Uniti: un bilancio limitato da una legislazione restrittiva

a. Una vecchia tradizione

Negli Stati Uniti le iniziative sindacali in materia di creazione di strumenti finanziari, per favorire i propri membri e rispondere prioritariamente ai loro bisogni, sono vecchie: sono l’esito del movimento cooperativo della fine del diciannovesimo secolo. Negli anni ‘20, la federazione del Tessile (ACTWU) crea una banca, l’Amalgamated Bank of New York, che distribuisce libretti di assegni gratuiti per i lavoratori, mentre un consorzio di sindacati sostenuto dall’AFL crea una compagnia di assicurazioni: The Union Labor Life Insurance Company (ULLICO). Con lo sviluppo delle ferrovie e dell’industria pesante, poche compagnie accettano di assicurare i lavoratori contro i rischi d’infortunio, all’epoca molto frequenti. ULLICO fornirà alle famiglie dei lavoratori la loro prima assicurazione in caso di morte.

Queste due istituzioni finanziarie esistono ancora oggi e favoriscono tante iniziative per creare fondi destinati a rispondere alle esigenze dei lavoratori. Così, l’Amalgamated Bank of New York ha lanciato nel 1992 un fondo d’investimento indicizzato sull’indice S&P 500: il Long View Collective IF. Questo non seleziona i suoi investimenti, la sua specificità risiede nell’impegnarsi a votare nelle assemblee generali degli azionari secondo gli orientamenti stabiliti dal AFL-CIO. Il montante del suo attivo in gestione raggiunge attualmente i 5 miliardi di dollari americani. Allo stesso tempo ULLICO si è organizzata in holding ed è divenuta una società di servizi finanziari diversificati che gestisce, al giorno d’oggi, ben 7 miliardi di dollari americani per conto di terzi. Aveva già sviluppato negli anni ‘60 un fondo specializzato nei prestiti immobiliari ipotecari, J For Jobs, dotati di più di un miliardo di dollari in gestione. Inoltre nel 1995 ha creato un fondo a rischio dedicato al finanziamento delle PMI, Separate account P, per creare e mantenere gli impieghi degli iscritti ai sindacati.

Da parte sua, l’AFL-CIO ha intrapreso numerose iniziative nello stesso senso. Nel 1965 ha creato un fondo comune d’investimento specializzato nella costruzione di alloggi e destinato a sostenere l’impiego degli iscritti al sindacato del settore: The Housing investment Trust (HIT). Oggi questo fondo, nel quale investono 400 FP, ha più di due miliardi di dollari americani utilizzati per il finanziamento delle operazioni di costruzione di alloggi a buon mercato che utilizzano esclusivamente mano d’opera iscritta ai sindacati (della quale i sindacati sono i membri della centrale). Verso la fine degli anni ‘70, l’AFL-CIO ha cercato di dare nuovo impulso a queste azioni, attraverso i FP che rappresentavano una potenziale forza d’urto e una nuova arma per i sindacati.

Al tempo della convenzione nazionale, nel 1977, il sindacato adotta una risoluzione che riconosce l’impatto economico dei FP sindacali. Incita questi ultimi ad investire di più in funzione dei bisogni socio-economici dei loro partecipanti e ad assegnare la gestione dei loro fondi ad istituti finanziari che abbiano una politica d’investimento che sia favorevole al mondo del lavoro. Nello stesso tempo l’apparizione di un’opera di Jeremy Rifkin e Randy Barber (1978) provoca un intenso dibattito sull’uso dei “soldi dei lavoratori”, contribuendo molto alla legittimazione di questa questione e alla presa di coscienza dei sindacati.

b. Un rinnovamento delle iniziative a partire dagli anni ’80

Questo nuovo slancio si concretizza con il susseguirsi di una un’insieme d’iniziative impensabili nel periodo precedente. Più sindacati iniziano a finanziare la costruzione di alloggi per i loro membri. I sindacati dell’edilizia (International Brotherhood of Electrical Workers e United Brotherhood of Carpenters and Joiners) sono particolarmente attivi in questi settori. Il MEPT creato nel 1982 è uno dei più importanti fondi azionari specializzato nel settore immobiliare, che investe in progetti di costruzione realizzati esclusivamente da mano d’opera iscritta ai sindacati: totalizza circa due miliardi di dollari americani in gestione. Nello stesso tempo il sindacato del pret-à-porter femminile International Ladies’ Garnment Workers Union s’impegna nel finanziamento della costruzione di alloggi con affitti moderati.

Nel 1988, l’AFL-CIO continua da parte sua a dare l’esempio con la creazione del Building Investment Trust (BIT), perseguendo la sua prima iniziativa in materia (HIT). Questo fondo d’investimento, destinato al finanziamento dei progetti di costruzioni commerciali realizzate unicamente da lavoratori iscritti a sindacati, è stato creato come un investimento destinato ai FP Taft Hartley e FP pubblici. Oggi i due fondi d’investimento creati dalla centrale (HIT e BIT) hanno un volume d’attivo di circa 4 miliardi di dollari americani, provenienti principalmente dagli investimenti effettuati dai FP sindacali (HIT: 2,4 miliardi di dollari americani e BIT: 1,2 miliardi di dollari americani).

Molte iniziative sindacali si sono succedute negli anni ‘90. Nel 1994 una delle più vecchie e più importanti società d’investimento degli Stati Uniti (Massachussets Financial Services) crea, su domanda di un consorzio sindacale, un fondo indicizzato di 500 imprese con le migliori tradizioni sociali (MFS Union Standard Equity Fund). La particolarità di questo fondo sta nella composizione del suo portafoglio: deve essere permanentemente composto almeno per il 65% del suo valore da titoli di imprese la cui politica sociale sia esplicitamente approvata da un Consiglio del Lavoro che includa 20 fiduciari dei FP sindacali oltre a docenti universitari vicini al mondo sindacale. Questo fondo creato all’origine per investitori istituzionali è aperto dal 1997 ai privati. Da parte sua il sindacato degli elettrotecnici (IBEW) nel 1997 avvia un nuovo strumento d’investimento per i FP sindacali del settore elettrico; questo fondo indicizzato delega le sue responsabilità fiduciarie ad un gabinetto di consulenti specializzati in una clientela dei FP sindacali (Marco Consulting Group) che segue indicazioni di voto dell’ AFL-CIO nelle assemblee generali degli azionisti.

Una iniziativa di apertura è portata avanti sin dal 1995 dalla federazione dei lavoratori dell’acciaio (United Steelworkers of America) in seguito alla creazione nel 1988 della Steel Valley Authority. L’obiettivo di quest’istituzione è di mantenere e contribuire allo sviluppo di posti di lavoro con la creazione di un fondo regionale di rischio-capitale in Pennsylvania, stato duramente colpito da molti anni di crisi dell’industria siderurgica. Nel 1996 e nel 1999 sono state organizzate due conferenze (Heartland Forum) che hanno dato il via alla creazione del primo fondo di capitale- rischio sindacale, l’ Heartland Labor Investment Fund. Questo fondo è destinato a finanziare la modernizzazione e lo sviluppo delle PMI non quotate per mantenere gli impieghi (prevalentemente degli iscritti ai sindacati) sul modello del Quebec (vedi sotto). Tre FP Taft- Hartley (Union of Needletrades, Industrial and Textile Employees, International Union of Electrical Workers e United Steelworkers of America) hanno deciso l’anno scorso di investirci 50 milioni di dollari americani. Quest’iniziativa costituisce una “novità” per i FP sindacali, giacchè l’investimento in un fondo di capitale-rischio è un investimento che immobilizza i capitali per svariati anni. Potrebbe aprire la strada ad altre esperienze dello stesso genere. Così, alcuni FP si sono orientati recentemente su forme d’investimento mirato, inusuali fino a quel momento: sette FP Taft- Hartley e un fondo di capitale-rischio hanno investito insieme in un fondo immobiliare Multi- Employers Development Partners LP (MEDP) che finanzia esclusivamente progetti che utilizzano mano d’opera iscritta ai sindacati.

c. Un rapporto di forza a lungo sfavorevole agli “ investimenti economicamente mirati”

I sindacati americani sono rimasti per lungo tempo lontani da iniziative di investimento “etico” o “economicamente mirati” (Economically Targeted Investments o ETI), a parte qualche isolata esperienza, come abbiamo visto. Le iniziative del tipo “investimenti etici” risalgono agli anni ‘20 e sono essenzialmente nate su impulso delle Chiese, dotate di loro proprie fondazioni. Sostituite da movimenti per la difesa dei diritti civili negli anni ‘70, i sindacati non ne sono stati parte se non sporadicamente. Questo tipo di investimento selettivo, concepito come mezzo di risparmio individuale, ha funzionato per parecchio tempo con l’esclusione di certi settori o paesi, esclusione fondata su criteri morali (armamenti, tabacco, gioco, apartheid nell’Africa del Sud, etc.). Da qualche anno la selezione tende in maniera crescente a privilegiare le imprese che mostrano le migliori consuetudini in materia sociale o affine. Malgrado questo, i trustees restano diffidenti verso questo tipo di azioni (diffidenza in larga parte alimentata dai gestori dei fondi), essendo, come si è visto, preoccupati per la loro responsabilità derivante dalla legge ERISA del 1974, poco informati in materia di investimenti finanziari “etici” e temendo che l’esclusione di settori specifici minacci l’impiego in quei settori. Le ETI hanno, d’altra parte, dei costi di gestione superiori agli altri fondi e presuppongono una immobilità durevole dei capitali investiti (caso noto del capitale- rischio), ragione che li dissuade ulteriormente dall’avventurarsi su questo terreno.

Due avvenimenti hanno alimentato, anzi rinforzato, la loro avversione al rischio e la loro resistenza nell’essere coinvolti nella gestione dei fondi: la corruzione accertata di uno dei FP di Teamsters (Central States Pension Fund) dagli anni ‘50 e il tentativo dei minatori (United Mine Workers of America), verso la fine degli anni ‘60, di utilizzare il loro FP per convincere le imprese di produzione e di distribuzione di energia ad acquistare il carbone da imprese-miniere con lavoratori iscritti ai sindacati. Questa politica di investimenti è tirata in ballo dalla giustizia locale, con la colpa di dover rispondere, secondo la loro interpretazione, alle esigenze di “gestione del buon padre di famiglia” definite dal common law (Ghilarducci, 1992).

La legge ERISA, votata nel 1974, non fa che dar ragione a questa sfiducia, a dispetto del suo maggior obiettivo, che è quello di rinforzare la protezione dei regimi pensionistici professionali e i suoi beneficiari. Da una regola ritenuta preclusiva dai fiduciari: un obiettivo esclusivo di ritorno sugli investimenti che li spinge a assegnare la gestione delle somme dei FP a figure di professionisti nella gestione d’attivo. È solo nel 1994, 20 anni dopo il voto di questa legge, che il Ministero del Lavoro americano, sotto l’amministrazione dei democratici, chiarisce la sua posizione sulle ETI. Egli precisa in un “bollettino interpretativo” che questo tipo d’investimento non è incompatibile con le responsabilità fiduciarie stabilite dalla legge del 1974 e autorizza, entro certi limiti, alcuni investimenti in grado di creare benefici collaterali. Questi devono produrre dei rendimenti che non si scostino dalla media del mercato per non penalizzare i beneficiari dei regimi pensionistici nei quali i FP investano in questo genere di prodotti.

Oggi il mercato degli “investimenti etici” o “socialmente responsabili” negli Stati Uniti è stimato tra i 1.200 e i 2.000 miliardi di dollari americani, secondo le fonti, ed il numero di fondi che fanno appello a questa dipendenza è passato da 55 nel 1995 a più di 160 oggi. Mercato innegabilmente in crescita anche se questi dati devono essere interpretati con circospezione (fin dove sono etici?), i risultati finanziari dei fondi etici possono essere giudicati soddisfacenti nel senso che non hanno prodotto degli effetti sistematici negativi. Comunque, in assenza dell’analisi dei risultati di tali fondi su un ciclo borsistico completo, è senza dubbio prematuro tirare delle conclusioni più definitive (Berthon, 2000), come talvolta tendono a fare i loro promotori. D’altra parte il mercato dei fondi etici resta quantitativamente limitato, come anche la sua capacità di modificare le regole del gioco finanziario. I sindacati americani e canadesi non ne hanno fatto un asse portante della loro strategia e generalmente preferiscono delle strategie più attive, sia promuovendo essi stessi i loro fondi d’investimento e di capitale-rischio o di sviluppo, sia conducendo direttamente battaglie azionarie.

Infine, il debole peso dei FP sindacali e le loro riserve d’investimento “sociale”, alimentate da un’interpretazione restrittiva della legislazione, hanno limitato di molto le strategie di controllo e di orientamento degli investimenti e le forme d’attivismo che vi sono legate. Queste iniziative sono rimaste limitate da un doppio punto di vista: sono spesso proprie del settore delle costruzioni immobiliari e, anche se gli investimenti economici mirati dei FP sindacali sono triplicati dal 1994, il loro totale oggi non raggiunge più di 18 miliardi di dollari americani (Calabrese, 1999), ossia appena il 4% degli averi sotto controllo esclusivo dei FP sindacali. E ancora oggi, a dispetto de qualche iniziativa, la maggioranza dei sindacati continua ad evitare le ETI (Zanglein, 1999).

2.2. Sulle esperienze maggiormente sviluppate in Canada in generale, e nel Quebec in particolare

In Canada i sindacati hanno un rapporto di forza più favorevole rispetto agli Stati Uniti. Ciò spiega come i fondi sindacali abbiano avuto uno sviluppo relativamente maggiore e come una tale esperienza li abbia spinti più lontano, grazie anche all’aiuto dei governi a livello federale e regionale. Due esperienze singolari meritano di essere raccontate: la prima e la più vecchia è quella del Fondo di Solidarietà dei Lavoratori e delle Lavoratrici del Quebec, creato nel 1983 dal governo del Quebec su iniziativa della Federazione dei Lavoratori e Lavoratrici del Quebec (FTQ), una delle centrali sindacali più importanti della provincia con la Confederazione dei Sindacati Nazionali (CSN); gestisce da solo circa 4 miliardi di dollari canadesi di attivo ed è il primo fondo di sviluppo capitale in Quebec e in Canada. La seconda è quella dei Fondi d’Investimenti Sindacali (FIS), ispirata direttamente all’esempio del Quebec e creata su iniziativa dei governi di più province anglofone (principalmente l’Ontario, ma anche la Colombia Britannica, il Nuovo Brunswick e Manibota) negli anni ‘90 per la maggior parte dei casi. In tutto sono più di una ventina e gestiscono in totale circa 5 miliardi di dollari canadesi di attivo e rappresentano più della metà del mercato del capitale-rischio del Canada. Malgrado ciò le iniziative d’investimenti economici mirati sono rare e molto più recenti che negli Stati Uniti.

a. L’esperienza unica del Fondo di Solidarietà dei lavoratori e lavoratrici del Quebec

Il Fondo di solidarietà FTQ è una singolare esperienza del Quebec, unica nel Canada e in America del Nord. È il fondo sindacale più importante dal punto di vista del valore dell’attivo gestito (4 miliardi di dollari canadesi). È stato creato con l’intenzione del FTQ di promuovere un fondo di sviluppo in favore delle PMI del Quebec, di mantenere e creare impiego oltre che di sviluppare la regione. Per contro, il governo della provincia ha accettato di accordare dei vantaggi fiscali su misura ai partecipanti ai fondi (credito d’imposta del 15% sulla cifra investita con un massimo di 5000 dollari annuali per individuo). Il contesto economico e politico era allora propizio: il Quebec ha dal 1960 un tasso di disoccupazione elevato e persistente, all’inizio degli anni ‘80 è stato duramente segnato dalla recessione e il governo Lèvesque, da poco rieletto grazie al sostegno del FTO in un contesto di forte spinta nazionalista, è sensibile al progetto (Jardin, 2001). Il governo federale accetta da parte sua di partecipare a questo incentivo fiscale, accordando la stessa riduzione d’imposta (15%).-----

Questo fondo ha una doppia funzione: è destinato a sostenere e a sviluppare posti di lavoro a livello locale, sia con investimenti a lunga scadenza nelle imprese del Quebec non quotate (con meno di 500 lavoratori e meno di 50 milioni di dollari canadesi di attivo), sia investendo in imprese straniere la cui attività abbia delle ricadute nella provincia. È costretto dalla legge ad investire in queste imprese almeno il 60% del suo attivo netto dell’anno precedente (a partire dal quinto anno di esistenza), il resto può essere investito in titoli con minor rischio (grandi imprese quotate, buoni del Tesoro, titoli del mercato monetario, etc.). In questa maniera ha sviluppato una rete di 17 fondi regionali e di 86 fondi locali, oltre a 19 fondi settoriali (biotecnologie, genetica, etc.). I suoi criteri d’investimento non sono unicamente finanziari ma anche sociali: gli investimenti del fondo devono assicurare un ritorno equo ai partecipanti selezionando imprese nelle quali la gestione delle risorse umane (sul piano delle relazioni professionali, delle condizioni di lavoro e di sicurezza, etc.) e i rapporti con la comunità circostante siano giudicati soddisfacenti. Questo filtro non è esclusivo e non si esige per esempio che l’impresa sia sindacalizzata, (ossia i suoi lavoratori siano iscritti ai sindacati). Occorre sottolineare che lo sviluppo del fondo, dalla sua creazione, è basato su una rete di volontari incaricati di far conoscere e diffondere questo prodotto di risparmio (2.200 lavoratori sindacalizzati della FTQ). Questa funzione è complementare rispetto alla prima: ha anche una missione di educazione economica presso i lavoratori delle imprese, delle quali detiene le azioni.

Come prodotto del risparmio-pensione individuale, il fondo di solidarietà FTQ è particolarmente interessante per i lavoratori come per il grande pubblico, tenuto conto degli incentivi fiscali esistenti. I lavoratori iscritti ai sindacati rappresentano il 59% degli azionisti del fondo, il resto degli investitori (41%) è rappresentato da individui benestanti che hanno poco o nulla a che fare con il mondo sindacale. Il risparmio in questo fondo è teoricamente bloccato fino alla pensione, salvo circostanze particolari (perdita dell’impiego, tempo di formazione, etc.).

b. Gli altri fondi pro-sindacali e gli investimenti “etici”

I Fondi d’investimento sindacali (FIS) sono ispirati direttamente dall’esempio del Quebec. La loro creazione, plebiscitaria per il personale politico canadese tradizionalmente favorevole ai finanziamenti delle PMI, deve avere il sostegno di un sindacato. Questo sostegno in alcuni casi non è che di facciata come in Ontario dove sono qualificati come rent a union fund (Stanford, 1999). Il risparmio individuale si è mutualizzato attraverso dei piani di risparmio pensionistici gestiti collettivamente (Registered Retirement Saving Plans) e che beneficiano di grosse esenzioni fiscali. È bloccato per otto anni. Il credito d’imposta emanato dai governi federali e provinciali è del 40% dell’investimento con un massimo di 5.000 dollari canadesi a persona all’inizio. Nel 1996 è stato ridotto al 30% e a 3.500 dollari per la presa di coscienza del carattere poco sindacale della maggior parte di questi fondi. Rappresentano tuttavia il settore più dinamico del FIS del Canada anglofono. I fondi “autenticamente sindacali” hanno cercato di distinguersi dagli altri FIS, raggruppandosi con un codice etico (The Canadian LSIF Alliance). Tra i loro principi, il fatto che il sindacato partecipi alla gestione del fondo è fondamentale, oltre al perseguimento degli obiettivi di sostegno o di creazione d’impiego e di sviluppo regionale.

Lo sviluppo dei FIS è favorito da esenzioni fiscali, molto attraenti per i risparmiatori che investono in questo tipo di fondi. La maggior parte di loro sono individui ad alto reddito, che hanno poco a che fare col mondo sindacale e con la sua cultura. Questa è una differenza con il Fondo di Solidarietà FTQ nel quale i partecipanti sono per la maggior parte lavoratori iscritti ai sindacati. Il loro profilo è simile a quello del risparmiatore tipico che investe in un conto di risparmio individuale. Questo non deve sorprenderci, dal momento che la propensione al risparmio è maggiore quanto più sono alti i redditi. Dal lato del risparmio, questi dispositivi favoriscono principalmente non i lavoratori che ne avrebbero più bisogno per la loro pensione, ma persone già agiate. I FIS hanno anche contribuito a diffondere il mito di un capitalismo popolare in Canada, dove invece paradossalmente la ricchezza è concentrata in poche mani, come del resto negli Stati Uniti (Stanford, 1999).

Nel fondo il risparmio accumulato è orientato solo in parte verso le PMI e l’economia reale (60% se il fondo ha più di 5 anni di esistenza). Quasi tutti i fondi non raggiungono le percentuali stabilite dalle leggi, ed anche i fondi di recente creazione, sono lontani dal raggiungere le previsioni legali. Le sovvenzioni governative servono in parte all’acquisto di buoni del Tesoro.

D’altra parte le spese annuali di gestione dei FIS sono più alte di quelle dei mutual funds classici (intorno al 5% dell’attivo gestito), abbassando così i loro rendimenti. Infine, dal punto di vista delle imprese con investimenti mirati, il numero di posti di lavoro creati o mantenuti deve essere relativizzato; spesso è sovrastimato quantitativamente. Allo stesso modo il pubblico, le PMI sono in genere abbastanza ostili all’ambiente sindacale e non sempre meritano l’etichetta di “etiche”.

Oltre a questi fondi pro-sindacali esiste in Canada un settore di mutual funds etici, cioè dei fondi il cui portafoglio è filtrato secondo criteri non finanziari (tutela ambientale, finalità sociali, etc.). Questo settore mira di più al risparmio individuale che al risparmio istituzionale e fino ad ora i trustees sindacali hanno utilizzato poco i filtri d’investimento per selezionare gli investimenti delle loro casse pensioni. I pochi FP che vengono attivati negli investimenti etici o in forme d’investimento “socialmente responsabili” si trovano per la maggior parte nel Quebec (Quarter, 2001).

Il settore dei mutual funds etici ha preso il via con le banche cooperative negli anni ‘80, in risposta all’aumento dei tassi d’interesse ed alla concorrenza delle istituzioni finanziarie non bancarie che hanno drenato una parte crescente del risparmio delle famiglie e dei lavoratori (noti come mutual funds). Il più importante promotore dei mutual funds etici è il gruppo Ethical Fund, nato da una cassa di credito cooperativa di Vancouver (VanCity Savings and Credit Union). Conta in tutto dodici mutual funds etici che totalizzano più di 2 miliardi di dollari canadesi di attivo in gestione. Il suo fiore all’occhiello è l’Ethical Growth Fund, creato nel 1986 e che fa parte oggi dei primi dieci mutual funds canadesi, che gestiscono circa 740 milioni di dollari canadesi. Altri gruppi di mutual funds hanno cercato di investire in questo settore dell’etica, come Investor’s Group, uno dei più importanti mutual funds del Canada, che gestisce 20 miliardi di dollari canadesi in maniera non etica e che ha creato, per opportunità commerciale, il suo proprio mutual fund etico, Summa Fund (600 milioni di dollari canadesi). Infine il Desjardin Trust Group associato ai movimenti cooperativi del Quebec ha creato un suo fondo ambientale, con 125 milioni di dollari canadesi di attivo gestito.

3. “I soldi dei lavoratori” come trampolino per una nuova militanza d’azione sindacale

È a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, ma soprattutto nel corso degli anni ‘90,che i sindacati e l’AFL-CIO hanno sviluppato una nuova strategia, cercando di promuovere un attivismo nell’azionariato fondato sul pieno esercizio del “diritto di proprietario”. I mezzi a disposizione sono di due tipi: l’acquisto o la vendita di titoli a seconda che i proprietari di azioni vogliano far rilevare il loro accordo o il loro disaccordo con la politica dell’impresa; le battaglie di risoluzione e di voto alle assemblee generali per portare avanti degli obiettivi propriamente sindacali, inserendosi nel gioco della corporate governance. Questo nuovo orientamento rompe con l’utilizzo limitato fatto fino a quel momento: in effetti solo due sindacati, quello dei minatori (UMW) e quello tessile (ACTWU) si erano serviti negli anni ‘70 dello strumento dei loro FP per ottenere le rivendicazioni sindacali o favorire le imprese sindacalizzate (Roberts, 1987). Negli ultimi due decenni questa strategia diventa un cavallo di battaglia privilegiato dall’azione sindacale sul piano nazionale, mentre, allo stesso tempo, l’AFL-CIO tenta d’imporlo a livello internazionale come la forma di risposta sindacale alla mondializzazione del capitale. Evidentemente si suppone che i FP sindacali investano sempre più in azioni, come è stato in questi ultimi anni, dove effettivamente, questi fondi, hanno rafforzato il loro portafoglio d’azioni, confortati dal rialzo dei mercati borsistici negli anni ‘90.

3.1. I sindacati, attori nuovi e molto attivi della corporate governance

Questa strategia è stata intrapresa e rivendicata dall’AFL-CIO e da alcune sue federazioni negli Stati Uniti; in particolare dai sindacati delle costruzioni. Questa confida, tenuto conto della debolezza del loro peso finanziario, sulle alleanze con i FP del settore pubblico che sono particolarmente attivi, contrariamente ai loro omologhi del settore privato e ai loro gestori di fondi (money managers indipendenti, gestori di mutual funds, etc.).

Le iniziative sindacali intraprese consistono nell’utilizzare meglio il quadro giuridico estremamente codificato e rigoroso atto a fissare le regole di comportamento tra gli azionisti e i dirigenti d’impresa, ossia il corporate governance. Ormai alcuni sindacati cercano di usare il loro potere azionario cercando di condizionare il voto dell’assemblea generale, figurando davanti ai FP a seconda del numero di proposizioni sottoposte al voto (Brancato, 1997). I sindacati più attivi in questo settore sono compresi nelle più importanti federazioni dell’AFL-CIO: sono i sindacati dei trasportatori (Teamsters), del tessile e dell’abbigliamento (UNITE), del commercio (UFCW), dei servizi (SEIU) e dei mestieri attinenti alle costruzioni (Carpenters, Electrical workers). Secondo Schwab & Thomas (1998), queste iniziative rivestono essenzialmente quattro forme e sono oggetto di intense battaglie giuridiche con i datori di lavoro e con l’autorità borsistica americana (Securities Exchange Commission). Le due prime forme sono state utilizzate con successo da vari FP sindacali. Le altre due forme sono simboliche più che orientate alla ricerca di risultati immediati.

La prima forma d’iniziativa è l’uso di una regola che si chiama regola 14-a8 conformemente alla sezione corrispondente del Securities Act. Questa regola circoscrive molto precisamente il contesto e la natura delle proposte degli azionisti sottoposte al voto ed ha reso per lungo tempo, molto difficili, le condizioni di esercizio del diritto di voto per i FP sindacali: tutto quello che ha a che fare con la gestione ordinaria degli affari (ordinary business), come la gestione degli stipendi dei lavoratori e dei dirigenti non può essere sottoposto al voto degli azionisti, ma resta sotto l’autorità esclusiva della direzione. La pressione degli investitori istituzionali ha obbligato la SEC a prevedere la possibilità di utilizzare questa regola già dal 1992 (O’Sullivan, 2000), e a rendere più facile la comunicazione e le coalizioni tra azionisti (Gillan & Starks, 2000). I sindacati l’utilizzano molto proponendo al voto due tipi di risoluzioni: l’abrogazione dei dispositivi anti-OPA (poison pills) utilizzati dai dirigenti negli anni ‘80 per proteggersi dalle OPA ostili; l’abrogazione dei consigli d’amministrazione classificati (classified boards) che impediscono il rinnovamento completo dei consigli di amministrazione. Questa attitudine è nuova per loro: negli anni ‘80 hanno costantemente votato insieme ai dirigenti d’impresa contro gli altri investitori istituzionali, credendo così di difendere i loro posti di lavoro e i loro stipendi.

La seconda forma d’iniziativa consiste nel proporre emendamenti agli statuti delle imprese, dove questi permettono ai dirigenti d’impresa di introdurre dispositivi anti-OPA, senza ricorrere al parere degli azionisti. Questi escamotage giuridici sono combattuti generalmente tra stati sovrani nello in grado di indirizzare il diritto societario. Anche se agli azionisti è riconosciuto il potere di modificare gli statuti delle società, sono i consigli d’amministrazione che nella pratica si arrogano questo diritto e che di fatto negano esplicitamente agli azionisti tale esercizio. I Teamsters hanno brillato con successo in questo genere d’iniziative. Uno degli esempi più recenti in materia è il tentativo d’opposizione di tre FP sindacali alla proposta di cambiamento della carta costitutiva dell’AT&T voluta per facilitare lo smembramento dell’azienda. Se questi ultimi sono riusciti ad imporre un tavolo di trattative alla direzione dell’azienda per cambiamento in questione, d’altro canto, sotto pressione della direzione, hanno dovuto accettare di abbandonare le loro rivendicazioni contro l’AT&T.

Le ultime iniziative sono a livello informativo. Si tratta di rendere pubbliche le risoluzioni delle assemblee generali degli azionisti non tanto affinché vengano attuate, quanto per farle conoscere agli altri azionisti. O anche per condurre campagne pubbliche (conosciute sotto il nome di Just vote no) simili a quelle condotte dai grandi FP del settore pubblico come CALPERS, come esempio di impresa poco performante. Questo tipo d’azione è stato sperimentato dal SEIU, il sindacato dei lavoratori dei servizi.

3.2. L’attivismo azionariale, nuovo cavallo di battaglia dell’AFL-CIO

L’arrivo di John Sweeney al vertice dell’ AFL-CIO e il rinnovo della squadra dirigente nel 1995, sono stati l’occasione per riaffermare con forza l’idea di utilizzare i FP come leva per l’azione sindacale. Il nuovo gruppo dirigente ha scelto di rinforzare le modalità di azione in due modi: da una parte con uno sforzo di formazione e di informazione dei Trustees sindacali affinché possano affrancarsi dalla tutela dei consulenti e dei gestori finanziari, dall’altra con un tentativo di coordinamento centralizzato delle politiche dei differenti sindacati e delle federazioni in materia di voto.

A questo scopo, è stata modificata la sua organizzazione interna ed è stato creato un “dipartimento dei rapporti con le società” (Department of Corporate Affairs), diviso in quattro centri, tra cui un ufficio per gli investimenti. Questo ufficio, composto da una trentina di persone, è incaricato di coordinare la gestione dei fondi di risparmio pensionistici e di risparmio salariale dei lavoratori. Il suo responsabile, W. Patterson, ha creato nel 1998 il Center for Working Capital, con lo scopo di promuovere l’esercizio dei diritti di voto dei FP sindacali e la formazione dei loro amministratori.

L’AFL-CIO ha scelto di sviluppare tre assi strategici, due già sperimentati dalla precedente direzione dalla fine degli anni ‘70 che occorreva riaffermare e approfondire e il terzo relativamente nuovo. La costituzione di una base di dati sulla partecipazione finanziaria dei FP misti e dei FP del settore pubblico è stata la prima tappa di questa nuova strategia. A partire da questa si devono incitare i FP ad investire nelle imprese sindacalizzate o non apertamente ostili ai sindacati.

Il secondo asse strategico consiste nel mettere a punto una base di dati sui voti dei money managers incaricati di gestire gli investimenti dei FP sindacali. Dal 1997 questi voti sono stati esaminati sistematicamente per verificare la loro conformità alle nuove consegne e agli orientamenti generali, resi pubblici dal sindacato centrale. La filosofia generale del progetto è di sviluppare i legami e di favorire il dialogo tra la comunità finanziaria e i sindacati. Per il momento i risultati sono limitati, solo una minoranza di money managers votano in piena conformità con le raccomandazioni del sindacato (O’Connor, 1999).

Il terzo asse mira a promuovere i sindacati come protagonisti della corporate governance. Questi ultimi sono invitati a far prevalere i loro “diritti di proprietari” per esigere dai dirigenti che agiscano conformemente agli interessi degli azionisti. Questa strategia conta sulla costituzione di un blocco di voti nei FP sindacali e su alleanze con gli altri azionisti, come i FP del settore pubblico. Questi FP si ritrovano nel Council of Unstitutional Investors, politicamente molto influente, nel quale i leader sindacali sono parte della classe dirigenziale. Tuttavia l’AFL-CIO incontra dei limiti nell’affermarsi come protagonista centrale del sindacalismo americano di fronte alle potenti federazioni sindacali che traggono la loro forza e loro legittimità dalla negoziazione collettiva e dalla firma di convenzioni collettive. Si scontra con la grande autonomia dei sindacati locali, gelosi delle loro prerogative e diffidenti verso le iniziative provenienti da “Washington D.C.”.-----

3.3. Dai comitati di gruppi mondiali... ad un coordinamento internazionale della militanza azionista sindacale sotto l’egida dell’AFL-CIO

La globalizzazione del capitale sottopone costantemente il sindacalismo a nuove sfide. Costituiti negli Stati-Nazione i sindacati restano ancorati ad un sistema giuridico, regolamentare e contrattuale ancora essenzialmente nazionale (diritto al lavoro; etc.).

Dagli anni ‘60, la fase di internazionalizzazione del capitale ha portato alcuni segretariati professionali internazionali a prendere l’iniziativa di creare dei consigli di gruppo mondiali per sviluppare una negoziazione collettiva su scala internazionale e contrastare il potere delle aziende multinazionali, allora in piena espansione nei settori di punta in materia internazionale (automobili, metallurgia e chimica). Il fallimento di questi tentativi è il risultato in parte dei conflitti ideologici in seno al sindacalismo internazionale dell’epoca, ma anche della crisi economica che ha favorito dei riflessi di “ripiego nazionale” (Rehfeldt, 1993). Queste esperienze si sono scontrate con l’ostilità talvolta molto forte dei datori di lavoro. Un tentativo di rilancio di questo genere è stato orchestrato nel quadro della costruzione europea, tanto dalla Commissione con i suoi differenti progetti di direzione che dal movimento sindacale europeo. Queste iniziative raccolgono oggi un bilancio limitato: se la direttiva del 1994 ha dato il via alla costituzione di 600 comitati di gruppo europei, questi ultimi hanno problemi a giocare un ruolo di contro-potere nelle operazioni di ristrutturazione dei gruppi (decentramento, chiusura dei siti, etc.) malgrado la diversità delle esperienze in materia, il loro bilancio appare finora limitato (Rehfeldt, 2001).

Oggi nella nuova fase di globalizzazione del capitale, caratterizzata dal ruolo centrale della finanza del mercato l’ AFL-CIO tenta di riprendere l’iniziativa sul terreno della militanza azionista. Si cerca di fare dei “soldi dei lavoratori” una leva d’azione su scala internazionale, coinvolgendo le organizzazioni sindacali di altri paesi europei. Recentemente ha preso iniziative per coordinare le politiche dei FP sia nel quadro degli incontri bilaterali con il sindacato canadese CTC, sia con organizzazioni sindacali internazionali come la CISL che ha tenuto molte riunioni sulla necessità di una cooperazione internazionale a proposito degli investimenti dei FP (segnatamente dei FP sindacali), della loro politica di voto, della scelta dei money managers, etc.

Queste differenti iniziative sindacali, d’origine nordamericana, s’inscrivono oggi in una tendenza più generale, che esprime la volontà comune a più sindacati europei, di esercitare un’azione d’apertura internazionale a partire dal potenziale potere che conferisce l’arma dei “soldi dei lavoratori” accumulati nei fondi pensione. Da questo punto di vista il sindacato americano AFL-CIO ha giocato un ruolo leader al fianco del TUC britannico e del LO svedese per costituire, in seno alla CISL, un comitato incaricato di esaminare la questione dell’investimento internazionale delle casse pensionistiche. Nel 1999 si è tenuta a Stoccolma una conferenza sotto l’egida delle principali federazioni nazionali affiliate e interessate, dei segretariati nazionali di settore e della commissione sindacale consultiva presso l’OCDE, la Trade Union Advisor Comittee (TUAC).

Partendo dalla constatazione di una necessità di cooperazione sindacale internazionale sul risparmio pensionistico dei lavoratori come mezzo per far fronte alla globalizzazione finanziaria, i responsabili presenti si sono messi d’accordo su un obiettivo di scambio delle loro esperienze su queste questioni. Suggerimenti differenti sono stati proposti in questo senso: la costituzione di data-base e di informazioni sui protagonisti della pension industry (i FP, la loro politica d’investimento e quella dei gestori dei fondi, le politiche di voto su questi ultimi); lo sviluppo delle raccomandazioni di voto basate sul rispetto minimo degli standard del BIT in materia di norme sul lavoro e di principi di corporate governance stabiliti dall’OCSE; l’esame degli “investimenti economicamente mirati”; la formazione di amministratori sindacali delle casse pensioni e la creazione di una rete di esperti sindacali su queste questioni. Se i sindacati nordamericani appaiono molto attivi in questo contesto (AFL-CIO, CTC e FTQ) al fianco del TUC britannico, alcuni sindacati europei cominciano a riflettere sul ruolo che potrebbero avere in materia.

Infine, l’Internazionale dei Servizi Pubblici (IPS) è stata al centro di un incontro che ha riunito nel gennaio 2001 i sindacati del settore pubblico presenti nei FP dei loro rispettivi paesi e parte pregnante della loro gestione. Seguendo i sindacati americani e canadesi più che la CISL, questa federazione internazionale cercava a sua volta di mobilitare i propri membri, molto potenti finanziariamente, e a indirizzarli verso una forma di cooperazione internazionale sulla questione dell’implicazione nella gestione dei FP, delle sue forme e del suo contenuto (scambio d’informazioni, di dibattiti e di esperienze, sviluppo di strumenti finanziari alternativi in grado di finanziare le infrastrutture, etc.) (Concialdi, 2001).

In questo nuovo contesto, una delle prime azioni concrete di apertura è stata la campagna condotta a partire dal 1997 da una coalizione formata da organismi sindacali americani, britannici e australiani al fianco della federazione internazionale della Chimica, dell’Energia e delle Miniere (ICEM) contro Rio Tinto, una delle più grandi multinazionali mondiali nel settore minerario. Questi sindacati (AFL-CIO e IFCEMGWU per gli Stati Uniti, TUC per il Regno Unito, Australian Council of Trade Unions et Construction Forestry, Mining&Energy Union per l’AUstralia) attraverso i loro FP hanno ingaggiato una battaglia sulle risoluzioni e sull’azionariato di questa società (nelle filiali britanniche e australiane) partendo da due punti: la nomina di un amministratore indipendente e la messa in atto di un codice di buona condotta in materia di gestione sociale sul luogo di lavoro (riconoscimento della rappresentanza sindacale e della negoziazione collettiva, rispetto delle norme stabilite dal BIT). Avendo raccolto tra il 17 e il 20% dei suffragi nell’assemblea generale, pur essendo lontani dall’essere la maggioranza, hanno costituito un’opposizione al gruppo dirigente della multinazionale che ha dovuto rivedere (in parte) la sua politica anti-sindacale.

L’altro esempio, più recente, è quello della proposta di aiuto formulata dall’AFL-CIO all’IG Metall al momento dell’OPA ostile lanciata dal gruppo Vodafone sul gruppo tedesco Mannessman nel 2000. Il sindacato americano aveva effettivamente domandato ai gestori dei FP americani azionisti (sindacali, ma soprattutto pubblici) dell’impresa tedesca di rifiutare l’offerta di Vodafone, quindi di conservare i loro titoli rinunciando ad intascare la plusvalenza finanziaria risultante dalla differenza tra il prezzo proposto dall’OPA e il valore di mercato dell’azione Mannesmann. Lo scioglimento “amichevole” dell’operazione ha impedito di testare la reale capacità di influenza dell’AFL-CIO. Il gestore di hedge fund, Guy Wiser-Pratte, parte determinante e protagonista chiave di questo tentativo non amichevole di presa di controllo, aveva già coinvolto il Ministero del Lavoro americano ed era fermamente deciso ad attaccare i gestori del fondo che avessero eventualmente seguito l’appello lanciato da John Sweeney per la violazione dei loro doveri fiduciari.

3.4. L’ambivalenza di questa nuova strategia

I risultati di questo nuovo “attivismo” sindacale sono quanto meno ambivalenti. Sul terreno dell’impresa e della corporate governance, i sindacati sono arrivati a far sentire la loro voce nella ristretta cerchia degli investitori istituzionali e a guadagnare legittimità in quanto tali. Questa strategia ha un costo: l’allineamento dei loro comportamenti e dei loro voti su quello degli altri azionisti, in particolare la rivendicazione della massimizzazione del valore azionario. I FP sindacali hanno in effetti bisogno di alleanze per far realizzare le loro risoluzioni, tenuto conto del loro peso marginale nel capitale delle imprese: questa posizione subordinata li costringe a restare nel binario delle rivendicazioni degli altri azionisti come i FP del settore pubblico o altri minoritari. Questo spiega come le risoluzioni dei FP sindacali sottoposte al voto siano praticamente di tutto punto conformi a quelle degli altri azionisti. L’eliminazione dei dispositivi anti-OPA, l’indipendenza dei consigli di amministrazione e la limitazione delle remunerazioni dei dirigenti sono in effetti il loro bersaglio principale. Le rivendicazioni più propriamente salariali non sono legittimate, nel quadro strettamente giuridico definito dalla corporate governance o dalle corporate laws, ugualmente restrittive negli Stati Uniti e in Canada.

Questa forma d’attivismo sindacale porta i rappresentanti dei lavoratori ad allinearsi sugli interessi degli azionisti e non l’inverso, a tener conto degli interessi di altre parti dell’impresa, come quella dei lavoratori. Quest’ultima problematica rimanda ad una concezione dell’impresa come insieme d’interessi. Una economista della Brookigs Institution, Margaret Blair, ha cercato recentemente di rilanciare il dibattito sulla nozione di stakeholder. Questo dibattito, iniziato negli anni ‘80 negli Stati Uniti, è totalmente dominato al giorno d’oggi dall’idea che l’obiettivo esclusivo dell’impresa sia la massimizzazione del valore delle azioni. Questa attuale credenza si fonda su tre argomenti: a) gli azionisti- i “capitalisti”
 devono avere il controllo dell’impresa perché ne sono proprietari; b) i dirigenti - i loro “agenti” - devono rispondere delle loro azioni agli azionisti e non ad altri protagonisti, perché l’effetto sarebbe di diminuire le loro responsabilità; c) gli azionisti sono gli ultimi beneficiari dell’impresa perché ne sopportano il rischio residuale.

Contestando la pertinenza di questi argomenti, Margaret Blair (1995) sviluppa l’idea contraria che i rischi residuali sono supportati e condivisi da ben altri protagonisti dell’impresa, dai lavoranti le cui competenze e conoscenze accumulate sono integrate con l’organizzazione dell’impresa e messe al servizio della sua clientela. Questi stakeholders come contribuenti agli inputs molto specializzati dell’impresa hanno, in questo modo, un rischio d’investimento. Pertanto i loro diritti ed obblighi come “proprietari” dovrebbero essere altrettanto riconosciuti di quelli degli azionisti; potrebbero anche essere formalizzati attraverso lo sviluppo di forma di remunerazione specifiche che diano loro diritto alla divisione dei profitti (azionariato salariale o interessamento).

Nel contesto americano attuale questo argomento può essere considerato “progressista”, permettendo la legittimità di altri interessi, oltre a quelli esclusivi degli azionisti. Ma non vedendo altro che alcune forme di remunerazione proprie degli azionisti come mezzo di riconoscimento degli interessi degli stakeholders, limita questi a non avere nulla oltre le loro stesse rivendicazioni. Così facendo, Margeret Blair sostiene l’idea che il potere e la remunerazione degli azionisti siano legittimi e da questo punto di vista, la sua critica è debole e molto indietro rispetto a quanto detto da Adolf Berle, in un’epoca nella quale la finanza non aveva conquistato questa importanza nella sfera economica e in quella del pensiero.

“...L’acquirente di azioni non contribuisce all’aumento di stock di risparmio d’impresa, quindi al finanziamento di nuovi investimenti. Non rischia un nuovo investimento. Non fa altro che valutare le possibilità dell’azione di una certa impresa di aumentare. Così facendo, contribuisce a mantenere la liquidità del mercato permettendo ad altri azionisti di convertire le loro azioni in denaro. Chiaramente non può né vuole contribuire all’attività dell’impresa...”.

L’argomento di Margeret Blair conforta e legittima i comportamenti dei FP sindacali e la strategia messa in atto dall’AFL-CIO: giocare fino in fondo la logica dei mercati finanziari e quella del valore azionario per ottenere il più elevato guadagno dagli investimenti; servirsene come leva per ottenere il riconoscimento sindacale nell’impresa da parte patronale. Alcuni possono pensare che questa strategia abbia il merito di far sentire la voce dei lavoratori e di diffondere l’idea che i loro interessi siano meglio tutelati a lungo termine. Mantiene aperto il dibattito all’interno del movimento sindacale americano e canadese sui rischi inerenti questo tipo di strategia, sul rinforzamento del potere degli azionisti a scapito dei lavoratori.

Negli Stati Uniti, questa strategia comincia ad essere criticata anche dall’interno dei ranghi sindacali che l’hanno sperimentata: è tacciata di essere a corto raggio. I sindacati delle costruzioni insistono sull’idea che queste nuove forme d’attivismo, li abbiano portati a spingere le imprese ad avere politiche di breve periodo. Alcuni responsabili sindacali hanno messo in guardia contro le false speranze che nascondono un’implicazione spinta nelle alleanze dei stakeholders .L’impegno dell’AFL-CIO nelle reti nazionali o internazionali come il Council of Institutional Investors negli Stati Uniti e ancora di più l’International Corporate Governance Network è spesso interpretato, da questo punto di vista, come una concessione eccessiva al primato della logica finanziaria e degli attori principali dei mercati finanziari, col diritto esclusivo degli azionisti di determinare le finalità dell’impresa. In Canada, l’opposizione all’implicazione nella gestione dell’investimento delle casse pensione è tradizionalmente forte nel sindacato dell’automobile (Canadian Auto Workers).

L’altra ambiguità risiede nel conflitto d’interessi che può manifestarsi. In effetti l’antagonismo consustanziale al rapporto capitale-lavoro nelle economie capitaliste, fondate sulla proprietà privata degli strumenti di produzione, si manifesta nella divisione per forza conflittuale del valore aggiunto: l’aumento dei salari si traduce automaticamente nella diminuzione dei profitti e viceversa. Ciò è stato dimostrato nel conflitto che ha opposto, qualche anno fa, gli azionisti del primo FP pubblico canadese, quelli degli insegnanti dell’Ontario (Ontario Teachers’ pension plan) e i loro sindacati. Questo fondo era un importante azionista del gruppo agro-alimentare Maple Leafe Foods. Nel 1995, insieme ad altri azionisti, ha sollecitato il riacquisto di quest’ultimo da parte di un altro gruppo (McCain) per raddrizzare i costi e il rendimento. Quest’obiettivo ha portato la nuova direzione del gruppo a mettere in atto nel 1998 una politica ferocemente anti-sindacale, esigendo drastiche concessioni salariali al momento del rinnovo della convenzione collettiva dopo un lock out di risposta ad uno sciopero dei lavoratori. Questa logica dell’azionariato è venuta a scontrarsi con gli interessi dei lavoratori del gruppo industriale in questione e del sindacato che li rappresenta (UFCW) e questo nonostante le veementi proteste e la mobilitazione del sindacato degli insegnanti dell’Ontario, che non ha potuto impedirlo.

La strategia di sviluppo della militanza dell’azionariato sindacale, come quelle che soggiacciono agli investimenti etici o socialmente utili esaltate dai sindacati nordamericani o europei, poggia per di più su un argomento implicito in parte erroneo: quello che pretende che i mercati borsistici contribuiscano al finanziamento delle imprese e degli investimenti. In generale, le emissioni nette di azioni non hanno mai rappresentato una risorsa di finanziamento importante per le imprese (non finanziarie in particolare), le quali finanziano i loro investimenti sia con la parte dei profitti che non viene distribuita sia con indebitamento bancario o obbligazionario. Questo vale in particolar modo per la situazione americana. Negli Stati Uniti i mercati finanziari hanno giocato un ruolo iniziale, ma è il debito pubblico più che il finanziamento delle imprese che è stato di leva per il loro sviluppo. E a dispetto della forte mediaticità dei mercati borsistici, l’emissione di azioni conta oggi solo in parte per il finanziamento delle imprese, meno dell’emissione delle obbligazioni.

Ugualmente l’affermazione corrente secondo la quale i principali paesi sarebbero passati da una “economia d’indebitamento” ad una “economia di fondi propri” merita riflessione: significa certamente che i mercati finanziari hanno acquistato un peso importante nell’economia (ciò che traduce l’aumento del rapporto capitalizzazione borsistica/PIB). Ma questo peso è più legato alla moltiplicazione delle transazioni sui titoli (mercato secondario) che all’emissione di titoli nuovi (mercato primario), dal momento che la finalità degli operatori su questo mercato secondario è la ricerca di plusvalore finanziario e non il finanziamento di nuovi investimenti. E da questo punto di vista, lo slittamento semantico che consiste nell’appellare gli azionisti (minoritari) degli investitori (fossero istituzionali) è sbagliato ed è fonte di confusione: lascia intendere che questi attori investano e si sobbarchino il rischio d’impresa. In realtà, non è così. Non fanno che comportarsi come acquirenti di titoli che rappresentano una parte del capitale sociale delle imprese, contribuendo così a mantenere la liquidità del mercato. Da questo punto di vista, è chiaro che gli investitori istituzionali, se s’interessano all’attività delle imprese, non lo fanno per altro che per valutarne le possibilità di plusvalore finanziario e non per un interesse specifico al progetto imprenditoriale e alla gestione in quanto tale (Montagne e Sauviat, 2001).-----

Conclusioni

La nuova fase di globalizzazione del capitale degli anni ‘80, segnata dal ruolo cardine della finanza, sembra aprire nuove prospettive strategiche ai sindacati, come dimostrano le iniziative nord americane in materia. Seguendo l’AFL-CIO, i sindacati in Canada e in Europa s’interrogano sui mezzi d’azione a loro disposizione per “controllare” i mercati finanziari e tentare di modificare la loro logica. Per questi si tratta di stabilire un controllo sindacale sia sulle somme accumulate nelle casse pensione, uscite dai regimi professionali complementari quando esistono, sia su quelle uscite dal risparmio salariale e concentrate in fondi gestiti da figure specializzate, come i fondi comuni di investimento. L’obiettivo perseguito è di fare in modo che questo risparmio non sia utilizzato contro i lavoratori e le loro famiglie, ma al contrario orientato verso gli obiettivi che cercano di portare avanti per difendere meglio i loro interessi.

L’analisi delle esperienze nordamericane indica in primo luogo che l’efficacia di queste pratiche e delle loro ricadute sono in parte funzione del rapporto di forza sindacale, tanto sul terreno dell’impresa nel loro faccia a faccia quotidiano con i datori di lavoro, che sul terreno politico del loro confronto con lo Stato. Negli Stati Uniti i sindacati hanno guadagnato legittimità, non presso i datori di lavoro con il braccio di ferro della negoziazione collettiva, né presso lo Stato tramite una pressione in favore delle grandi riforme sociali, ma presso gli investitori istituzionali sulla base di alleanze nell’azionariato, rivendicando il principio della massimizzazione del valore azionario. In Canada, ma soprattutto nel Quebec, un contesto politico specifico e un rapporto di forza più favorevole ai sindacati hanno permesso loro di farsi ascoltare e di promuovere il mantenimento e la creazione di posti di lavoro, oltre allo sviluppo regionale attraverso la creazione di fondi pro-sindacali. L’esperienza del Fondo di solidarietà FTQ, per quanto possa sembrare semplice, è malgrado ciò limitato dal punto di vista del montante dei capitali investiti. Inoltre ha un costo fiscale importante per la provincia e per lo Stato federale e dei costi di gestione più alti di altri fondi, approfittando in particolare dei singoli risparmiatori a reddito elevato. È inoltre destinata essenzialmente alle PMI, cioè a quelle imprese che non si distinguono necessariamente per il loro comportamento “etico”: queste ultime sono generalmente ostili allo sviluppo di un dialogo con i sindacati. In più il loro contributo alla creazione d’impiego è spesso sovrastimato e in gran parte frutto di illusione ottica: è in effetti più legato alle dinamiche e alle strategie delle grandi imprese che al loro dinamismo intrinseco (Bocarra, 1998).

Le attuali pratiche sindacali che cercano di appoggiarsi al potere azionario “lavorando” sui mercati finanziari dall’interno, ci paiono limitati nelle loro fondamenta, pericolose nel loro sviluppo e forse effimere riguardo al tempo dei cicli borsistici.

Da una parte, legittimano maggiormente il primato della finanza del mercato e la sua pretesa di delimitare (e restringere) lo spazio della democrazia economica e della posta in gioco della lotta sociale e politica. Il ritorno in auge del discorso sull’”etica” in generale e sull’”investimento etico” in particolare, è un segnale rivelatore. È fondato e si afferma sul discredito della politica e sulla perdita di legittimità dell’intervento dello Stato nella sfera economica e in quello del mercato (il mercato finanziario). Questa preponderanza dell’ “etica” non fa che tradurre il ripiegamento sulla sfera privata che caratterizza l’ideologia individualista e la logica dell’accumulo patrimoniale, il rifiuto della visione globale del cambiamento sociale e dell’azione collettiva. Nell’”investimento etico” le norme finalizzate a limitare gli eccessi del mercato debbono trovare la loro fonte e la loro legittimità nella coscienza morale degli investitori, individuali o collettivi.

Queste nuove pratiche confinano il sindacalismo alla difesa d’interessi particolari, quelli dei lavoratori delle grandi imprese, non tutelando la concezione socializzata del salariato, quella che ingloba i lavoratori ai margini delle grandi imprese (salariati delle PMI, lavoratori interinali, etc.) e quelli nettamente più precari, ai margini del mercato del lavoro (disoccupati di lunga durata, giovani con difficoltà d’inserimento, etc.). Così facendo si sostengono le disuguaglianze salariali, che di fatto sono aumentate negli ultimi due decenni, nell’America del Nord come in molti paesi europei. In più si rischia in ogni momento di far scoppiare il conflitto d’interesse, inerente il rapporto capitale-lavoro, rappresentato nelle posizioni antagoniste di azionariato e salariato e che si esplicitano nel permanente conflitto sulla ripartizione del valore aggiunto (profitti/ salari).

Ciò senza contare le contraddizioni che questi rapporti celano quando si esce dagli Stati Uniti. I sindacati in genere, e in particolar modo i sindacati nordamericani, hanno sempre ostentato una concezione strettamente “nazionalista” (anche regionalista) della difesa dei posti di lavoro e le solidarietà internazionali costruite intorno ai “soldi dei lavoratori” rischiano di andare in frantumi in poco tempo quando si metteranno in concorrenza i diversi interessi nazionali.

Inoltre la militanza dell’azionariato sindacale si appoggia a dispositivi di risparmio pensione specifici (i FP a prestazioni definite) che restano per la maggior parte volontari e che negli Stati Uniti sono rimessi in discussione dai datori di lavoro a favore di dispositivi di risparmio salariale individuale o di dispositivi “ibridi” (Roberts e Sauviat, 1999).

Ciò premesso i FP a ripartizione definita, non offrono le stesse garanzie di rappresentanza collettiva dei FP a prestazioni definite, quando sono diretti dai partecipanti e non più dai trustees. Infatti non si fa che rimandare i lavoratori ad una trattativa individuale, non con i loro datori di lavoro, ma con i gestori dei fondi in una relazione tra prestatore e cliente. Il declino tendenziale dei FP a prestazioni definite, i soli a dare un potere di rappresentanza sindacale, non rischia di tagliare le basi stesse delle strategie sindacali d’attivismo azionario? E l’arresto brutale nel 2000 del ciclo di stima continua delle azioni e del clima di euforia borsistica propria degli anni ‘90 non rischia di indebolire considerevolmente questa strategia?

La scelta della cogestione del risparmio pensione o del risparmio salariale come mezzo privilegiato per ricostruire un rapporto capitale/lavoro più favorevole ai lavoratori, per far riconquistare un potere di negoziazione, con una parte del valore aggiunto più “equo” o più “equilibrato”, altresì finalizzato a far acquisire ai medesimi un maggior potere di decisione, si pone a seconda degli ordinamenti propri di ciascun paese (i sistemi di protezione sociale) e dei rapporti di forza tra gli attori. La risposta è lontana dall’essere universale sia per la sua legittimità che per la sua efficacia. Invitare i sindacati a rivendicare, in quanto azionisti, e a convalidare tutto ciò facendo riconoscere i diritti di “proprietà” comporta il rischio di una crescente frammentazione della rappresentanza degli interessi dei lavoratori, sia sul piano nazionale che su quello internazionale. In questo senso le differenze tra paesi si sono accresciute con la globalizzazione finanziaria.

Non è certo che la figura dell’”azionista sindacale” sia la più adatta a conquistare, o meglio a riconquistare, a livello delle imprese e più largamente dello Stato, un potere di negoziazione e di decisione che la parte sindacale ha perso o non ha mai ottenuto come parte collettiva a livello nazionale, o sopranazionale. Il bilancio delle strategie nordamericane, da questo punto di vista, non è assolutamente convincente.

 

 

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